Lucien Febvre fu uno
dei maggiori storici francesi del Novecento. Contribuì allo sviluppo
della storiografia del secolo scorso con una serie di importanti
studi e con la fondazione, insieme a March Bloch, della rivista di
storia economica e sociale “Annales”. Nel 1944, Febvre tenne una
serie di lezioni sul tema dell’Europa: la raccolta di tali
riflessioni è stata oggetto di una recente pubblicazione in Italia
(L. Febvre, Europa.
Storia di una civiltà, a cura di Thérèse
Charmasson e Brigitte Mazon, trad. di Adelina Galeotti, Feltrinelli,
2014).
L’Europa di Fevbre
nasce nel Medioevo, caratterizzato dalla diffusione del cristianesimo
e dal confronto con la cultura araba; cambia fisionomia con la nuova
cultura laica a partire dal Cinquecento e continua a svilupparsi sino
alla sua crisi determinata dalla nascita dei nazionalismi
ottocenteschi.(D.B.)
Capitello dell'Abbazia di Cluny |
In un’Europa ancora in
guerra, tra il 1943 e la fine del 1944, due storici, uno a Milano
l’altro a Parigi, raccontano ai loro studenti il profilo storico
della parola Europa.
Federico Chabod, il
primo, fino alla morte (nel 1960) tornerà spesso a scriverne (il
risultato sarà poi un libro che Laterza pubblica nel 1961 con il
titolo di Storia dell’idea di Europa). Lucien Febvre, il
secondo, impegnato da anni a definire in che termini e in che modi
occorra riflettere sull’Europa come «civiltà»: una parola, aveva
scritto nel 1930, la cui diffusione, a partire dalla fine del ‘700,
«designa il trionfo e il pieno sviluppo della ragione non solo nel
dominio costituzionale, politico e amministrativo, ma anche in quello
morale, religioso e intellettuale».
Nell’autunno 1944, in
una Parigi libera da poche settimane, Lucien Febvre prova a
riflettere con gli allievi che ha di fronte sull’Europa, un
progetto di cui tutti parlano al futuro. Per lui quel progetto non
avrà gambe se non avrà consapevolezza del passato.
Che cos’è dunque quel
passato? «L’Europa è sorta nel momento in cui l’impero romano è
venuto meno», dice Febvre citando e rendendo omaggio al suo amico
Marc Bloch, ucciso dai nazisti nel giugno 1944. Ma, insiste Febvre,
la sua nascita è un processo lungo che occupa tutta la seconda metà
del primo millennio. Un peso determinante più che l’impero
carolingio, ha l’espansione della Chiesa verso Est, fino alle
soglie della Russia. Conta sia l’atlante storico della diffusione
del cristianesimo (la geografia è una disciplina cui Febvre è molto
sensibile), sia come si muovono i suoi uomini sia, infine, dove si
trovano centri che li formano. Uno per tutti: l’abbazia di Cluny.
Dice Febvre che il cristianesimo esprime un elemento essenziale della
civiltà europea e il suo baricentro a lungo è stato rappresentato
dalla Chiesa. Il cristianesimo è sia un surrogato che un collante
che definisce una linea di demarcazione.
Questo surrogato è allo
stesso tempo in conflitto con il mondo arabo cui contende spazi di
terre e mari in un continuo «corpo a corpo» che dura almeno fino al
XIII secolo, ma anche «in cooperazione» e «in dipendenza». Dal
mondo arabo l’Europa prende saperi, tecniche, discipline, concetti.
L’idea non è quella di un’anticiviltà, ma di un conflitto per
il dominio riconoscendo valori, strumenti, tecniche, sistemi. Con gli
arabi si combatte, ma più spesso si commercia, si scambia.
Frequentemente si media. […]
Poi nel ‘500 la
fisionomia cambia. La cristianità non esprime più tutta l’Europa.
La riforma obbliga a trovare un nuovo fondamento. Ora sono i laici a
insidiare il dominio del cristianesimo. Da quel momento «spazio
europeo», anche se ancora non si chiama Europa, un nome che si
afferma dal ‘700, significa espansione verso Est, politica di
potenza verso l’Asia, insediamento nel Mediterraneo, ora percepito
come il proprio «lago salato».
Nel XIX secolo
l’insorgenza della nazione come attore principale provoca la crisi
dell’immagine dell’Europa. La nazione non è fatta da individui,
osserva Febvre, è fatta da gruppi che avvertono la dimensione
europea come proprio nemico.
È un segnale che parla
al nostro oggi. Scriveva Heinrich Mann all’inizio degli anni 20 che
l’Europa vive nella mente dei pensatori che si trasmettono questa
eredità di generazione in generazione, soprattutto nelle epoche in
cui gli europei sembrano aver dimenticato il nome Europa. Nel 1944
Febvre gli fa eco nella sintesi di queste sue lezioni, quando osserva
che l’Europa è un rimedio disperato e che di essa «non si è mai
parlato tanto quanto dopo il trattato di Versailles, dal 1920 a
oggi».
Settanta anni dopo il
quadro non è diverso. L’europeismo è in difficoltà e
l’antiEuropa sembra il sentimento che corre con più facilità per
le contrade d’Europa. Il testo di Febvre rimane un monito contro i
facili entusiasmi e soprattutto contro gli schematismi. Non c’è la
felicità, anche se qualcuno venti anni fa ha pensato che la parola
Europa evocasse, di per sé, percorsi trionfali. I termini della
questione sono più complicati.
Il Sole 24 ORE - 27 aprile 2014
Nessun commento:
Posta un commento