Una illustrazione di Frank Martin per una edizione USA del "Lazarillo" |
Un povero mugnaio
processato per furto ed esiliato, una madre vedova che fa la
lavandaia per tirar su i figlioletti, un bambino orfano e denutrito
che si mette a servizio di un mendicante cieco, di un prete sordido e
avaro e di uno scudiero millantatore e povero, ed è costretto a
subire ogni sorta di privazioni e di angherie... Potrebbero essere
gli ingredienti tipici di un romanzo ottocentesco, magari d'epoca
vittoriana, destinato alla proba commiserazione dei lettori borghesi
e al pianto delle giovinette. Invece sono i personaggi, e i primi
avvenimenti, di un capolavoro della narrativa classica, spagnolo e
non inglese: il Lazarillo de Tormes, dato alle stampe verso la
metà del Cinquecento e rivolto a un pubblico più incline, con ogni
probabilità, a divertirsi e a sorridere beffardamente che a versare
lacrime.
L'occasione di riproporne
la lettura e di metterne in luce, se è possibile, alcuni aspetti
ancora controversi (tanto più attuali e godibili, comunque, nella
loro ambiguità) ci viene da una recente riedizione italiana
(Anonimo, Vita di Lazarillo de Tormes e delle sue fortune e
avversità, a cura di Rosa Rossi, Editori Riuniti, pagg. 73, lire
2.700), in cui la vecchia traduzione della Rossi, già apparsa nel
1967, è accompagnata da una nuova introduzione critica
opportunamente aggiornata (della stessa Rossi) e dal corredo delle
preziose illustrazioni ottocentesche di Meissonniet.
Niente, in effetti, è
più lontano dal Lazarillo de Tormes che il moralismo
edificante della povertà derelitta; niente gli è più estraneo di
una qualsiasi petizione di affetto o tentativo di seduzione rivolti
al decoro sociale e ai buoni sentimenti dei lettori. La prima virtù
di quest'opera concentrata e crudele è la sobrietà. L'autore,
rimasto anonimo probabilmente per ragioni di prudenza (siamo in
Spagna, agli albori della Controriforma), è riuscito a escludere dal
proprio testo tutto ciò che non è narrazione pura. Egli è
debitore, sul piano dei contenuti, d'una tradizione medievale ricca
di apologhi, «historietas» e «fabliellas» per lo più di taglio
popolare, dove la degradazione sociale è già apparsa nei toni più
crudi e ha dato vita a un'ampia e pittoresca tipologia di reietti; ma
si rivela un potente innovatore sul piano del gusto, delle scelte
linguistiche, della capacità di rielaborazione dei modelli di cui
può disporre. Non inventa nulla di nuovo, forse, ideando il
furfantello servitore di molti padroni, il prete sfruttatore o il
mendicante abbietto; crea, però, un prototipo della «novela
picaresca», e del romanzo moderno in genere, quando combina assieme
tutti questi elementi alla luce di una nuova prospettiva strutturale.
Il suo segreto è la
straordinaria forza dell'«io narrante». Si può dire che una nuova
civiltà del racconto nasce, in Europa, nel momento in cui l'autore
del Lazarillo ha il coraggio di far credere ai suoi lettori che una
storia come quella — la storia di un miserabile accattone e delle
sue squallide avventure — possa essere narrata in prima persona da
lui stesso; e per di più senza il puntello di cornici allegoriche,
di mediazioni fantastiche o volutamente fiabesche, di coperture
ideologiche o moraleggianti: così com'è, insomma, come se fosse
stata realmente vissuta e scrupolosamente annotata da chi ora la
racconta.
Siamo, dunque, dinanzi a
una finta autobiografia: e lo dimostra anzitutto lo stile, che,
infallibile per potenza e schiettezza evocativa quanto è denso di
cultura e di accorgimenti simbolici, rivela indubbiamente la
personalità di un umanista piuttosto che il talento grezzo di uno
scrittore improvvisato. Ma proprio questo è il punto. Sull'ambiguità
accattone-narratore colto si fonda la segreta strategia del libro: la
cui inventiva consiste essenzialmente nella capacità di ribaltare i
codici della letteratura «alta», forzandoli ai bisogni e agli
imprevisti di una materia servile.
Si pensi alla forza
provocatoria di un simile disegno in una cultura come quella
cinquecentesca, tesa a esibire in ogni campo e per ogni categoria
sociale modelli di comportamento (il «cortigiano», l'«arcade», il
«guerriero», il «perfetto cavaliere cristiano», e così via).
Quelli di Làzaro de Tormes non sono che i piccoli arrangiamenti di
un furfante; eppure, anche la sua storia adombra le cadenze di un
decalogo esemplare: mima ironicamente, cioè, i codici di un'arte del
vivere». Il cieco e lo scudiero sono i portatori di una finta
pedagogia edificante; il bambino è l'apprendista di una finta morale
di vita; l'esito di questo apprendistato — un equivoco ménage a
trois che assicura a Làzaro ormai adulto la sua brava
sistemazione economica — è proposto ai lettori col sussiego cinico
e rassegnato di un decoroso approdo alla sfera dei benpensanti.
Oggi sono un po' passate
di moda le interpretazioni in chiave sociologica del Lazarillo: non
si crede più (o sembra generico affermare) che quest'opera
rappresenti un tipico esempio di «realismo sociale», frutto del
disagio economico di un'epoca travagliata. Eppure, il problema della
forza e della qualità della sua straordinaria testimonianza resta
ancora da definire.
Giustamente, da qualche
tempo, si punta 1'attenzione sulle modalità squisitamente letterarie
e linguistiche, si analizza il testo, se ne studiano le tematiche e
l'ambiguo impianto strutturale; e con risultati spesso eccellenti
(nella sua introduzione, la Rossi ne traccia una breve, sostanziosa
rassegna), tanto da illuminare lunghi tratti del cammino percorso
dall'anonimo.
E tuttavia continuiamo a
porci la domanda: in quale ambito culturale, da quale progetto
individuale un ordito di così sottile ambiguità, racchiuso nel
breve arco di sette capitoli e governato, per di più, dalla ferrea
economia d'uno stile magro, da relazione oggettiva, ha potuto prender
forma e venir alla luce negli ultimi anni del regno di Carlo V, in
pieno riflusso di tendenze eterodosse ed erasmiane, nel mezzo d'una
cultura ufficiale che tende a chiudere o a disciplinare la mobilità
dei suoi parametri?
Francamente non crediamo
che la risposta debba cercarsi (come voleva Bataillon, con squisita
sensibilità «cinquecentesca») nell'ipotesi della semplice
«parodìa», dell'operetta di mero intrattenimento. C'è, in questo
libro, una vocazione allo scandalo e al ribaltamento dei valori
sociali, che non si può spiegare solo in termini di parodia o di
divertissement. Non si dovrà credere al «realismo sociale»
d'accordo; ma sarebbe altrettanto improprio disarmare il libro di
quella carica implicitamente, e ironicamente, sovversiva, che
rappresenta in ultima analisi la garanzia della sua piena leggibilità
a distanza di quattro secoli.
In questo senso,
riaccostarsi con coraggio al Lazarillo può essere istruttivo come
criterio generale di lettura: può ricordarci (pensando a tanta
narrativa più recente) che non ci è precluso il godimento di un
romanzo per il fatto che riusciamo a percepirne anche i veleni
nascosti e a coglierne l'intensità provocatoria.
“la Repubblica”, 6
settembre 1981
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