Un articolo di Giovanni
Berlinguer (fratello del più noto Enrico), medico e studioso di
medicina sociale e preventiva, militante e dirigente del Pci sui
temi della riforma sanitaria scritto per il mensile dei giovani
comunisti, “La città futura”. Giovanni Berlinguer fu, con altri
medici come Giulio Maccacaro e Maurizio Mori, tra i protagonisti
nella battaglia per un sistema sanitario nazionale giunta a
conclusione con la riforma degli anni Settanta, che avrebbe
comportato importanti modificazioni nell'esercizio della professione
medica e nel rapporto tra medicina e società.
E' probabile che gli
specialisti trovino un po' superate alcune formulazioni
dell'articolo: sono trascorsi quasi cinquant'anni e non sono mancate
importanti acquisizioni scientifiche sulle patologie umane; e
tuttavia di fronte a una sempre più evidente controriforma
sanitaria, a un condizionamento capitalistico della medicina forte
come non mai, mi sembra assolutamente attuale la metodologia
dell'approccio. Tanto per fare un esempio, ho l'impressione che l'esempio giapponese aiuti a vedere il ritorno della "notula" e della sua follia non solo in certi interventi chirurgici non necessari di certi ospedali milanesi, ma anche negli incentivi di certe aziende ospedaliere pubbliche.
A me pare inoltre che il modo di coniugare scienza e politica, di ragionare, di proporre problemi di un vecchio comunista italiano come Giovanni Berlinguer sia un (piccolo) contravveleno in una stagione intossicata, oltre che dal leaderismo che “fa sognare” e dal delirio dell'invettiva, anche dalla più crassa ignoranza. (S.L.L.)
A me pare inoltre che il modo di coniugare scienza e politica, di ragionare, di proporre problemi di un vecchio comunista italiano come Giovanni Berlinguer sia un (piccolo) contravveleno in una stagione intossicata, oltre che dal leaderismo che “fa sognare” e dal delirio dell'invettiva, anche dalla più crassa ignoranza. (S.L.L.)
Durante la recente
vertenza fra i medici e le mutue, è risultato quanto fossero attuali
il giudizio e l'appello che il dottor Bethune rivolgeva nel 1936, e
che “La città futura” ha ripubblicato un anno fa, con il titolo
Come la medicina può servire le rivoluzioni. Il giudizio era
che la medicina «deve essere inquadrata e fondata nel contesto
sociale, e non può essere considerata a parte: essa è il prodotto
di una certa organizzazione sociale». L'appello ai colleghi medici
era a considerare «che il nostro primo dovere è la sicurezza
sanitaria del popolo, che i diritti umani sono superiori ai privilegi
professionali».
L'appello risuona attuale
anche perché, nell'occidente capitalistico, esso non ha finora avuto
una larga eco. Quando il profitto e la sua ideologia dominano la
società, quando le classi dominanti non offrono alternative morali e
pratiche, sarebbe strano aspettarsi che una categoria professionale
si orientasse solo per vocazione in senso opposto. Così, in Belgio i
medici hanno scioperato contro le mutue, facendo coincidere
l'agitazione con i giorni successivi alle ferie pasquali, in modo da
prolungarle e da godersi lontano dai malati, nelle vicine località
climatiche francesi e olandesi, un immeritato riposo. Negli Stati
uniti la American medical association spinge le università a tenere
altissimo il costo degli studi, in modo da ridurre la concorrenza:
tanto che esiste una carenza di sanitari, in rapporto ai bisogni del
paese. In Inghilterra, per il contrasto fra la medicina che è
«socializzata» e la società che non lo è, migliaia di medici
emigrano verso paesi che garantiscono guadagni più alti.
In Italia, gli ordini
professionali hanno condotto la recente agitazione privando i
lavoratori dell'assistenza, agitando come bandiere la tariffa delle
visite ed il sistema di pagamento « a notula». Tradotta dal gergo,
la notula significa chiedere per il medico una sorta di cottimo: per
ogni visita effettuata, un dato compenso. La più assurda delle
dissociazioni si crea, in questo modo, fra il guadagno e lo scopo, la
«missione» del medico. Egli non solo guadagna di più se affretta i
tempi di lavorazione, se visita superficialmente, ma addirittura si
arricchisce quanto più la gente si ammala, vive dell'altrui malattia
anziché dell'altrui salute, è «cointeressato» all'aumento della
morbosità. Il medico giapponese che fu arrestato nel marzo di
quest'anno a Tokio. e internato in manicomio, perché mescolava germi
del tifo allo zucchero, nel té che offriva ai visitatori, potrebbe
dire «c'è una logica nella mia follia».
L'appello di Bethune,
associato alla sua proposta politica di «un programma completo e
preciso di servizio medico pianificato per tutto il popolo», il
quale potrà dare «risultati anche nella professione, che risorgerà
come una gloriosa fenice dalle ceneri di sé stessa», comincia a
prospettare un'alternativa di riassociazione fra il medico e il
risultato del suo lavoro, fra medicina e popolo.
Ma non siamo ancora al
cuore del problema. La questione dei medici è solo un aspetto della
questione sanitaria. Si può verificare l'apparente paradosso,
secondo il quale «la salute è una cosa troppo seria, perché sia
affidata ai soli medici». Ciò è vero oggi, più di ieri, per le
malattie che crescono di frequenza e gravità, più che per quelle in
declino. Mille pediatri possono vaccinare un'intera collettività
contro il vaiolo, o contro la poliomielite, e vincere la battaglia.
Mille psichiatri, invece, non possono arrestare il dilagare delle
malattie mentali, riescono solo a creare qualche argine malfermo,
perché in molti casi l'epidemia non ha cause naturali, ma sociali, e
la prevenzione, per essere efficace, non può essere condotta solo
dagli specialisti, ma dall'intera collettività.
Le malattie sono sempre
l'espressione di un contrasto, della rottura di un equilibrio. Dal
quadro complessivo delle malattie che prevalgono in un dato momento
storico si possono trarre, se non giudizi globali, almeno utili
indicazioni sul grado di reciproco adattamento che l'uomo riesce a
trovare con l'ambiente in cui vive.
Da questo punto di vista,
si deve constatare che negli ultimi decenni è avvenuto un radicale
mutamento. Le malattie dell'uomo sono state, per millenni, analoghe
alle malattie degli animali, causate, come queste, da fattori
naturali, presenti nell'ambiente esterno indipendentemente dall'opera
e dalla volontà dell'uomo. Schematicamente, i principali fattori
naturali di malattia sono di origine fisica (il freddo, il caldo),
alimentare (nutrizione insufficiente) e biologica: esseri viventi,
dai virus ai batteri ai parassiti. Contro questi fattori abbiamo
appreso a difenderci con efficacia, almeno nei paesi ad elevato
sviluppo economico. Le variazioni del clima non causano danni come un
tempo, nell'individuo protetto dagli indumenti e dalle abitazioni. I
consumi alimentari (parliamo sempre di paesi capitalistici
sviluppati, e sappiamo che ciò avviene anche a costo della fame di
altri popoli) tendono a crescere. Le malattie infettive, da agenti
biologici, sono state drasticamente ridotte, come diffusione e come
gravità, da due rimedi specifici: le vaccinazioni sul piano
preventivo, i chemioterapici e gli antibiotici sul piano curativo.
Dopo queste vittorie
conseguite sulla natura, cominciano a diffondersi ed ora a prevalere
nuove malattie, specifiche dell'uomo non solo perché spesso diverse
da quelle di altri animali, ma sopratutto perché causate da fattori
umani, dall'uomo stesso. Nell'ambiente artificiale, creato nella
società in cui viviamo, l'uomo «trasforma il suo vantaggio
sull'animale nello svantaggio della sottrazione del suo corpo
inorganico, della natura», secondo le parole del giovane Marx, nei
Manoscritti economico-filosofici del 1844.
Ai fattori fisici del
clima, ormai sotto controllo, subentrano fattori fisici artificiali,
che generano malattie: i rumori industriali e urbani, le radiazioni
ionizzanti. Alle carenze alimentari si sostituiscono talora gli
eccessi, più spesso i cibi sofisticati e adulterati da additivi
industriali. Alle malattie infettive, da esseri viventi microscopici,
subentrano i traumi, gli infortuni causati da esseri viventi a noi
simili (almeno nell'aspetto), da altri uomini: nel lavoro si ha in
Italia un infortunio ogni 20 secondi, un invalido ogni 10 minuti, un
morto ogni due ore; nella la strada gli incidenti del traffico
causano più decessi della tubercolosi. Sostanze chimiche nuove,
polveri e fumi vengono sparsi in abbondanza sia nell'aria confinata
delle fabbriche, sia nell'atmosfera. Per molte di queste sostanze,
sopratutto per i prodotti della combustione, è sperimentalmente
dimostrato che accrescono la frequenza dei tumori. Le cause di
malattie mentali si moltiplicano, per le « nevrosi industriali»
derivanti dai ritmi di lavorazione, per le difficoltà dei rapporti
familiari e sociali; al tempo stesso, viene posto in evidenza che i
fattori nervosi hanno grande rilevanza nella genesi delle malattie
cardiovascolari, delle malattie dell'apparato digerente, dell'usura
precoce dell'organismo.
Non vogliamo trarre, da
questi fatti, considerazioni pessimistiche di sfiducia nella scienza,
di rifiuto dell'industrializzazione, di accusa indiscriminata
all'uomo. Vogliamo trarre soltanto la conclusione che la
«autoalienazione dell'uomo a sé stesso e alla natura», per citare
di nuovo Marx, si esprime non solo sul terreno dei rapporti
economico-sociali, ma sulla vita stessa, sull'integrità biologica,
sulla salute.
In sostanza, mentre per
millenni il danno, la malattia è derivata essenzialmente da uno
squilibrio fra l'uomo e la natura, da un rapporto incongruo fra
l'uomo e l'ambiente esterno naturale, ora essa deriva da uno
squilibrio nei rapporti fra gli uomini, dall'incongruità delle
relazioni sociali.
Gli operai, le classi
lavoratoci subiscono più degli altri tale situazione, in un
intreccio di malattie «tradizionali» (denutrizione, malattie
infettive, fatica fisica) e di malattie «nuove» (fatica nervosa,
tumori professionali, intossicazioni industriali, ecc.) che si
sovrappongono le une alle altre, determinando un enorme logorio
vitale ed un gran numero di morti premature. Risulta evidente che la
causa principale di questi fenomeni, di questo danno che dalla classe
operaia rimbalza sull'intera società, è la legge del profitto. Ciò
che non è chiaro è come opporsi, come invertire la tendenza, poiché
il contrasto non va portato solo sul terreno sindacale e politico, ma
anche su quello specifico della salute, Del resto, la tutela della
salute è una molla potente che può unire gli uomini, far
comprendere ed aiutare a capovolgere situazioni sociali superate.
Si ha l'impressione,
sotto questo aspetto, che le grandi battaglie condotte dal movimento
operaio nel secolo scorso, per la conquista delle otto ore, per
impedire il lavoro dei fanciulli, per opporsi alle disumane
condizioni di lavoro nelle fabbriche della prima rivoluzione
industriale, fossero battaglie che avessero respiro ideale,
documentazione scientifica e risultati pratici maggiori, rispetto a
ciò che si fa oggi per proteggere la salute dei lavoratori.
Esistono ragioni
peculiari dell'Italia, all'origine delle debolezze del movimento
sindacale e politico in questo campo. Principalmente, la situazione
del mercato del lavoro, che ha indotto spesso a subire sia il ricatto
salario-occupazione, sia l'altro ricatto salute-occupazione. Mentre
il primo viene ora respinto sempre più decisamente, il secondo
sussiste in larga misura. Quasi tutti i contratti di lavoro
«monetizzano» il rischio, fanno cioè corrispondere alle condizioni
di insalubrità o di pericolo particolari indennità economiche,
quasi sempre irrisorie, che scaricano i padroni dall'obbligo di
adottare misure preventive, di rimuovere i rischi anziché di
indennizzarli. Solo recentemente, per esempio nelle piattaforme
rivendicative dei metalmeccanici e dei chimici, si è fatta strada
l'idea di contrattare le condizioni di nocività dell'ambiente
lavorativo, di modificarle con la forza dell'azione sindacale.
Fra le ragioni generali,
valide anche per altri paesi ove si riscontrano analoghe debolezze
del movimento operaio, accenniamo soltanto alle due che hanno
riferimento con la medicina e con la scienza. La prima è che le
malattie che prevalgono oggi hanno cause complesse, inizio insidioso,
decorso lento: così è per le malattie mentali, per i tumori, per le
malattie cardiache. Non è il danno che insorge subitaneo, come
un'infezione acuta, che riconosce una sola causa, che propone m.
chiaro obiettivo per chi voglia opporsi alla malattia. Vi è invece
una molteplicità di cause che agiscono assommandosi, rafforzandosi a
vicenda, e non sempre è facile individuare i fattori da rimuovere
per garantire la prevenzione. La seconda ragione, collegata alla
precedente, è che il movimento operaio non ha ancora acquisito alla
propria battaglia quelle conoscenze scientifiche, quelle esperienze
professionali che gli consentirebbero di studiare e di contrastare
più da vicino le nuove forme di sfruttamento dell'uomo. Anzi, è il
padrone che si avvale di queste conoscenze, che compra le
collaborazioni necessarie per appesantire lo sfruttamento fino (ed
oltre) il limite di tollerabilità dell'organismo umano.
In sostanza, tre sembrano
essere le linee sulle quali si può contrastare con efficacia la
diffusione delle malattie create dall'uomo. La prima è quella della
contrattazione sindacale, del passaggio dalla monetizzazione alla
prevenzione del rischio. La seconda è quella di una conquista dei
tecnici (medici, psicologi, ingegneri, ecc.), i quali proprio essendo
pienamente se stessi, esplicando la propria attività senza le
distorsioni causate dal profitto, possono incontrare nel movimento
operaio una forza di sostegno e di liberazione. La terza linea è
quella di un impegno pubblico, dello Stato. All'attuale ordinamento
sanitario, nel quale la cura delle malattie viene delegata a mille
istituzioni (o a centomila medici), deve essere sostituito un
ordinamento che dia alla collettività stessa, allo Stato la
responsabilità della salute dei cittadini. L'essenziale, nella
proposta comunista di creare un servizio sanitario nazionale, non è
l'idea di garantire cure complete all'intera popolazione, bensì la
tendenza a contrastare, con la forza dello Stato democratico e con la
competenza dei sanitari, il danno portato dall'uomo all'uomo: cioè
di impedire (o di frenare) l'insorgere della malattia.
“La città futura”, N.17 giugno 1966
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