Pavia. La lapide al capitano Verri, morto da aggressore in Libia nel 1911 |
Libia: uno scacchiere
complicato dove, come dimostra l'assassinio avvenuto lo scorso
settembre dell'ambasciatore Usa Stevens e della sua scorta, anche
veterani della diplomazia e dell'intelligence possono essere
spiazzati brutalmente da scenari imprevisti. Del resto non è la
prima volta che succedono cose simili. Nel 1911 anche l'Italia
inciampa in qualcosa di analogo, quando sbarca sull'altra riva del
Mediterraneo, per conquistare una Libia che ancora non si chiamava
così.
Ora il nome del capitano
Pietro Verri non dice niente ai più ma, nell'autunno del 1911,
risuonò a lungo. La propaganda ne fece subito un eroe, tacitando
ragionevoli interrogativi sul perché uno sperimentato veterano dello
spionaggio come Verri fosse stato insensatamente esposto al fuoco
nemico, fulminato da una fucilata mentre guidava una pattuglia di
marinai contro soldati ottomani e guerriglieri libici.
Verri apparteneva
all'Ufficio I del Regio Esercito. Vale a dire lo spionaggio militare.
Aveva già operato brillantemente nell'intelligence: prima in
Eritrea e poi in Cina, dopo la rivolta dei Boxer a Pechino. Con lo
scoppiare della crisi libica era arrivato per tempo a Tripoli e,
fingendo di essere un ispettore portuale, grazie alla conoscenza
della lingua locale aveva allacciato contatti preziosi. Ma giunta la
guerra erano scoppiate, come al solito, tutte le solite italiche
rivalità. Tanto che, per fronteggiare la prime resistenze locali, la
superspia Verri finisce in prima linea, accanto ai reparti della
Regia Marina comandati dal capitano di vascello Umberto Cagni, famoso
esploratore polare scagliato nel deserto libico.
Nel libro dello storico
Nicola Labanca La guerra italiana per la Libia 1911-1931, da
poco pubblicato dal Mulino, non ci si sofferma sul ruolo di Cagni,
che in attesa del lento arrivo delle truppe di terra tiene Tripoli
con i soli marinai, né sulla missione dello 007 italiano, nonostante
che Verri venga immortalato da Gabriele d'Annunzio in una delle più
famose Odi d'Oltremare («Chi balza con lo stuolo irto di
ferri?/ È Pietro Verri...»). Pura propaganda bellica, ma
D'Annunzio, visto che i fratelli Albertini, proprietari del Corriere
della Sera, gli versano la vertiginosa somma di mille lire a ode, ne
sforna dieci in poche settimane (mille lire sono, in quegli anni, lo
stipendio annuo di un maestro).
Nel saggio di Labanca non
c'è spazio per questi dettagli, ma emerge un documentato e
articolato affresco delle fasi diverse che la guerra italiana in
Libia attraversa, dalla stagione giolittiana sino alla
«normalizzazione» imposta da Mussolini. Una «pacificazione»,
quella voluta dal fascismo, all'insegna dell'impiego dei mezzi più
drastici - deportazioni, campi di concentramento, fucilazioni
sommarie - utilizzati dal generale Graziani per domare la resistenza
locale. Quel Graziani a cui qualcuno ha eretto recentemente un
discutibile monumento ad Affile, suo «buen retiro» dopo i massacri.
Accanto a questi scorci, ampiamente trattati negli studi coloniali di Angelo Del Boca, è particolarmente interessante, nel libro di Labanca, la ricostruzione dettagliata delle contrapposte dialettiche che anche dentro questa guerra, come in tutte le guerre, accendono il «fuoco amico». In questo «campo di battaglia» fra italiani si fronteggiano, all'insaputa dei cittadini e nel silenzio della stampa, leader politici e generali, agenzie informative e comandi vari: tutti apparentemente al servizio dello stesso Paese.
Accanto a questi scorci, ampiamente trattati negli studi coloniali di Angelo Del Boca, è particolarmente interessante, nel libro di Labanca, la ricostruzione dettagliata delle contrapposte dialettiche che anche dentro questa guerra, come in tutte le guerre, accendono il «fuoco amico». In questo «campo di battaglia» fra italiani si fronteggiano, all'insaputa dei cittadini e nel silenzio della stampa, leader politici e generali, agenzie informative e comandi vari: tutti apparentemente al servizio dello stesso Paese.
In quel 1911 Giolitti non
si fida del suo ministro degli Esteri, Antonino di San Giuliano.
Entrambi poi cercano di emarginare il generale Spingardi, che pure è
il ministro della Guerra. Lo stato maggiore a sua volta, nel timore
di ripetere lo scacco di Adua, impone una spedizione da 100 mila
soldati ma, nella fretta, lascia sola la Marina nei primi passi della
missione.
Le cose non cambiano
neppure in seguito, quando - come ricostruisce con ampiezza Labanca
-, occupato stabilmente il territorio, è sempre guerra di tutti
contro tutti: soprattutto nel decidere quale politica seguire nel
fronteggiare la crescente ribellione e la guerriglia. Sino ai
siluramenti con cui Mussolini interviene a ripetizione nel ginepraio
di una Libia dove la resistenza agli italiani si fa sempre più
consistente.
La mischia per
controllare quei territori affronta bufere micidiali, che si alzano
non solo nel deserto, contro il nemico, ma all'interno degli apparati
e delle catene di comando. Serve tempo - anni, a volte decenni - per
rintracciare, grazie al lavoro dello storico, le piste dove cammina
la verità.
La Stampa, 29 dicembre
2012
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