Quanti tavoli aveva Italo
Calvino? Stando a Pietro Citati erano almeno tre. Nella casa di
piazza Campo Marzio lo scrittore lavorava contemporaneamente su tre
diversi tavoli. A detta di Giuseppe Conte i tavoli erano cinque o
più. Ma se si legge la precisa ed elegante introduzione con cui
Claudio Milanini presenta il primo volume che raccoglie i romanzi e i
racconti dello scrittore ligure, si scopre che i tavoli,
indipendentemente dal loro numero, sono sempre uno in più. Il tavolo
+1 è quello su cui Calvino continua a scomporre e ricomporre le sue
opere, a correggerle, tagliarle, integrarle, riordinandole e
rimaneggiandole per lunghezza, ordine e disposizione.
Le centocinquanta pagine
di «Note e notizie sui testi» curate con competenza da Milanini.
Mario Barenghi e Bruno Falcetto, co-curatori del primo tomo dei
Romanzi e racconti, dimostrano come lo scrittore emendasse e
correggesse da un'edizione all'altra, senza neppure avvisare i
lettori, tanto che la prima edizione del Sentiero dei nidi di
ragno, quella del 1947, è diversa dalla seconda del 1953 e
soprattutto da quella «purgata» del 1964, l'edizione definitiva per
cui Calvino scrisse un'importante prefazione, capitolo fondamentale
della propria autobiografia letteraria, con cui riscrive di continuo
se stesso. Oppure la complessa vicenda del rimaneggiamento del volume
di racconti Ultimo venne il corvo del 1949, di cui Falcetto ci
offre due pagine di vera e propria sinossi; o ancora quella bigama
della Speculazione edilizia che continua a circolare in
un'edizione breve, compresa nella raccolta dei Racconti, e in una
lunga, nel volume che porta questo titolo, per fare solo tre esempi
tra i molti che si leggono nelle note.
Labirintiche
revisioni
Vi è una difficoltà
obiettiva a raccogliere gli scritti di Calvino in vista di
un'edizione complessiva basandosi su questa continua lavorazione e
nello stesso tempo esiste il problema di considerare la cronologia
delle opere dello scrittore ligure come definitiva sulla base delle
date di stampa o su quelle indicate nei manoscritti originali.
Per districarsi in questo
mare di problemi pratici e «teorici», i curatori, valenti studiosi
dello scrittore ligure, hanno seguito tre criteri: separare i libri
messi insieme dall'autore da quelli postumi, che usciranno
presumibilmente nel terzo volume: seguire l'ordine cronologico di
pubblicazione (il primo volume arriva al Marcovaldo che è del
1963 in volume, ma uscito sui giornali negli anni '50 e legato
decisamente a quel periodo), scelta che ha il pregio di riproporre
l'immagine dell'opera secondo la scansione che ne dette l'autore;
evitare ripetizioni, sciogliendo così il volume de I racconti e
nel prossimo tomo quello delle Cosmicomiche vecchie e nuove
del'1984.
Il risultato finale non è
un'opera critica, per cui sarebbero occorsi tempo e apparati a non
finire, data la natura stessa del lavoro di Calvino, ma un insieme di
note e notizie che ricostruisce la storia dei testi, in modo
leggibile anche per il non specialista, dove sono fornite anche le
varianti a stampa delle diverse edizioni. Lo stesso riferimento ai
manoscritti originali è usato con parsimonia per sciogliere i dubbi
più evidenti e non per inseguire con acredine filologica i meandri
della redazione dei testi.
La questione delle
correzioni e revisioni d'autore non è solo un argomento filologico
destinato a creare problemi ai curatori dell'opera edita e inedita
dello scrittore ligure, ma è un tema centrale dell'opera di Calvino,
è appunto quel tavolo in più che solo ora riusciamo a vedere con
chiarezza.
Al centro del lavoro
dello scrittore ligure, oltre alla correzione delle opere edite c'è
una «consuetudine a intrecciare sperimentazioni molteplici» che
s'accompagna alla «tendenza a riprendere e sviluppare spunti emotivi
a lungo sedimentati nella memoria». Per fare solo un esempio, i
curatori, che hanno potuto accedere alle carte dell'archivio di
Calvino, ci avvisano che Le città invisibili, capolavoro di
stile e di pensiero, erano già state «delineate con chiarezza in
una sceneggiatura cinematografica del 1960», intitolata Marco
Polo, e probabilmente mai girata.
Dunque Calvino non solo
continuava a correggere e ricorreggere i suoi libri, operazione
consueta in autori che possono lavorare per un lungo arco di tempo,
ma ripensava ai propri libri come parti continuamente mutevoli di un
progetto di scrittura che andava via via focalizzando. Solo in questo
modo si può capire come egli possa essere uno scrittore attivo -
cioè che concepisce un intervallo di anni o persino di decenni tra
l'idea di un libro e il suo concretizzarsi - e insieme uno scrittore
retroattivo, per il quale «i testi rimasti inediti e i singoli
racconti apparsi su periodici o in sedi d'occasione costituivano una
riserva di materiale servizievole, pronto per il riuso, anche perché
spesso erano stati concepiti fin dal primo istante come parti di un
tutto, come tessere di un mosaico futuro».
Quella che si rivela qui
non è perciò solo un'etica della parsimonia, un gesto di
conservazione - lavorare con gli scarti, i pezzi apparentemente
secondari, secondo un metodo che è proprio della letteratura come
della cultura di questo secolo - ma l'idea di una letteratura come
progetto di sé.
In questo progetto etica
e gnoseologia, cioè «costume» e teoria della conoscenza,
coincidono perfettamente e convivono con una pratica artigianale di
cui le apparentemente fredde e geometriche Lezioni americane
sono da considerarsi il vero e purtroppo conclusivo manuale d'uso, il
fai-da-te della letteratura calviniana (forse non a caso incompleto,
o meglio, incompleto proprio perché conclusivo).
Per raggiungere questo
obiettivo, lo scrittore ligure non ha esitato a usare tutti gli
strumenti che un profondo conoscitore della macchina editoriale,
quale egli era, aveva a disposizione. Ben prima che Genette si
accingesse a studiare il paratesto, Calvino usava note editoriali -
se le scriveva da sé - prefazioni, apparati critici delle edizioni
scolastiche (per queste non esitava a tagliarsi), illustrazioni e
copertine per ampliare l'effetto dei suoi testi, per dirigerne la
lettura, per continuarne la scrittura, anche a posteriori, dopo che
l'opera aveva lasciato il suo tavolo e affrontato le fatiche della
stampa.
Calvino è uno scrittore
a posteriori che cerca di saltare il medium della stampa, di usarlo
materialisticamente, senza annullarlo, ma tenendo conto della sua
valenza produttiva. Per lui, in definitiva il vero referente è
sempre stato il pubblico dei lettori, e non per opportunismo ma, con
una lunga e cocciuta fedeltà a se stesso, per «ideologia», un
pubblico con cui cercava un rapporto che, sempre mediato dalla sua
opera, scavalcasse la classe intermedia dei recensori e dei critici,
dell'apparato intellettual-letterario che non sottovalutava, ma
neppure osannava o malediva.
La doppia vita dei
racconti
E' ovvio che l'essere
autore e redattore di quella che è poi stata la maggior impresa
editoriale del dopoguerra, l'Einaudi, lo ha aiutato, lo ha messo al
riparo di un ombrello che altri non possedevano. Ma Calvino è andato
ben oltre, facendo di quella opportunità, che pure altri hanno
avuto, una funzione attiva per il suo progetto di scrittore,
testimoniato dalla recente edizione delle lettere editoriali (I libri
degli altri).
Come sottolinea Milanini,
la doppia vita dei suoi racconti, stampati a sé o ricomposti in
volumi diversi, e paradigmatica del suo stile, delle sue strategie di
pensiero - Calvino va visto sempre più come uno scrittore-pensatore.
E racconti andrebbero considerate quasi tutte le opere narrative di
Calvino, dato che, salvo il romanzo d'esordio, tutti i suoi libri
sono composti di racconti - Marcovaldo, Le Cosmicomiche
- oppure costruiti come raccolte a tema - Le città invisibili,
Il castello dei destini incrociati - o incentrati sul tema del
raccontare racconti - Se una notte d'inverno un viaggiatore
-mentre le restanti sono state tutti riunite in libri di racconti, in
libri a volte diversi - Ultimo venne il corvo o l'onnivoro
Racconti, che comprende gran parte della produzione di Calvino
sino al 1958, o ancora Gli amori difficili (1970), ulteriore e
più breve miscelazione.
Gli stessi tre
romanzi-racconto che gli hanno dato la fama e la gloria presso il
pubblico giovanile, la trilogia araldica del Visconte (1952),
del Barone (1957) e del Cavaliere (1959), sono stati
concepiti per la pubblicazione in rivista, poi stampati in volume,
quindi riuniti in un «macrotesto» col titolo I nostri antenati
(1960) accompagnati da una introduzione che fa il paio con quella
successiva per la ristampa del Sentiero.
Forse non è un caso se
l'io devo di Calvino, l'imperativo categorico di scrivere un
romanzo realista, sia fallimentare, come testimoniano gli inediti del
Bianco veliero (1949), I giovani del Po (1951) e La
collana della regina (1953), di cui alcune pagine sono state
pubblicate come racconti.
Anche Palomar,
libro di racconti racchiusi in una complessa cornice
gnoseologico-tematica, apparso nel 1983, è la raccolta e riscrittura
di racconti in gran parte pubblicati su quotidiani, e mentre una
parte di essi è confluita in questo libro narrativo, un'altra è
andata a comporre, come si sa, un libro di saggi, Collezione di
sabbia, del 1984.
Forse si potrebbe
replicare che questa inclinazione al racconto sia un fatto di
talento, un talento riconosciuto a più riprese dall'autore stesso e
da lui inserito in una modalità tutta italiana, tuttavia il problema
è costituito dall'uso che Calvino fa di questo talento, dal modo in
cui lo piega alle sue esigenze.
Malinconia e
leggerezza
A lettura ultimata del
primo dei tre volumi dei testi narrativi di Calvino, resta il dubbio,
peraltro segnalato dal curatore nell'introduzione, che il problema
della lettura di Calvino rinvii a un altro luogo che non sia l'opera
omnia e che ancora una volta lo scrittore abbia messo in atto le sue
strategie per sottrarsi al lavoro di comprensione e classificazione
dei critici, che è poi il modo in cui vengono di solito disattivate
le opere, siano esse artistiche o letterarie, per consegnarle ai
museo o alla tassonomia storico-critica.
Calvino costituisce e
continuerà a costituire un problema, come sottolinea nella sua
sottile e complessa prefazione Jean Starobinski, un testo giocato
sull'opposizione tra la malinconia del tiranno e la leggerezza dello
scrittore.
Paradossalmente, il più
letterario dei nostri scrittori contemporanei, quello più intriso di
letteratura, il più pronto a calcolare le proprie distanze,
diversità ma anche somiglianze, rispetto a tutta la tradizione
italiana, risulta essere invece il meno letterato e il più
«pensatore», il più europeo, insieme ai suoi contrari e omologhi,
Galileo e Leopardi, nel passato, Gadda e Manganelli, nel presente.
Se parlare dei tavoli di
Calvino significa mettere a fuoco la pluralità del suo lavoro,
occorre però sottolineare la contiguità di questi tavoli, prima di
tutto quelli destinati alla narrazione e al saggismo; anzi, questi
tavoli non sono per nulla separati poiché, come dimostrano i due
ultimi volumi editi in vita, Palomar e Collezione di
sabbia, esiste un luogo comune da cui nascono opere che
conservano nella loro autonomia il segno di quella dualità. Inoltre
il retroterra del lavoro di Calvino è sovente giornalistico o
saggistico, come dimostra la raccolta postuma Perché leggere i
classici, che compare in libreria insieme a questo volume di
Romanzi e racconti, una raccolta da leggere in controluce alle
Lezioni americane, dal momento che gli scritti raccolti
appartengono perlopiù agli anni '80.
Calvino considerava i
diversi tipi di scrittura come vere e proprie «occasioni». Racconti
fantastici, esercizi di stile, saggi analitici (si veda la bellissima
lettura del Dottor Zivago del 1958 in Perché leggere i
classici), apologhi, libretti per melodrammi o azioni sceniche,
recensioni, interventi, testi per artisti, per lo scrittore sono solo
generi provvisori, scatole vuote da riempire di volta in volta di una
materia incandescente che urge ali suo pensiero e che solo il lungo e
paziente lavoro artigianale riesce a disciplinare.
Mentre il cuore è caldo,
la mente, estrema propaggine dell'uomo rivolta verso l'universo
sconosciuto, come l'ha definita un maestro contemporaneo, è in
Calvino fredda. In mezzo, tra cuore e mente, la scrittura è il
metodo, lo strumento con cui modulare quella conoscenza che nell'uomo
passa attraverso il linguaggio.
Il più disciplinato, il
più attento e sorvegliato, il più cartesiano dei nostri scrittori,
il più «concettuale», è anche un materialista perché riconosce
sempre la valenza materiale dell'atto dello scrivere, la corposità
delia sottile linea grafica della scrittura e quella del foglio
bianco. Scrivere è per lui situarsi nel mondo, è un atto di
presenza, ma anche un atto di suprema sottrazione.
Calvino, il più presente
degli scrittori contemporanei, il più noto, è anche il più
segreto, il più sconosciuto, come si deduce dalla cronologia di
Barenghi e Falcetto; e non c'è da dubitare che le biografie che si
succederanno nei prossimi anni guarderanno invece là dove non c'è
da guardare. La verità di Calvino, come la lettera rubata di Poe, è
perfettamente in mostra, è nel sistema del suo pensiero, è nella
continua finzione della sua opera, finzione di narrazione e finzione
di disposizione.
Manipolatore di
generi
Aprendo cornici su
cornici, manipolando le sue opere come mazzi di carte, giocando
abilmente col saggismo e la narrazione come il gatto con il topo,
sfuggendo ai generi, creando una maniera sua propria - alla maniera
di Italo Calvino - lo scrittore ligure ha cercato di seminare in
anticipo i suoi critici. Come è stato detto, egli sembra dettare la
lettura e l'interpretazione del sua opera o, come scrive Starobinski
verso la fine del suo inseguimento prefattivo: «Sfugge alla presa,
non perché s'ammanti di un qualche mistero, ma perché sviluppa, in
chiarezza assoluta, delle serie complete di argomentazioni e
contro-argomentazioni, praticando all'occorrenza l'arte per la quale
Montesquieu nutriva più stima: saltare le idee intermedie».
Questa è un'avvertenza
che un saggista-scrittore come Starobinski rivolge alla schiera dei
critici futuri, agli entomologi della scrittura che, armati di spilli
e manuali, percorrono imperterriti i prati della letteratura in cerca
di farfalle rare. Il lettore, invece, è abituato a compiere
quell'esercizio di elasticità; egli è già più leggero, è la
farfalla che va a posarsi sulle pagine di Silas Flannery.
Talpalibri – il
manifesto, 8 novembre 1991
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