1944. Partigiani umbri e slavi della "Brigata Gramsci" operante in Valnerina |
Ascoltata oggi, è una
geniale provocazione sulla memoria. Da un lato può essere un invito
a dimenticare – “scurdammoce ‘o passato” , si cantava.
Dall’altra, e così mi piace di pensarla adesso, può essere una
feroce ironia verso chi dimentica il passato e quindi si prepara a
ripeterlo (la parodia continuava dicendo che ricorda solo che “era
un governo nero, e invece adesso è nero” – nel senso di
clericale: “s’hanno allungata la camicia nera”, cantava un
poeta proletario di Genzano, negli stessi anni). Uno striscione
esposto da un gruppo neofascista davanti a una scuola di Aprilia il
giorno della memoria diceva: “Ricordati di non ricordare”; ed è
proprio questa ingiunzione all’oblìo, questo ostinato ripetere “non
ricordo più”, a ribadire che certe memoria non si possono né
evocare né cancellare a comando. O, forse, la canzone può voler
dire qualcosa di ancora più complesso: sulla Resistenza, fin da
allora, convivono memoria e oblio; la Resistenza è al tempo stesso
l’evento più ricordato e più dimenticato della nostra storia
recente. Negli anni ’50, viene cancellata dalla memoria ufficiale
(chi, come me, ha fatto tutte le scuole in quel tempo, non l’ha mai
sentita nominare, se non per esorcizzarla) e contemporaneamente
bandiera della sinistra e del movimento operaio. Poi, negli anni ’70,
trasformata in rito istituzionale, più commemorata che ricordata; e
subito, come reazione, lo slogan militante “la Resistenza è rossa
e non democristiana” che, nel rivendicare la funzione di rottura e
di sguardo al futuro della Resistenza (l’aspetto “guerra di
classe” di cui parla Pavone), dimenticava tante altre realtà e
altre dimensioni (la “guerra patriottica”, la “guerra
antifascista”). La tensione di memoria e oblio sulla Resistenza
culmina in quel memorabile 25 aprile del 1994. Per la prima volta in
Europa, era al potere un partito che si richiamava esplicitamente al
fascismo (l’allora Movimento Sociale Italiano), in coalizione con
altre forze che si dichiaravano esplicitamente estranee al patto
democratico fondato sulla Resistenza, come Forza Italia e la Lega
Nord. “Si potrebbe…” intitolava allora il manifesto – si
potrebbe cogliere il 25 aprile per una forte affermazione di un non
dimenticato antifascismo; e in quel giorno di pioggia furono
centinaia di migliaia a sfilare per le strade di Milano.
Nei vent’anni che sono
passati da allora, la Resistenza ha ritrovato la sua funzione di
conflitto, di ribellione: la Resistenza era ancora attuale, presente
e provocatoria proprio perché il nuovo potere continuava
ostinatamente a volerla dimenticare. Tanto è vero che persino Silvio
Berlusconi ha dovuto finire per travestirsi da partigiano fingendo di
commemorare, tra le rovine di Onna, una Resistenza depurata di tutto
quello che la rende viva. In fondo è un paradosso, ma è un dato
della nostra storia e del nostro presente: il progetto della
Resistenza è quello di unire l’Italia, ma ridiventa vivo ogni
volta che c’è qualcuno a cui questo progetto di unità democratica
dà fastidio. E dà fastidio perché è un’unità partecipata, non
delegata – un aspetto della Resistenza che è dimenticato troppo
spesso anche da soggetti che si dicono antifascisti. In questi anni,
parlando coi partigiani e le partigiane, ascoltando le loro storie,
ho che capito per tutte e tutti la Resistenza, armata o non armata, è
stata una scelta personale confermata ogni giorno; nessuno gli
ordinava di entrare nella Resistenza, nessuno gli ordinava di
restarci; di ogni scelta, giusta o non giusta, ciascun resistente si
è assunto personalmente la responsabilità, nessuno ha mai detto
“obbedivo agli ordini”. La nuova Italia democratica nasce dopo
l’8 settembre, quando - senza che nessuno glielo abbia ordinato -
tanti cittadini, civili e militari, scelgono di opporsi ai carri
armati e ai paracadutisti tedeschi, a Porta San Paolo come a
Monterotondo. Nasce da qui il nostro prezioso articolo 1: “La
sovranità appartiene al popolo che lo esercita nelle forme e nei
limiti della Costituzione”. Sottolineo “che la esercita”
proprio perché da un quarto di secolo la democratica repubblica
partecipata nata dalla Resistenza è dimenticata in favore una
repubblica “governabile” in cui la sovranità si esercita
scegliendosi un capo e (come si diceva per Mussolini) “lasciandolo
governare”, o (come si dice adesso) “aspettiamo di vedere che
fa”.
Ma non dovremmo essere
noi – “il popolo sovrano" – a “fare”?
Patria Indipendente,
Aprile 2014
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