19.5.14

Medicina. Follia e logica nei germi di tifo offerti col tè (Giovanni Berlinguer, 1966)

Un articolo di Giovanni Berlinguer (fratello del più noto Enrico), medico e studioso di medicina sociale e preventiva, militante e dirigente del Pci sui temi della riforma sanitaria scritto per il mensile dei giovani comunisti, “La città futura”. Giovanni Berlinguer fu, con altri medici come Giulio Maccacaro e Maurizio Mori, tra i protagonisti nella battaglia per un sistema sanitario nazionale giunta a conclusione con la riforma degli anni Settanta, che avrebbe comportato importanti modificazioni nell'esercizio della professione medica e nel rapporto tra medicina e società.
E' probabile che gli specialisti trovino un po' superate alcune formulazioni dell'articolo: sono trascorsi quasi cinquant'anni e non sono mancate importanti acquisizioni scientifiche sulle patologie umane; e tuttavia di fronte a una sempre più evidente controriforma sanitaria, a un condizionamento capitalistico della medicina forte come non mai, mi sembra assolutamente attuale la metodologia dell'approccio. Tanto per fare un esempio, ho l'impressione che l'esempio giapponese aiuti a vedere il ritorno della "notula" e della sua follia non solo in certi interventi chirurgici non necessari di certi ospedali milanesi, ma anche negli incentivi di certe aziende ospedaliere pubbliche. 
A me pare inoltre che il modo di coniugare scienza e politica, di ragionare, di proporre problemi di un vecchio comunista italiano come Giovanni Berlinguer sia un (piccolo) contravveleno in una stagione intossicata, oltre che dal leaderismo che “fa sognare” e dal delirio dell'invettiva, anche dalla più crassa ignoranza. (S.L.L.)
Durante la recente vertenza fra i medici e le mutue, è risultato quanto fossero attuali il giudizio e l'appello che il dottor Bethune rivolgeva nel 1936, e che “La città futura” ha ripubblicato un anno fa, con il titolo Come la medicina può servire le rivoluzioni. Il giudizio era che la medicina «deve essere inquadrata e fondata nel contesto sociale, e non può essere considerata a parte: essa è il prodotto di una certa organizzazione sociale». L'appello ai colleghi medici era a considerare «che il nostro primo dovere è la sicurezza sanitaria del popolo, che i diritti umani sono superiori ai privilegi professionali».
L'appello risuona attuale anche perché, nell'occidente capitalistico, esso non ha finora avuto una larga eco. Quando il profitto e la sua ideologia dominano la società, quando le classi dominanti non offrono alternative morali e pratiche, sarebbe strano aspettarsi che una categoria professionale si orientasse solo per vocazione in senso opposto. Così, in Belgio i medici hanno scioperato contro le mutue, facendo coincidere l'agitazione con i giorni successivi alle ferie pasquali, in modo da prolungarle e da godersi lontano dai malati, nelle vicine località climatiche francesi e olandesi, un immeritato riposo. Negli Stati uniti la American medical association spinge le università a tenere altissimo il costo degli studi, in modo da ridurre la concorrenza: tanto che esiste una carenza di sanitari, in rapporto ai bisogni del paese. In Inghilterra, per il contrasto fra la medicina che è «socializzata» e la società che non lo è, migliaia di medici emigrano verso paesi che garantiscono guadagni più alti.
In Italia, gli ordini professionali hanno condotto la recente agitazione privando i lavoratori dell'assistenza, agitando come bandiere la tariffa delle visite ed il sistema di pagamento « a notula». Tradotta dal gergo, la notula significa chiedere per il medico una sorta di cottimo: per ogni visita effettuata, un dato compenso. La più assurda delle dissociazioni si crea, in questo modo, fra il guadagno e lo scopo, la «missione» del medico. Egli non solo guadagna di più se affretta i tempi di lavorazione, se visita superficialmente, ma addirittura si arricchisce quanto più la gente si ammala, vive dell'altrui malattia anziché dell'altrui salute, è «cointeressato» all'aumento della morbosità. Il medico giapponese che fu arrestato nel marzo di quest'anno a Tokio. e internato in manicomio, perché mescolava germi del tifo allo zucchero, nel té che offriva ai visitatori, potrebbe dire «c'è una logica nella mia follia».
L'appello di Bethune, associato alla sua proposta politica di «un programma completo e preciso di servizio medico pianificato per tutto il popolo», il quale potrà dare «risultati anche nella professione, che risorgerà come una gloriosa fenice dalle ceneri di sé stessa», comincia a prospettare un'alternativa di riassociazione fra il medico e il risultato del suo lavoro, fra medicina e popolo.
Ma non siamo ancora al cuore del problema. La questione dei medici è solo un aspetto della questione sanitaria. Si può verificare l'apparente paradosso, secondo il quale «la salute è una cosa troppo seria, perché sia affidata ai soli medici». Ciò è vero oggi, più di ieri, per le malattie che crescono di frequenza e gravità, più che per quelle in declino. Mille pediatri possono vaccinare un'intera collettività contro il vaiolo, o contro la poliomielite, e vincere la battaglia. Mille psichiatri, invece, non possono arrestare il dilagare delle malattie mentali, riescono solo a creare qualche argine malfermo, perché in molti casi l'epidemia non ha cause naturali, ma sociali, e la prevenzione, per essere efficace, non può essere condotta solo dagli specialisti, ma dall'intera collettività.
Le malattie sono sempre l'espressione di un contrasto, della rottura di un equilibrio. Dal quadro complessivo delle malattie che prevalgono in un dato momento storico si possono trarre, se non giudizi globali, almeno utili indicazioni sul grado di reciproco adattamento che l'uomo riesce a trovare con l'ambiente in cui vive.
Da questo punto di vista, si deve constatare che negli ultimi decenni è avvenuto un radicale mutamento. Le malattie dell'uomo sono state, per millenni, analoghe alle malattie degli animali, causate, come queste, da fattori naturali, presenti nell'ambiente esterno indipendentemente dall'opera e dalla volontà dell'uomo. Schematicamente, i principali fattori naturali di malattia sono di origine fisica (il freddo, il caldo), alimentare (nutrizione insufficiente) e biologica: esseri viventi, dai virus ai batteri ai parassiti. Contro questi fattori abbiamo appreso a difenderci con efficacia, almeno nei paesi ad elevato sviluppo economico. Le variazioni del clima non causano danni come un tempo, nell'individuo protetto dagli indumenti e dalle abitazioni. I consumi alimentari (parliamo sempre di paesi capitalistici sviluppati, e sappiamo che ciò avviene anche a costo della fame di altri popoli) tendono a crescere. Le malattie infettive, da agenti biologici, sono state drasticamente ridotte, come diffusione e come gravità, da due rimedi specifici: le vaccinazioni sul piano preventivo, i chemioterapici e gli antibiotici sul piano curativo.
Dopo queste vittorie conseguite sulla natura, cominciano a diffondersi ed ora a prevalere nuove malattie, specifiche dell'uomo non solo perché spesso diverse da quelle di altri animali, ma sopratutto perché causate da fattori umani, dall'uomo stesso. Nell'ambiente artificiale, creato nella società in cui viviamo, l'uomo «trasforma il suo vantaggio sull'animale nello svantaggio della sottrazione del suo corpo inorganico, della natura», secondo le parole del giovane Marx, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844.
Ai fattori fisici del clima, ormai sotto controllo, subentrano fattori fisici artificiali, che generano malattie: i rumori industriali e urbani, le radiazioni ionizzanti. Alle carenze alimentari si sostituiscono talora gli eccessi, più spesso i cibi sofisticati e adulterati da additivi industriali. Alle malattie infettive, da esseri viventi microscopici, subentrano i traumi, gli infortuni causati da esseri viventi a noi simili (almeno nell'aspetto), da altri uomini: nel lavoro si ha in Italia un infortunio ogni 20 secondi, un invalido ogni 10 minuti, un morto ogni due ore; nella la strada gli incidenti del traffico causano più decessi della tubercolosi. Sostanze chimiche nuove, polveri e fumi vengono sparsi in abbondanza sia nell'aria confinata delle fabbriche, sia nell'atmosfera. Per molte di queste sostanze, sopratutto per i prodotti della combustione, è sperimentalmente dimostrato che accrescono la frequenza dei tumori. Le cause di malattie mentali si moltiplicano, per le « nevrosi industriali» derivanti dai ritmi di lavorazione, per le difficoltà dei rapporti familiari e sociali; al tempo stesso, viene posto in evidenza che i fattori nervosi hanno grande rilevanza nella genesi delle malattie cardiovascolari, delle malattie dell'apparato digerente, dell'usura precoce dell'organismo.
Non vogliamo trarre, da questi fatti, considerazioni pessimistiche di sfiducia nella scienza, di rifiuto dell'industrializzazione, di accusa indiscriminata all'uomo. Vogliamo trarre soltanto la conclusione che la «autoalienazione dell'uomo a sé stesso e alla natura», per citare di nuovo Marx, si esprime non solo sul terreno dei rapporti economico-sociali, ma sulla vita stessa, sull'integrità biologica, sulla salute.
In sostanza, mentre per millenni il danno, la malattia è derivata essenzialmente da uno squilibrio fra l'uomo e la natura, da un rapporto incongruo fra l'uomo e l'ambiente esterno naturale, ora essa deriva da uno squilibrio nei rapporti fra gli uomini, dall'incongruità delle relazioni sociali.
Gli operai, le classi lavoratoci subiscono più degli altri tale situazione, in un intreccio di malattie «tradizionali» (denutrizione, malattie infettive, fatica fisica) e di malattie «nuove» (fatica nervosa, tumori professionali, intossicazioni industriali, ecc.) che si sovrappongono le une alle altre, determinando un enorme logorio vitale ed un gran numero di morti premature. Risulta evidente che la causa principale di questi fenomeni, di questo danno che dalla classe operaia rimbalza sull'intera società, è la legge del profitto. Ciò che non è chiaro è come opporsi, come invertire la tendenza, poiché il contrasto non va portato solo sul terreno sindacale e politico, ma anche su quello specifico della salute, Del resto, la tutela della salute è una molla potente che può unire gli uomini, far comprendere ed aiutare a capovolgere situazioni sociali superate.
Si ha l'impressione, sotto questo aspetto, che le grandi battaglie condotte dal movimento operaio nel secolo scorso, per la conquista delle otto ore, per impedire il lavoro dei fanciulli, per opporsi alle disumane condizioni di lavoro nelle fabbriche della prima rivoluzione industriale, fossero battaglie che avessero respiro ideale, documentazione scientifica e risultati pratici maggiori, rispetto a ciò che si fa oggi per proteggere la salute dei lavoratori.
Esistono ragioni peculiari dell'Italia, all'origine delle debolezze del movimento sindacale e politico in questo campo. Principalmente, la situazione del mercato del lavoro, che ha indotto spesso a subire sia il ricatto salario-occupazione, sia l'altro ricatto salute-occupazione. Mentre il primo viene ora respinto sempre più decisamente, il secondo sussiste in larga misura. Quasi tutti i contratti di lavoro «monetizzano» il rischio, fanno cioè corrispondere alle condizioni di insalubrità o di pericolo particolari indennità economiche, quasi sempre irrisorie, che scaricano i padroni dall'obbligo di adottare misure preventive, di rimuovere i rischi anziché di indennizzarli. Solo recentemente, per esempio nelle piattaforme rivendicative dei metalmeccanici e dei chimici, si è fatta strada l'idea di contrattare le condizioni di nocività dell'ambiente lavorativo, di modificarle con la forza dell'azione sindacale.
Fra le ragioni generali, valide anche per altri paesi ove si riscontrano analoghe debolezze del movimento operaio, accenniamo soltanto alle due che hanno riferimento con la medicina e con la scienza. La prima è che le malattie che prevalgono oggi hanno cause complesse, inizio insidioso, decorso lento: così è per le malattie mentali, per i tumori, per le malattie cardiache. Non è il danno che insorge subitaneo, come un'infezione acuta, che riconosce una sola causa, che propone m. chiaro obiettivo per chi voglia opporsi alla malattia. Vi è invece una molteplicità di cause che agiscono assommandosi, rafforzandosi a vicenda, e non sempre è facile individuare i fattori da rimuovere per garantire la prevenzione. La seconda ragione, collegata alla precedente, è che il movimento operaio non ha ancora acquisito alla propria battaglia quelle conoscenze scientifiche, quelle esperienze professionali che gli consentirebbero di studiare e di contrastare più da vicino le nuove forme di sfruttamento dell'uomo. Anzi, è il padrone che si avvale di queste conoscenze, che compra le collaborazioni necessarie per appesantire lo sfruttamento fino (ed oltre) il limite di tollerabilità dell'organismo umano.
In sostanza, tre sembrano essere le linee sulle quali si può contrastare con efficacia la diffusione delle malattie create dall'uomo. La prima è quella della contrattazione sindacale, del passaggio dalla monetizzazione alla prevenzione del rischio. La seconda è quella di una conquista dei tecnici (medici, psicologi, ingegneri, ecc.), i quali proprio essendo pienamente se stessi, esplicando la propria attività senza le distorsioni causate dal profitto, possono incontrare nel movimento operaio una forza di sostegno e di liberazione. La terza linea è quella di un impegno pubblico, dello Stato. All'attuale ordinamento sanitario, nel quale la cura delle malattie viene delegata a mille istituzioni (o a centomila medici), deve essere sostituito un ordinamento che dia alla collettività stessa, allo Stato la responsabilità della salute dei cittadini. L'essenziale, nella proposta comunista di creare un servizio sanitario nazionale, non è l'idea di garantire cure complete all'intera popolazione, bensì la tendenza a contrastare, con la forza dello Stato democratico e con la competenza dei sanitari, il danno portato dall'uomo all'uomo: cioè di impedire (o di frenare) l'insorgere della malattia.

“La città futura”, N.17 giugno 1966

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