Uno
sguardo al percorso lirico del grande poeta,
dal Porto
sepolto all'Allegria,
dal Sentimento del
tempo
alle ultime raccolte.
All'interno della poetica
di Giuseppe Ungaretti (1888-1970) - al pari di Montale il più grande
poeta italiano del Novecento - occupa una posizione di particolare
rilievo l'aspetto autobiografico. Come sostiene infatti lo stesso
autore, un'opera d'arte, per essere autentica e sincera, deve essere
necessariamente una «confessione». L'arte, e di conseguenza anche
la poesia, assume così una valenza di totalità, di unicità e di
irripetibilità.
I componimenti pubblicati
da Ungaretti sulla rivista "Lacerba" nel 1915, sono
caratterizzati da un andamento essenzialmente discorsivo e
descrittivo. Tale tendenza muta già l'anno successivo. Le poesie
contenute nella raccolta Il porto sepolto (1916) tendono
infatti verso quell'idea di poesia distante dalla "cronaca"
che si evidenzierà compiutamente nei versi dell'Allegria
(1931).
Ungaretti guarda al
Simbolismo, ne assorbe sino in profondità i preziosi insegnamenti
lirici, e conduce al limite il processo analogico marinettiano,
allontanandosi tuttavia da quella componente follemente dinamica ed
artificiosamente meccanicistica propria dei futuristi.
L'uomo oscilla tra la
memoria, nella quale pone i suoi ricordi, sia intimi che storici, e
l'innocenza, termine entro il quale Ungaretti colloca la brama di
purezza ed origine del soggetto, che anela alla riconquista della
dimensione autentica, pura, da Paradiso terrestre dell'esistenza. E
l'uomo, per potersi riavvicinare a questo ambito assoluto, totale
della vita deve annullare la distanza che lo separa da esso in
fretta, così da eliminare, come in una ideale immersione nel fiume
Lete del Purgatorio dantesco, le impurità, le sozzerie e le scorie
accumulate dalla nascita.
In questo senso,
inevitabile che per Ungaretti la poesia si circondi anche di veli
metafisici, trascendentali, religiosi inspiegabili, facendosi, come
scrive lo stesso autore, «testimonianza d'Iddio». Il poeta «vede e
vuole vedere l'invisibile nel visibile». La realtà, se osservata
con gli occhi sensibili dell'uomo creatore di versi, manifesta
l'imperscrutabile, ciò che all'individuo comune ed apatico resta
inaccessibile, dunque indicibile. Il poeta nelle maglie del visibile
intravede l'invisibile e se ne fa portavoce, riportandone le bellezze
misteriose e le contraddizioni affascinanti nero su bianco.
Formalmente parlando,
Ungaretti opera un drastico, a tratti brutale, annientamento del
verso tradizionale. L'autore si insinua nell'incredibile falla aperta
veementemente dall'innovativa e provocatoria sommossa letteraria
futurista, ma non avalla il caos, né il grido di guerra
dell'avanguardia marinettiana. Ungaretti trae piuttosto spunto da
Mallarmé, dal suo geniale, innovativo e più celebre componimento,
il poema Un colpo di dadi non abolirà mai il caso (1897).
Scrive l'alessandrino: «A diciotto anni nel 1906, avevo già
afferrato il primo segreto dell'arte. Sino dai banchi della scuola
avevo scoperto Leopardi e Baudelaire e Mallarmé e Nietzsche. Non
dico che capissi allora Mallarmé. Ma è la sua poesia così piena
del segreto umano dell'essere, che chiunque può sentirsene
musicalmente attratto anche quando ancora non ne sappia che malamente
decifrare il senso letterario».
In particolare, Ungaretti
assimila da Mallarmé il carattere magico ed arcano della poesia,
presenza scrutatrice accovacciata in quel lembo orfico ed oscuro
situato presso la dimensione inconoscibile dell'esistenza. La
«parola», sacro ed unico strumento a disposizione del poeta è
«illuminazione», essa rappresenta totalmente quell'«attimo» in
cui la lirica si avvicina all'assoluto sfiorandolo. La parola
trasporta nella realtà, e fissa fuori dal tempo, nell'eternità
l'istante miracoloso comunicando, per quanto possibile, il senso di
illuminazione provato dal poeta. Per questo motivo, essenziale
l'utilizzo della parola in tutta la sua purezza, garanzia di
immediatezza, sensibilità ed efficacia.
Tra le tematiche
fondamentali trattate da Ungaretti, la tremenda esperienza bellica
vissuta in prima persona. Il poeta si muove nei corridoi stretti,
asfissianti, insanguinati ed angusti delle trincee, e da ciò trae
un'ispirazione nuda, del tutto umana che lo porta a creare versi
straordinari, degni di occupare posti tra i più elevati e rilevanti
nel Parnaso della lirica italiana. La guerra forza l'uomo ad una
condizione di fragilità estrema. Il confine tra la vita e la morte
si assottiglia spaventosamente, fino a divenire quasi invisibile,
fino a spingere l'individuo a ringraziare il cielo per ogni nuova
alba intravista.
Significativi i titoli
delle prime due raccolte pubblicate da Ungaretti. Il porto sepolto
(1916) rappresenta l'abisso senza fondo, il baratro nel quale si cela
il mistero della poesia. Allegria di naufragi (1919) indica
invece quella ridente letizia, ilarità fondata sulla consapevolezza
della morte, che solo un sopravvissuto può provare, dunque
comprendere. E Ungaretti è un fortunato superstite, come lo sono
tutti i poveri soldati scampati ai proiettili, alle baionette ed alle
bombe, soldati che in fin dei conti non son altro che carne da
macello gettata brutalmente in un campo di battaglia. Il tema del
naufragio, affrontato e sviluppato già da Mallarmé, riporta
all'idea del viaggio, che contiene una forte ed evidente simbologia
mortuaria trattata magnificamente anche da Baudelaire - e non
possiamo che pensare alla lirica che conclude I fiori del male
(1857) - anch'esso poeta ammirato da Ungaretti.
Egli muta punto di vista
a partire dai versi composti nel 1919, e contenuti nella successiva
raccolta Sentimento del tempo (1933). Ungaretti prende le
distanze dalla dimensione istantanea caratteristica della sua
precedente produzione lirica. Il tempo assume ora consistenza,
continuità, durata. Non è più un tempo sospeso nell'attimo, bensì
dilatato in una successione di attimi continui. Di pari passo con
questo mutamento tematico, la ripresa, sul piano formale, di
soluzioni tradizionali, che risentono di due, immortali autori in
particolare: Francesco Petrarca e Giacomo Leopardi. Questo perché in
Ungaretti si insinua un sentimento decadente che lo porta a provare
un grande fascino per le rovine, per quello che, abbandonato a se
stesso, resta. Quello stesso sentimento di decadenza provato, non
senza angoscia, dai due illustri poeti.
Il cambiamento di
prospettiva di Ungaretti coincide, e non è affatto un caso, con il
suo soggiorno a Roma, dove si trasferisce nel 1921. La capitale
barocca cela un affascinante e straordinario enigma codificabile,
secondo l'autore, attraverso il ritorno all'arte di Michelangelo,
caratterizzata dalla fusione fra contrari, come ad esempio la
Giustizia e la Pietà, ma anche come Dio e l'Uomo-Cristo. La vita è
un perpetuo processo di distruzione-morte e creazione-nascita, che
esiste solamente se esistono entrambe le fasi, nelle quali si
manifesta la tragedia umana. L'uomo è un creatore che si muove nella
fragilità della sua esperienza esistenziale, la quale può aver
termine da un momento all'altro senza che egli se ne possa anche solo
rendere conto.
Abbiamo già accennato al
fatto che in questa fase poetica ungarettiana il tempo assume
consistenza. Si rincorrono le ore e le stagioni, non più l'attimo.
Il tempo da frammento diviene processo che si sviluppa dal mattino
alla sera alla notte, e dalla primavera all'estate all'autunno e
all'inverno.
La sosta romana ispira
inoltre in Ungaretti un inedito interesse verso il mito. È come se
il poeta, esauriti gli influssi infantili dell'Africa, dei suoi
deserti sconfinati e caldi e dei suoi beduini erranti, torni nella
culla della cultura occidentale, rappresentata appunto dalla
mitologia. Gli dèi e gli eroi riempiono quel vuoto immenso in cui
sprofonda Ungaretti quando ammira e contempla nella città eterna un
monumento millenario come il Colosseo, definito splendidamente un
«enorme tamburo con orbite senz'occhi».
Della suddivisione in tre
momenti del Sentimento del tempo scrive lo stesso poeta. E
sono parole che illuminano il cammino del lettore. «Nel primo mi
provavo a sentire il tempo nel paesaggio come profondità storica;
nel secondo, una civiltà minacciata di morte mi induceva a meditare
sul destino dell'uomo e a sentire il tempo, l'effimero, in relazione
con l'eterno; l'ultima parte del Sentimento del tempo ha per titolo
L'amore, e in essa mi vado accorgendo dell'invecchiamento e
del perire della mia carne stessa».
La sezione centrale della
raccolta è intitolata La fine di Crono (il padre di Zeus,
appunto simbolo mitologico per eccellenza del tempo). Il tempo è
colto nella sua duplice valenza, è sia assoluto che personale. Si
rivolge al tutto, all'immensità, ma anche all'individualità del
soggetto. In questa sezione si rincorrono ed alternano varie
tematiche, tutte affrontate da Ungaretti con la delicatezza e la
potenza espressiva che caratterizzano sempre la sua attività
poetica: si accenna ancora alla fondamentale esperienza del viaggio
(basta leggere una scarna biografia del poeta per comprendere la sua
indole di viandante); il paesaggio assume grande importanza; trovano
ampio spazio originali rielaborazioni di temi tipicamente
leopardiani; l'amore si congiunge alla morte e la luna viene invocata
con sublimità; i sensi urlano e divengono incontenibili. Fino a
quando negli Inni torna a prevalere la religione. La preghiera e le
invocazioni denudano l'anelito a sfuggire le contraddizioni, e a
riscoprire una purezza paradisiaca perduta agli albori dell'umanità,
che viene sognata ricorrentemente.
Giunge a sbarrare il
cammino regolare dei giorni, dei mesi e delle stagioni la stampa del
volume di poesie Il dolore (1947), che contiene le liriche
scritte nell'ultimo decennio. Un titolo tanto eloquente dice molto,
c'è ben poco da aggiungere. Nella raccolta Ungaretti concentra tutta
la sofferenza ed il turbamento che devastano la sua intimità (dovuti
soprattutto alle morti improvvise del caro fratello e dell'amato
figliolo di soli nove anni), ma anche la collettività (e ritorna
l'esperienza terribile della guerra). Il dolore è così grande da
ammutolire persino lo stesso autore, che evita di apporre inutili,
superficiali note ai componimenti. Ungaretti si esprime solamente con
questa secca, aspra e commovente osservazione: «So che cosa
significhi la morte, lo sapevo anche prima; ma allora, quando mi è
stata strappata la parte migliore di me, la esperimento in me, da
quel momento, la morte. Il dolore è il libro che più amo, il
libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola. Se ne
parlassi mi parrebbe d'essere impudico. Quel dolore non finirà più
di straziarmi».
Successivamente all'amato
Dolore, Ungaretti pubblica tre anni più tardi La terra
promessa (1950). Nella raccolta sono contenuti i «frammenti» di
un disegno letterario piuttosto ampio, concepito nel 1935, ma mai
realizzato. Il poeta pensò negli anni Trenta alla creazione di un
melodramma che avrebbe dovuto comprendere anche musica e cori. Al
centro il personaggio mitologico di Enea, le sue imprese eroiche,
epiche, l'amore straziante di Didone e la conseguente morte
dell'eroina devastata dalla passione non ricambiata.
Riverberi del melodramma
si trovano anche nel Taccuino del vecchio (1961), che
comprende le poesie scritte dal 1952 al 1960, per lo più Ultimi
cori per La terra promessa. Tuttavia il mito torna a lasciare il
passo all'io intimo del poeta che, sospeso fra il tempo e la fine,
oramai imminente, prova a stilare un rendiconto risolutivo della sua
vita, dunque, della sua poesia.
Giuseppe Ungaretti si
spegne a Milano nella notte tra il 1° ed il 2 giugno del 1970, alla
veneranda età di ottantadue anni. In fin dei conti egli è stato un
longevo sopravvissuto. I funerali si svolgono due giorni dopo a Roma,
nella Chiesa di San Lorenzo fuori le Mura. Magnifiche le parole
d'addio pronunciate dal critico letterario Carlo Bo (1911-2001):
«Giovani della mia generazione in anni oscuri di totale delusione
politica e sociale, sarebbero stati pronti a dare la vita per
Ungaretti, e cioè per la poesia».
Ungaretti è la poesia,
ancora oggi, e la sua lezione riecheggia nitida, potente e toccante
attraverso i suoi versi splendidi al di là del tempo, inondando di
commozione e gratitudine tutti i cuori devoti alla lirica.
Pagina 99, 27 febbraio 2014
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