Piacenza, Mosaico pavimentale della basilica di S. Savino. Particolare |
In principio furono due
re indiani.
Secondo la tradizione i
loro nomi erano Hashran e Balhait, e regnarono uno di seguito
all’altro.
Il primo inventò (o
chiese di inventare, non è chiaro) il nard, un gioco che
simboleggiava la dipendenza dell’uomo dal destino e dal caso. Il
nard era un gioco basato sui dadi, simile all’odierno
backgammon. Il re che lo seguì, invece, volle che ci fosse un
gioco che simboleggiasse il dominio della mente umana sul caso e sul
destino, che elevasse l’intelletto umano al di sopra del volere del
fato. Ed è a questo punto che furono inventati gli scacchi. Ovvero,
i loro antenati, il gioco dello shatranj (probabilmente
intorno al V o VI secolo).
Gli antenati degli
scacchi moderni consistevano in un gioco guerresco basato su
sessantaquattro caselle (all’inizio tutte bianche, non di due
colori), su cui due avversari accaniti si affrontavano, ognuno col
suo re, il suo ministro (il Firzan, al posto dell’odierna
regina), due elefanti (Al – fil) gli alfieri), due cavalli e
due Ruhks (carri, cioè le odierne torri). E, naturalmente, i
Baidaq, cioè i pedoni.
Anni dopo lo stesso
gioco, giunto attraverso la via della seta alle grandi città
Islamiche, cominciò a simboleggiare la struttura della società in
sé, avendo sia potentissimi monarchi che pedoni sfruttati e nobiltà
ricca di privilegi.
All’inizio del IX
secolo il gioco si diffuse verso occidente, verso Costantinopoli.
Probabilmente, il gioco fece la sua prima comparsa nell’odierna
Europa nell’anno 822, quando un fuoriuscito arabo li presentò
all’allora emiro di Cordova, Abd-al-Rahman II. Gli scacchi si
diffusero in Italia attraverso la Sicilia, e raggiunsero l’Occidente
secondo due direzioni: quella spagnola, e quella russa. Anche in
Europa continuarono a simboleggiare la perenne dicotomia tra dominio
del Fato e dominio dell’intelligenza. All’interno della basilica
di San Savino a Piacenza, l’anonimo autore di un mosaico li ha
usati per rappresentare un’antichissima disputa filosofica. Nel
mosaico pavimentale, nell’angolo in basso a sinistra è raffigurata
una partita a dadi e in quello a destra una partita a scacchi.
E cosa poteva mai farci
un mosaico del genere, in un luogo di culto?
Semplice: il gioco dei
dadi, a sinistra, rappresenta l’uomo dominato dal fato, in un mondo
caotico e senza regole, dove l’essere umano è lasciato a se stesso
ed è in balia degli eventi.
Alla sua destra invece,
l’uomo che gioca a scacchi è padrone della sua mente e del suo
destino, e gestisce da solo il proprio mondo, in virtù delle sue
capacità e della sua intelligenza. Ed ecco riproposto, a secoli di
distanza, l’antico duello tra nard e scacchi, solo in forma
medioevale.
Ma come si giustificano
le modifiche che il gioco ha subito attraverso i secoli? Prima di
tutto, l’elefante, animale poco conosciuto in Europa, venne
sostituito dall’alfiere (in Inghilterra dal Bishop, il vescovo, in
Francia dal Fou, il giullare). I pezzi divennero quelli a noi
familiari, dalle forme antropomorfe, perché le leggi cristiane non
proibivano la rappresentazione della figura umana, al contrario delle
leggi dell’Islam. C’era poi il problema della regina. Secondo la
storica Marilyn Yalom, la sostituzione del pezzo del “Ministro”
fu ispirato o dalla potente regina Adelaide, moglie di Ottone I del
Sacro Romano Impero, o dalla sua successiva regina Teofano. Resta da
notare che, almeno all’inizio, le possibilità di mosse del pezzo
della Regina erano molto limitate, cioè solo di una casella alla
volta, lateralmente. Ciò che cambiò le cose fu l’ascesa al
potere, nel ‘500, di Isabella di Castiglia, Elisabetta
d’Inghilterra, Caterina de’ Medici, Giovanna III di Navarra. La
nuova regina di Spagna era la personificazione stessa del nuovo
potere al femminile, e regnava con prestigio pari a quello del
marito. Perché, dunque, non avrebbe potuto farlo anche sulla
scacchiera?
È all’incirca a quella
data che risale la nascita degli scacchi moderni, come noi li
conosciamo, con le caselle a due colori che permisero di rendere il
gioco molto, molto più rapido. Casomai dovesse capitarvi di venire
eletti al parlamento inglese, sappiate che, in quell’augusta sede,
gli scacchi sono l’unico gioco permesso, in quanto gioco regale. E,
sappiatelo, non è un caso se ancora oggi il ministro delle finanze
inglese viene chiamato Cancelliere dello Scacchiere: nell’Inghilterra
medievale si eseguivano i conti in tabelle simili a scacchiere.
Ma penso di avervi
annoiato abbastanza con la storia. È decisamente ora di passare a
storielle più facete. Lo sapevate, ad esempio, che Napoleone, uno
dei più grandi geni militari della storia, era un pessimo giocatore
di scacchi? E dire che avrebbe dovuto capirne molto, di strategia.
Certo, li praticava, ma con scarsissimo successo. Scriveva George
Walker nel 1840: “Le aperture non erano il suo forte….si
spazientiva se il suo avversario ci metteva troppo a muovere. E se
gli capitava di perdere, il grande soldato si indispettiva e
diventava irritabile..”
Ovviamente, i suoi
avversari lo lasciavano vincere facilmente, timorosi dell’ira che
il più grande condottiero al mondo avrebbe dimostrato, se fosse
stato sconfitto in un giuoco di strategia. Tutti lo lasciavano
vincere. Tranne uno. Indovinate chi? Il sulfureo Talleyrand,
ovviamente, ministro degli esteri, che se la rideva di tutti e non
guardava in faccia nessuno. Già sulla scacchiera il grande
condottiero dimostrava quei difetti (come ingordigia, presunzione,
incapacità di fermarsi, eccessiva fiducia nelle sue capacità) che
lo portavano inevitabilmente a perdere le partite. Un giorno, quelle
stesse caratteristiche lo avrebbero portato a perdere tutto un
impero. Talleyrand invece, calcolatore freddo e metodico, sarebbe
morto di vecchiaia nel suo letto.
Lo sapete che, se un
pedone riesce ad attraversare tutta la scacchiera fino ad arrivare
all’ultima casella del campo avversario, può essere promosso? A
qualsiasi cosa si desideri: regina, torre, alfiere. Ed ecco un’altra
prova di quanto gli scacchi siano adattabili alla realtà della
specie umana: Napoleone stesso, all’inizio, non era che “un
piccolo caporale”. Ma si fece valere, attraversò le caselle una a
una, e si guadagnò il titolo di imperatore. Negli scacchi, come
nella vita, si può nascere umile pedone, per poi avanzare grazie ai
propri meriti e alle proprie doti.
Sapete chi era Marcel
Duchamp? Certo che sì. Tanto per esser semplici, era l’artista che
“mise i baffi” alla Monna Lisa. Ebbene, cominciò ad
appassionarsi agli scacchi a undici anni, nel 1898. Fascinoso,
disinvolto, al culmine della sua carriera rinunciò a tutto per
dedicarsi solo agli scacchi. Come se Obama ora vi dicesse “scusatemi,
mollo tutto per andare a giocare a biliardino”. Nemmeno un grande
amore lo allontanò da quest’ossessione. Disse un giorno, a
proposito, Albert Einstein: “Gli scacchi ti tengono in
catene…imprigionano mente e cervello limitando la libertà anche
dei più forti”. Nel 1927 Duchamp sposò la giovane Lydia
Sarazin-Lavassor. Passò l’intera settimana della luna di miele a
studiare aperture, problemi di scacchi, chiusure. Poco stranamente,
la novella sposa si sentì trascurata e umiliata e, una notte,
incollò tutti i pezzi sulla scacchiera per vendetta.
Altrettanto poco
stranamente, divorziarono tre mesi dopo.
dal sito “Asterischi”,
3 aprile 2014
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