26.5.14

E Mastronardi scelse i vinti (Maria Corti)

L'articolo della Corti, acuto e persuasivo, colloca Lucio Mastronardi al giusto posto, cioè piuttosto in alto nella lista degli scrittori che hanno illuminato la società italiana del secondo 900 nelle sue pieghe e nei suoi anfratti. Fu scritto subito dopo che il Ticino restituì il corpo dello scrittore, tra la fine di aprile e i primissimi giorni di maggio del 1979. (S.L.L.)

Quando verso la fine degli anni Cinquanta Mastronardi cominciò a scrivere, Vigevano si era velocemente trasformata da sede di un ben noto artigianato calzaturiero in vero e proprio centro industriale della Padania, maturato al sole del boom economico, attivissimo nel fare tanti bei tipi di scarpe e di conseguenza tanti soldi. «Qui tutti ragionavano in termini di ragioneria», ricorderà più tardi lo scrittore. Il quale d'istinto, condendo di dolce ostinazione il suo smarrimento d'artista di fronte a siffatta realtà, si pose dalla parte dei vinti; e fra essi, si tratti di calzolai o maestri o patetici emigrati meridionali, scelse i protagonisti dei suoi romanzi, intuendo la forza di denuncia sociale che è privilegio dei vinti.
Appartenente alla generazione successiva a quella degli scrittori neorealisti italiani (la sua prima opera, Il calzolaio di Vigevano, uscì sulla rivista Menabò diretta da Italo Calvino e Elio Vittorini nel tardo 1959, e a volume nel 1962), Mastronardi sfugge alle loro lusinghe, non solo perché per natura non li sente compagni, ma perché ormai il clima socio-economico e culturale è così mutato che diviene impossibile la fiducia neorealistica in una trasformazione della realtà sociale, diviene utopistico quel senso della collettività come forza attiva nel contesto cittadino e forza comunicante, che era stato uno dei messaggi di Vasco Pratolini, tanto per fare un esempio.
L'universo artistico di Mastronardi è in ragione diretta della sua estraneità all'universo tecnologico degli indaffarati concittadini, il che gli consente un punto di vista alternativamente ironico-caricaturale e moralistico-spietato. Va detto però che ironia e satira in Mastronardi, che non è un pensatore, ma piuttosto un uomo che pensa per emozioni e per immagini, si mescolano alla curiosa, vitale compiacenza per la resa di un ambiente di lombardo ottimismo lavorativo che gli è così familiare. Non si tratta quindi del frequente amore-odio dello scrittore per la terra nativa; no, qui l'operazione è diversa, in quanto Mastronardi rovescia sul proprio strumento linguistico, sull'uso del dialetto e sugli incontri-scontri fra dialetto e italiano regionale lombardo, la propria carica umana di simpatia verso gli oggetti della narrazione; ne viene fuori quello stile per cui Contini ha parlato non a caso di «straordinario brio, fisiologicamente ottimistico». In forma assai schematica, e perciò riduttiva, si potrebbe dire che dalla realtà umana e sociale a Mastronardi viene lo stimolo all'ironia e alla satira o addirittura l'angoscia, mentre dal gioco linguistico viene sempre letizia.
Egli è forse lo scrittore del Novecento che ha offerto la più puntigliosa panoramica delle classi sociali della propria città; in tutto questo deve entrarci per un verso la sua professione di maestro elementare, che gli metteva i concittadini in passerella sotto forma di genitori, per un altro verso quella straordinaria piazza di Vigevano, che è di per sé palcoscenico cittadino e musa eccitante per una resa teatrale della corsa ai danée ovverossia soldi: così Mastronardi vi fa recitare a ognuno la sua tragicommedia.
Il primo posto spetta naturalmente ai calzolai, eroi vigevanesi per eccellenza a livello prima artigianale poi industriale; indi il ruolo esemplare passa ai maestri dentro la vecchia scuola italiana affaticata di burocrazia e poi passa alle nuove generazioni di emigranti e a tutte le croci dei vari travet (ovvero «poveri diavoli») locali e immigrati, per salire a poco a poco verso le mezze sfortune della piccola borghesia, dagli assicuratori agli impiegati d'ordine (vedi il racconto dal titolo appunto Impiegato d'ordine) e alle figurine indimenticabili che ci attendono entro i racconti poco conosciuti dagli italiani e editi in L'assicuratore del 1975.
E' una vera e propria tipologia padana a prendere luce: ecco le «sante» per esempio, fra cui la santa di Vigevano che abitava nella vallata di San Martino, vecchio rione della città, ed eseguiva tutti i compiti delle sante: guariva i malati, consigliava gli incerti e, come le varie sibille, dava spesso risposte stranissime, piccoli rompicapo; per di più emesse su «fotografie» di Gesù, formato tessera. Per i compensi, «sul tavolo c'era una scatola di scarpe con un buco sul coperchio». Incomparabile simbolo, quella scatola, della fusione fra bigottismo e industria, soldi per Dio e soldi per la banca.
Dietro i protagonisti e i deuteragonisti delle varie storie c'è il coro; ci sono loro, i vigevanesi della porta accanto o dell'aula accanto o della straordinaria piazza, c'è la massa di coloro che aspettano di salire i gradini del successo e dei conti in banca. Mastronardi li fa parlare e parlare, li fotografa linguisticamente nei loro dialoghi in dialetto o dialetto-lingua, nella continua conversazione di tutti con tutti. E' qui il suo vero godimento.
Con l'andare degli anni Mastronardi ha allargato il tiro di narratore, dalla Milano di San Vittore e della Galleria alla Roma del cinema; preparava la sua «commedia umana», come egli stesso disse in una intervista data poco, tempo prima della morte; è certo che dalle prime stesure, ancora inedite, del Calzolaio di Vigevano all'ultima elaborazione della Ballata dell'imprenditore vi è una chiara coerenza di cammino artistico.
Un viaggio fra gli uomini e le cose che Mastronardi ha bruscamente interrotto affidandosi, come Virginia Woolf, alla corrente del suo fiume, e come lei ripescato a valle. Dalla compagnia terrena dei vinti volle passare a quella degli artisti che nel corso dei secoli furono, per dirla con Borges, «avidi di non essere». Ogni uomo, e a più forte ragione un artista, ha un conto aperto di fiducia in sé che può ad un tratto andare in rosso. Ora tocca a noi dare un giusto posto nella memoria sociale e culturale a quest'uomo che non fu benedetto dalla fortuna e alla sua opera, che rispecchia come poche la storia politica ed economica del tardo dopoguerra e le avventure dei nostri dialetti a contatto con le parlate i regionali e con l'inventiva di uno scrittore autentico. Fra Mastronardi e noi non si frappone che l'ini giusto silenzio seguito alla sua morte, ma egli rimane nostro contemporaneo e ci chiede una più attenta familiarità.

“La Repubblica” , 1979

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