L'articolo della Corti, acuto e persuasivo, colloca Lucio Mastronardi al giusto posto, cioè piuttosto in alto nella lista degli scrittori che hanno illuminato la società italiana del secondo 900 nelle sue pieghe e nei suoi anfratti. Fu scritto subito dopo che il Ticino restituì il corpo dello scrittore, tra la fine di aprile e i primissimi giorni di maggio del 1979. (S.L.L.)
Quando verso la fine
degli anni Cinquanta Mastronardi cominciò a scrivere, Vigevano si
era velocemente trasformata da sede di un ben noto artigianato
calzaturiero in vero e proprio centro industriale della Padania,
maturato al sole del boom economico, attivissimo nel fare tanti bei
tipi di scarpe e di conseguenza tanti soldi. «Qui tutti ragionavano
in termini di ragioneria», ricorderà più tardi lo scrittore. Il
quale d'istinto, condendo di dolce ostinazione il suo smarrimento
d'artista di fronte a siffatta realtà, si pose dalla parte dei
vinti; e fra essi, si tratti di calzolai o maestri o patetici
emigrati meridionali, scelse i protagonisti dei suoi romanzi,
intuendo la forza di denuncia sociale che è privilegio dei vinti.
Appartenente alla
generazione successiva a quella degli scrittori neorealisti italiani
(la sua prima opera, Il calzolaio di Vigevano, uscì sulla
rivista Menabò diretta da Italo Calvino e Elio Vittorini nel tardo
1959, e a volume nel 1962), Mastronardi sfugge alle loro lusinghe,
non solo perché per natura non li sente compagni, ma perché ormai
il clima socio-economico e culturale è così mutato che diviene
impossibile la fiducia neorealistica in una trasformazione della
realtà sociale, diviene utopistico quel senso della collettività
come forza attiva nel contesto cittadino e forza comunicante, che era
stato uno dei messaggi di Vasco Pratolini, tanto per fare un esempio.
L'universo artistico di
Mastronardi è in ragione diretta della sua estraneità all'universo
tecnologico degli indaffarati concittadini, il che gli consente un
punto di vista alternativamente ironico-caricaturale e
moralistico-spietato. Va detto però che ironia e satira in
Mastronardi, che non è un pensatore, ma piuttosto un uomo che pensa
per emozioni e per immagini, si mescolano alla curiosa, vitale
compiacenza per la resa di un ambiente di lombardo ottimismo
lavorativo che gli è così familiare. Non si tratta quindi del
frequente amore-odio dello scrittore per la terra nativa; no, qui
l'operazione è diversa, in quanto Mastronardi rovescia sul proprio
strumento linguistico, sull'uso del dialetto e sugli incontri-scontri
fra dialetto e italiano regionale lombardo, la propria carica umana
di simpatia verso gli oggetti della narrazione; ne viene fuori quello
stile per cui Contini ha parlato non a caso di «straordinario brio,
fisiologicamente ottimistico». In forma assai schematica, e perciò
riduttiva, si potrebbe dire che dalla realtà umana e sociale a
Mastronardi viene lo stimolo all'ironia e alla satira o addirittura
l'angoscia, mentre dal gioco linguistico viene sempre letizia.
Egli è forse lo
scrittore del Novecento che ha offerto la più puntigliosa panoramica
delle classi sociali della propria città; in tutto questo deve
entrarci per un verso la sua professione di maestro elementare, che
gli metteva i concittadini in passerella sotto forma di genitori, per
un altro verso quella straordinaria piazza di Vigevano, che è di per
sé palcoscenico cittadino e musa eccitante per una resa teatrale
della corsa ai danée ovverossia soldi: così Mastronardi vi
fa recitare a ognuno la sua tragicommedia.
Il primo posto spetta
naturalmente ai calzolai, eroi vigevanesi per eccellenza a livello
prima artigianale poi industriale; indi il ruolo esemplare passa ai
maestri dentro la vecchia scuola italiana affaticata di burocrazia e
poi passa alle nuove generazioni di emigranti e a tutte le croci dei
vari travet (ovvero «poveri diavoli») locali e immigrati, per
salire a poco a poco verso le mezze sfortune della piccola borghesia,
dagli assicuratori agli impiegati d'ordine (vedi il racconto dal
titolo appunto Impiegato d'ordine) e alle figurine
indimenticabili che ci attendono entro i racconti poco conosciuti
dagli italiani e editi in L'assicuratore del 1975.
E' una vera e propria
tipologia padana a prendere luce: ecco le «sante» per esempio, fra
cui la santa di Vigevano che abitava nella vallata di San Martino,
vecchio rione della città, ed eseguiva tutti i compiti delle sante:
guariva i malati, consigliava gli incerti e, come le varie sibille,
dava spesso risposte stranissime, piccoli rompicapo; per di più
emesse su «fotografie» di Gesù, formato tessera. Per i compensi,
«sul tavolo c'era una scatola di scarpe con un buco sul coperchio».
Incomparabile simbolo, quella scatola, della fusione fra bigottismo e
industria, soldi per Dio e soldi per la banca.
Dietro i protagonisti e i
deuteragonisti delle varie storie c'è il coro; ci sono loro, i
vigevanesi della porta accanto o dell'aula accanto o della
straordinaria piazza, c'è la massa di coloro che aspettano di salire
i gradini del successo e dei conti in banca. Mastronardi li fa
parlare e parlare, li fotografa linguisticamente nei loro dialoghi in
dialetto o dialetto-lingua, nella continua conversazione di tutti con
tutti. E' qui il suo vero godimento.
Con l'andare degli anni
Mastronardi ha allargato il tiro di narratore, dalla Milano di San
Vittore e della Galleria alla Roma del cinema; preparava la sua
«commedia umana», come egli stesso disse in una intervista data
poco, tempo prima della morte; è certo che dalle prime stesure,
ancora inedite, del Calzolaio di Vigevano all'ultima
elaborazione della Ballata dell'imprenditore vi è una chiara
coerenza di cammino artistico.
Un viaggio fra gli uomini
e le cose che Mastronardi ha bruscamente interrotto affidandosi, come
Virginia Woolf, alla corrente del suo fiume, e come lei ripescato a
valle. Dalla compagnia terrena dei vinti volle passare a quella degli
artisti che nel corso dei secoli furono, per dirla con Borges, «avidi
di non essere». Ogni uomo, e a più forte ragione un artista, ha un
conto aperto di fiducia in sé che può ad un tratto andare in rosso.
Ora tocca a noi dare un giusto posto nella memoria sociale e
culturale a quest'uomo che non fu benedetto dalla fortuna e alla sua
opera, che rispecchia come poche la storia politica ed economica del
tardo dopoguerra e le avventure dei nostri dialetti a contatto con le
parlate i regionali e con l'inventiva di uno scrittore autentico. Fra
Mastronardi e noi non si frappone che l'ini giusto silenzio seguito
alla sua morte, ma egli rimane nostro contemporaneo e ci chiede una
più attenta familiarità.
“La Repubblica” ,
1979
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