Frida Kahlo, Autoritratto |
«Né tu, né Derain, né io sappiamo
dipingere volti come quelli di Frida Kahlo». Così scriveva Pablo
Picasso a Diego Rivera dopo aver visto una mostra parigina della
pittrice messicana. Quando l’artista spagnolo parla di volti è
molto probabile che ne abbia in mente soprattutto uno: quello della
stessa Frida. Perché per lei dipingere è, in primo luogo, uno
strumento di indagine psicologica che ha come centro propulsore la
sua faccia. Frida Kahlo è l’interprete di un protagonismo
maniacale capace di vivisezionare la propria vita, il suo dolore, ma
anche di dimostrare al mondo una fiera resistenza a qualsiasi
avversità. Mentre il Messico si copre di pittura murale destinata al
popolo, lei, sempre controcorrente, si concentra su se stessa.
Frida si ritrae di tre quarti con il
suo sguardo scuro rivolto verso lo spettatore. Ti inchioda, ti spia
mentre guardi le gocce del sangue che fuoriesce dalla collana di
spine dipinta sul suo collo in un evidente riferimento alla
sofferenza di Cristo, destinata a essere redenta. E per lei l’unica
possibilità di riscatto è la pittura. Che diventa un costante
esercizio di sopravvivenza, un esorcismo giornaliero, capace di
lenire, di curare. A maggio per Electa uscirà la ristampa del suo
diario, ma anche i suoi quadri non sono altro che le pagine di un
racconto per immagini intimo e sfacciato.
Un diario tutt’altro che segreto.
Come quando Frida ci mette di fronte al suo aborto del 1932: ci
guarda dal foglio in cui disegna il suo corpo nudo che pare un
involucro svuotato da un mondo in frantumi. Sembra che all’ospedale
avesse chiesto un manuale di medicina, di quelli illustrati, per
poter mostrare, con la solita minuzia, quello che le era accaduto,
trasfigurandolo.
Si ritrae con un feto nella pancia e un
altro, molto più grande, quasi come il suo malessere, espulso fuori
di lei. E in mano tiene una tavolozza, rivelando come la sua arte
nasca da una sincera, quasi spudorata, indagine interiore. Sul volto
compaiono alcune lacrime, le stesse che ritroviamo nella luna che
assiste impotente alle vicissitudini di questa tragica eroina. Anche
il cocco delle nature morte che dipinge negli anni Quaranta lacrima.
Come se la natura non potesse fare a meno di partecipare alla sua
disperazione.
Tre lacrime, sempre le stesse, appaiono
anche nell’Autoritratto del 1948 che la ritrae nella veste
tradizionale delle spose messicane. Frida è quasi sempre vestita con
gli abiti della sua terra, ornata da ricche e bizzarre acconciature.
Propone di sé un’immagine regale in cui, però, si autoritrae con
durezza, accentuando la peluria sulle labbra e, a volte, mostrando
con baldanza il suo lato primitivo, animalesco.
Nell’Autoritratto con scimmia
c’è una chiara identificazione tra lei e l’animale, una vera
fratellanza: il suo volto è diventato un muso, i peli della testa
della bestiola sono decorati con un nastro come i suoi. Così il
personaggio Kahlo dimostra non soltanto il suo rapporto con qualcosa
di primordiale, ma anche la conoscenza dell’antica iconografia
della storia dell’arte che riconosce nella scimmia l’immagine
stessa della pittura perché entrambe compiono un processo di
imitazione. E lei dice spesso di non essere surrealista, ma di
dipingere quello che le capita.
Le mille immagini di Frida sono anche
quelle lasciate dagli altri, le foto che le hanno scattato. In mostra
ce ne sono di bellissime, opera di Leo Matitz e di Nickolas Muray.
Quest’ultimo la ritrae con amore, come un idolo in una foto che fu
la copertina di “Vogue” del 1939, come una donna di Vermeer
quando la fa sedere su una sedia gialla. Frida, neanche per lui, era
soltanto una.
la Repubblica - 19 marzo 2014
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