Stefano D'Arrigo |
Il viaggio di ritorno
dell'eroe dalla guerra alla terra natale è il tema non solo
dell'odissea, ma di un poema epico, detto appunto dei ritorni che
idealmente lo completava e che è andato perduto: tema affascinante,
che dovette convergere con quello delle avventure marinare, diffuso
già in età pregreca nell'area mediterranea, se un frammento
egiziano, risalente al duemila avanti Cristo, ci presenta un
naufrago, aggrappato a una tavola, che sbarca su un'isola
meravigliosa; e tema occultamente religioso, in cui la meta era
costituita dall'origine e il conoscere diventava alla fine un
riconoscere. Dilatato nello spazio e prolungato nei secoli, sarà il
motivo conduttore dell'Eneide, il cui protagonista, approdando
alla terra degli avi, compiva il vaticinio di Apollo: «Ricercate
l'antica madre».
Annientamento
indecifrabile
Nell'epos antico Ulisse,
«bello di fama e di sventura», ritrovava a Itaca un mondo di valori
intatto, incarnato da Penelope, «colei che strappa il filo della
trama», la trama corruttrice degli usurpatori, per ricostituire il
tessuto dei diritti originari. Nell'epos moderno di Horcynus Orca
il protagonista non è più un condottiero vittorioso, ma un
marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina, che, sullo sfondo
della disfatta, varca lo stretto di Scilla e Cariddi per ritrovare un
mondo sfigurato da una corruzione mostruosa, di cui l'Orca è
1'emblema. E la sua morte casuale per mano di una sentinella, in un
primordiale scenario marino, non è che il suggello tragico del suo
precipitare verso un annientamento indecifrabile.
Leggere in chiave
simbolica Horcynus Orca mi sembra da un lato inevitabile, ma
dall'altro ri-schioso (...).
L'autore stesso sembra
sollecitare l'interpretazione simbolica, muovendo in una duplice
direzione: sia proponendo continue variazioni dei temi, come in un
contrappunto musicate o in una prospettiva il cui punto di fuga sia
l'infinito (si pensi soltanto alle «fere», ai delfini dello
stretto, e alla loro cangiante, iridescente vitalità, fatta di
ferocia e di leggerezza, di crudeltà e di seduzione, di amore e di
efferatezza); sia attenendosi, con una insistenza percussiva, a un
unico significato, che sopprime la polarità dei due termini e li fa
coincidere (si pensi alla definizione dell'Orca: «Era l'Orca, quella
che dà morte, mentre lei passa per immortale: lei, la Morte marina,
sarebbe a dire la Morte, in una parola»).
Eppure proprio la
ininterrotta potenzialità simbolica dovrebbe indurre alla cautela:
essa finisce per diventare non un problema da risolvere, ma un
problema da porre. Anziché decifrare i significati molteplici dei
simboli, come sempre è stato fatto, talora con finezza, spesso con
conclusioni divergenti, occorrerebbe forse chiedersi il senso della
loro onnipresenza enigmatica. In un mondo dove tutto acquista valenze
simboliche, di che cosa è simbolo il simbolo?
Se dovessi racchiudere in
una parola una risposta a questo interrogativo, dire: della
metamorfosi. E infatti Horcynus Orca è un mitico ed epico
poema della metamorfosi. Metamorfosi che non solo sconvolge il
paesaggio, devastandolo con le ferite della guerra, ma intacca la
coscienza dei pescatori, trasformandoli in speculatori, in divoratori
e commercianti delle ripugnanti «fere»; metamorfosi che rende il
figlio irriconoscibile al padre e che muta Ciccina Circe, la
traghettatrice notturna di 'Ndrja sulle acque dello stretto, la
custode di un universo di ombre, in una triviale apparizione diurna.
L'Orca stessa, squarciata dalle «fere» e morsa da nugoli di sarde,
diventa una immane carogna, il cui fetore ammorba l'aria, ma non
distoglie i «pellisquadre» dal tentativo di farne un immondo
traffico. E anche in quel lucido, quieto, estatico delirio che è il
soliloquio di 'Ndrja durante il colloquio con don Luigi Orioles, il
continuo sovrapporsi e mescolarsi e fondersi delle parole «barca»,
«bara», «arca» adombra la catastrofe tragica attraverso il
misterioso travaglio di una metamorfosi linguistica (...).
La metamorfosi imprime
un corso imprevedibile al linguaggio di D'Arrigo. In una stessa frase
si amalgamano e si trasformano, per attrazione reciproca, termini,
costrutti, intonazioni delle lingue locali della Sicilia,
francesismi, latinismi; i neologismi, che affiorano da sostrati colti
o popolari, divisi o intercomunicanti, si assimilano al contesto con
stupefacente naturalezza. Talvolta una parola stessa si trasforma nel
corso della sua articolazione, come in un processo di moltiplicazione
cellulare («finimondo, finimondorioles»). E questa plasticità è
insieme matrice e frutto di una idea dell'essere come continuo
divenire (...).
Incontro decisivo
La mobilità del
linguaggio dì D' Arrigo trova corrispondenza nella eccezionale
varietà dei registri stilistici e dei piani narrativi. Si pensi solo
all'inizio, luogo privilegiato del Romanzo, dove si concentrano
sempre, come in un nucleo genetico, le potenzialità dell'opera. In
Horcynus Orca esso si richiama alle precise coordinate di
tempo e di spazio della grande narrativa dell' Ottocento, ma
contemporaneamente le dilata in amplificazioni e-piche, con
l'implicito paragone del viaggio di 'Ndrja e del viaggio del sole:
«II sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del
quarto giorno, che era il quattro di ottobre del
millenovecentoquarantatre, il marinaio, nocchiero semplice della fu
regia Marina 'Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari
dello scill'e cariddi».
Ma già nel paragrafo
successivo la descrizione passa dalla oggettività impersonale allo
sguardo del protagonista e al linguaggio della sua memoria:
«Imbruniva a vista d'occhio e un filo di ventilazione alitava dal
mare in rema sul basso promontorio. Per tutto quel giorno il mare si
era allisciato ancora alla grande calmerìa di scirocco che durava,
senza mutamento alcuno, sino dalla partenza da Napoli: levante,
ponente e levante, ieri, oggi, domani e quello sventolio fiacco
fiacco dell'onda grigia, d'argento o di ferro, ripetuta a perdita
d'occhio».
La concezione del mondo
come metamorfosi, che ispira il poema di D'Arrigo, mi sembra
affondare le sue radici nella religiosità mediterranea e nel
prodigioso fiorire delle sue figurazioni a contatto con la civiltà
dei Greci: incontro decisivo per la storia dell'Occidente, che
produsse una mitologia di trasformazioni incessanti, degli dei, degli
uomini, degli animali, delle piante, degli elementi. Questo mondo
increato, soggetto a una continua metamorfosi, si manifesta in
Horcynus Orca non solo nei richiami espliciti che proiettano
la vita dei pescatori su uno sfondo di millenni (dalle fere-sirene a
Ciccina Circe, da Marosa-Penelope a Scilla e Cariddi): ma in una
visione mitico-religiosa che, varcando la mediazione trascendente del
cristianesimo, entra in conflitto tragico con la civiltà
contemporanea, fondata sull'assoggettamento della natura e sullo
spossessamento dell'uomo.
Perciò D'Arrigo ha
potuto creare un epos moderno, riprendendo, come Joyce nell'Ulisse,
il tema mitico: perché in una età in cui l'unico mito è la
dissoluzione dei miti arcaici, solo la tragedia incommensurabile
della loro perdita può essere il tema della tragedia. E si capisce,
in questa prospettiva, come D'Arrigo avesse scelto Holderlin per la
sua tesi di laurea, un poeta che aveva cantato la perdita degli dèi
in un'epoca di privazione.
Dolorosa fedeltà
Solo 'Ndrja, pur provato
da quella sofferenza muta che segna tutti i nostri passaggi ulteriori
e che coincide con una nuova coscienza della realtà, non si adegua a
quella metamorfosi che negli altri è corruzione: nella degenerazione
del mondo, è l'unico personaggio che conserva una oscura, dolorosa
fedeltà a se stesso. Perciò la morte che tronca la sua giovinezza è
insieme casuale e necessaria: la pallottola «che gli scoppiò in
mezzo agli occhi con una vampata che lo gettò per sempre nelle
tenebre», gli impedisce anche di aprirli a un mondo che non può
riconoscere come suo.
Postilla
Horcynus
Orca, il romanzo di Stefano
D'Arrigo, alla sua prima pubblicazione integrale nel 1975, dopo una
lunghissima gestazione documentata dalle anticipazioni in rivista,
suscitò vivaci polemiche sulla qualità dell'opera che fu giudicata
da taluni un capolavoro, da altri un fallimento, e sulle sue
possibili interpretazioni. Nel 1982 Mondadori fece accompagnare la
ristampa negli Oscar da una prefazione di Giuseppe Pontiggia, di cui
“Repubblica” anticipò la parte che qui riprendo. Credo che,
individuando nella “metamorfosi” il motivo centrale e nella fine
del divino il tema culturale più importante, Pontiggia suggerisca
percorsi e approfondimenti utilissimi a chi voglia prendere o riprendere in mano
quel gran libro siciliano. (S.L.L.)
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