29.5.14

Maccartismo. Una pagliacciata che distrusse tante esistenze (Irene Bignardi)

Carnefice e vittima. Il senatore Joseph McCarty e lo sceneggiatore Dalton Trumbo
Orson Welles, che quando voleva essere cattivo non era secondo a nessuno, dei tempi della caccia alle streghe maccartista diceva che «ci si accusava tra amici per salvarsi la piscina, non certo la vita». Battuta brillante ma menzognera. Perché le cose, ai tempi che racconta qui accanto il grande vecchio Kirk Douglas, erano proprio serie. O sarebbero state serie se non fossero state ridicolmente tragiche.
Nel clima e negli equilibri politici molto cambiati dopo la fine della guerra, quando l'America cominciò a percepire l'Urss non più come l'alleato con cui era stata vinta la battaglia contro il nazismo, ma, piuttosto, come un potente e pericoloso avversario, prese il via una sorta di processo collettivo contro chi aveva avuto dei rapporti con il comunismo, in un fiorire di «liste» che accusavano chi era colpevole di simpatia per l'Urss.
La prima, stilata da “Hollywood Reporter”, sotto il titolo Un voto per Joe Stalin, spinse la House Un-American Activities Committee a convocare molte personalità dell'industria cinematografica per verificare se era vero che Hollywood era infiltrata dalla propaganda comunista. Ci fu chi, come Walt Disney, Ronald Reagan e Adolphe Menjou, giurò che la minaccia c'era, e seria. Altri - come John Huston e Lauren Bacall, come Humphrey Bogart e Danny Kaye - risposero invocando il Primo emendamento della Costituzione che garantisce il diritto di parola. Dei quarantatre «comunisti» elencati in Un voto per Joe Stalin diciannove dichiararono che non avrebbero risposto. Undici vennero convocati. Degli undici un-friendly witnesses, come furono chiamati quelli che scelsero di non parlare, l'undicesimo, eh sì, Bertolt Brecht, decise di rispondere e collaborare. Sostenne poi di non aver rivelato nulla. Gli altri dieci rifiutarono di rispondere alla domanda fondamentale («siete ora o siete stato mai un membro del Partito comunista?») invocando il Primo emendamento, furono accusati di oltraggio al Congresso e divennero i famosi Hollywood Ten.
Mentre le grandi produzioni, le Guild, le associazioni di Hollywood collaboravano alla caccia ai comunisti, tra azioni giudiziarie, licenziamenti, l'allontanamento sine die dagli studìos, il carcere (i dieci furono tutti condannati a un anno), non si può dire che il problema fossero le piscine. Qualcuno, come Dalton Trumbo, uno degli sceneggiatori più importanti di Hollywood, dopo il periodo trascorso in prigione, dovette abbandonare gli Usa e per dieci anni non firmò più un lavoro con il suo nome, lasciando le sue sceneggiature ai fronts, agli pseudonimi: proprio come nel film Il prestanome, il primo che Hollywood ha dedicato, e siamo nel 1976, a questa pagina nera della sua storia, qui rievocata attraverso le figure di quattro amici - il regista Martin Ritt, lo sceneggiatore Walter Bernstein, gli attori Zero Mostel e Herschel Bernardi - finiti nelle liste nere.
Mentre il cerchio dell'isteria si allargava e la furia della Commissione McCarthy cresceva, molti, tuttavia, si rifiutarono di collaborare. Dashiell Hammett finì in carcere, la sua compagna Lillian Hellman dichiarò di non essere disponibile a cambiare le sue idee per la moda del momento. Il musicista Elmer Bernstein si trovò, in seguito al suo rifiuto to name names, a comporre musica per produzioni di serie C.
Molti più furono quelli che cedettero e denunciarono i compagni di lavoro. Edward Dmytryk, il regista di Odio implacabile, ammise di essere stato comunista, fece qualche mese di carcere, denunciò i suoi compagni di un tempo - e la sua carriera rifiorì. Elia Kazan testimoniò contro gli amici, con il risultato di disastrare molte vite, carriere, famiglie. Con lui si schierò Budd Schulberg, autore di due tra i più bei romanzi su Hollywood, Dove corri, Sammy? e I disincantati, e poi, con Kazan, sceneggiatore di Fronte del porto - un film che, paradossalmente, trova il suo discutibile nodo «morale» proprio nella denuncia dei compagni di lavoro. E non c'è da stupirsi se, quando Kazan venne premiato con un Oscar alla carriera, nel 1999, non tutti lo applaudirono. Si vedevano chiaramente le braccia incrociate e l'espressione di disapprovazione di Ed Harris e di Nick Nolte.
Jules Dassin, il regista di La città nuda, che in effetti era stato comunista ma aveva lasciato il partito nel 1939, denunciato nel 1952 da Dmytryk e da Frank Tuttle, lasciò gli Stati Uniti, rifugiandosi prima in Francia e poi in Grecia. Su taluni si costruirono delle leggende perché il loro nome era stato pronunciato per sbaglio. Vedi Lionel Stander, che per un equivoco non trovò più lavoro per almeno dieci anni. O, dall'altra parte, lo sceneggiatore Richard Collins che, divenuto un friendly witness, finì per lasciare sua moglie, Dorothy Comingore, che a «tradire» non ci pensava proprio, e le portò via anche il figlio - sulla loro storia, con qualche libertà, sarà fatto, nel 1991, con Bob De Niro, uno dei pochi film sull'argomento, Indiziato di reato, cui ha collaborato, un-credited, Abraham Polonsky, uno dei registi emarginati dagli anni del maccartismo.
Mentre i nomi di attori, registi e sceneggiatori scomparivano dallo schermo, i vari motori di questa campagna repressiva, da McCarthy a Hoover, ogni tanto si distraevano, come quando permisero nel 1952 che venisse realizzato Mezzogiorno di fuoco, un grande western e, visibilmente, una dura metafora e critica del conformismo maccartista. Ma fu anche l'ultimo film che lo sceneggiatore Carl Foreman potè scrivere.
Poi, a poco a poco, la macchina della cattiveria e della delazione cominciò a smontarsi. Merito di gente come Ed Murrow, che dal suo programma televisivo, come abbiamo visto in Good Night, and Good Luck, continuò pazientemente a battersi contro McCarthy. Merito di star come Kirk Douglas, Betty Hutton, Alfred Hitchcock, che, stanchi di questa tragica pagliacciata, tornarono a cercare i loro collaboratori di sempre. Merito del tempo. E se volete vedere i volti di quelli che la pagliacciata ha schiacciato, comprate il dvd americano di Spartacus, dove gli Hollywood Ten si presentano e si spiegano in quindici minuti di un piccolo film del 1950 firmato da John Berry. Meritano la vostra visita.

“il venerdì di Repubblica”, 28 giugno 2013

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