Carnefice e vittima. Il senatore Joseph McCarty e lo sceneggiatore Dalton Trumbo |
Orson Welles, che quando
voleva essere cattivo non era secondo a nessuno, dei tempi della
caccia alle streghe maccartista diceva che «ci si accusava tra amici
per salvarsi la piscina, non certo la vita». Battuta brillante ma
menzognera. Perché le cose, ai tempi che racconta qui accanto il
grande vecchio Kirk Douglas, erano proprio serie. O sarebbero state
serie se non fossero state ridicolmente tragiche.
Nel clima e negli
equilibri politici molto cambiati dopo la fine della guerra, quando
l'America cominciò a percepire l'Urss non più come l'alleato con
cui era stata vinta la battaglia contro il nazismo, ma, piuttosto,
come un potente e pericoloso avversario, prese il via una sorta di
processo collettivo contro chi aveva avuto dei rapporti con il
comunismo, in un fiorire di «liste» che accusavano chi era
colpevole di simpatia per l'Urss.
La prima, stilata da
“Hollywood Reporter”, sotto il titolo Un voto per Joe Stalin,
spinse la House Un-American Activities Committee a convocare molte
personalità dell'industria cinematografica per verificare se era
vero che Hollywood era infiltrata dalla propaganda comunista. Ci fu
chi, come Walt Disney, Ronald Reagan e Adolphe Menjou, giurò che la
minaccia c'era, e seria. Altri - come John Huston e Lauren Bacall,
come Humphrey Bogart e Danny Kaye - risposero invocando il Primo
emendamento della Costituzione che garantisce il diritto di parola.
Dei quarantatre «comunisti» elencati in Un voto per Joe Stalin
diciannove dichiararono che non avrebbero risposto. Undici vennero
convocati. Degli undici un-friendly witnesses, come furono chiamati
quelli che scelsero di non parlare, l'undicesimo, eh sì, Bertolt
Brecht, decise di rispondere e collaborare. Sostenne poi di non aver
rivelato nulla. Gli altri dieci rifiutarono di rispondere alla
domanda fondamentale («siete ora o siete stato mai un membro del
Partito comunista?») invocando il Primo emendamento, furono accusati
di oltraggio al Congresso e divennero i famosi Hollywood Ten.
Mentre le grandi
produzioni, le Guild, le associazioni di Hollywood collaboravano alla
caccia ai comunisti, tra azioni giudiziarie, licenziamenti,
l'allontanamento sine die dagli studìos, il carcere (i dieci
furono tutti condannati a un anno), non si può dire che il problema
fossero le piscine. Qualcuno, come Dalton Trumbo, uno degli
sceneggiatori più importanti di Hollywood, dopo il periodo trascorso
in prigione, dovette abbandonare gli Usa e per dieci anni non firmò
più un lavoro con il suo nome, lasciando le sue sceneggiature ai
fronts, agli pseudonimi: proprio come nel film Il
prestanome, il primo che Hollywood ha dedicato, e siamo nel 1976,
a questa pagina nera della sua storia, qui rievocata attraverso le
figure di quattro amici - il regista Martin Ritt, lo sceneggiatore
Walter Bernstein, gli attori Zero Mostel e Herschel Bernardi - finiti
nelle liste nere.
Mentre il cerchio
dell'isteria si allargava e la furia della Commissione McCarthy
cresceva, molti, tuttavia, si rifiutarono di collaborare. Dashiell
Hammett finì in carcere, la sua compagna Lillian Hellman dichiarò
di non essere disponibile a cambiare le sue idee per la moda del
momento. Il musicista Elmer Bernstein si trovò, in seguito al suo
rifiuto to name names, a comporre musica per produzioni di
serie C.
Molti più furono quelli
che cedettero e denunciarono i compagni di lavoro. Edward Dmytryk, il
regista di Odio implacabile, ammise di essere stato comunista,
fece qualche mese di carcere, denunciò i suoi compagni di un tempo -
e la sua carriera rifiorì. Elia Kazan testimoniò contro gli amici,
con il risultato di disastrare molte vite, carriere, famiglie. Con
lui si schierò Budd Schulberg, autore di due tra i più bei romanzi
su Hollywood, Dove corri, Sammy? e I disincantati, e
poi, con Kazan, sceneggiatore di Fronte del porto - un film
che, paradossalmente, trova il suo discutibile nodo «morale»
proprio nella denuncia dei compagni di lavoro. E non c'è da stupirsi
se, quando Kazan venne premiato con un Oscar alla carriera, nel 1999,
non tutti lo applaudirono. Si vedevano chiaramente le braccia
incrociate e l'espressione di disapprovazione di Ed Harris e di Nick
Nolte.
Jules Dassin, il regista
di La città nuda, che in effetti era stato comunista ma aveva
lasciato il partito nel 1939, denunciato nel 1952 da Dmytryk e da
Frank Tuttle, lasciò gli Stati Uniti, rifugiandosi prima in Francia
e poi in Grecia. Su taluni si costruirono delle leggende perché il
loro nome era stato pronunciato per sbaglio. Vedi Lionel Stander, che
per un equivoco non trovò più lavoro per almeno dieci anni. O,
dall'altra parte, lo sceneggiatore Richard Collins che, divenuto un
friendly witness, finì per lasciare sua moglie, Dorothy
Comingore, che a «tradire» non ci pensava proprio, e le portò via
anche il figlio - sulla loro storia, con qualche libertà, sarà
fatto, nel 1991, con Bob De Niro, uno dei pochi film sull'argomento,
Indiziato di reato, cui ha collaborato, un-credited,
Abraham Polonsky, uno dei registi emarginati dagli anni del
maccartismo.
Mentre i nomi di attori,
registi e sceneggiatori scomparivano dallo schermo, i vari motori di
questa campagna repressiva, da McCarthy a Hoover, ogni tanto si
distraevano, come quando permisero nel 1952 che venisse realizzato
Mezzogiorno di fuoco, un grande western e, visibilmente, una
dura metafora e critica del conformismo maccartista. Ma fu anche
l'ultimo film che lo sceneggiatore Carl Foreman potè scrivere.
Poi, a poco a poco, la
macchina della cattiveria e della delazione cominciò a smontarsi.
Merito di gente come Ed Murrow, che dal suo programma televisivo,
come abbiamo visto in Good Night, and Good Luck, continuò
pazientemente a battersi contro McCarthy. Merito di star come Kirk
Douglas, Betty Hutton, Alfred Hitchcock, che, stanchi di questa
tragica pagliacciata, tornarono a cercare i loro collaboratori di
sempre. Merito del tempo. E se volete vedere i volti di quelli che la
pagliacciata ha schiacciato, comprate il dvd americano di Spartacus,
dove gli Hollywood Ten si presentano e si spiegano in quindici minuti
di un piccolo film del 1950 firmato da John Berry. Meritano la vostra
visita.
“il venerdì di Repubblica”, 28 giugno 2013
Nessun commento:
Posta un commento