Il servizio di Paola
Zanottini sull'ultimo libro di Kirk Douglas e sull'incontro con il
vecchio vitalissimo attore ad esso dedicato risale all'anno scorso e
rievoca con calore e colore la stagione del maccartismo, i suoi
effetti sul cinema hollywoodiano, il coraggio di Kirk Douglas, un
“duro” democratico, sinceramente democratico. (S.L.L.)
LOS ANGELES.
Era il 1959.
Negli Stati Uniti imperversava ancora la caccia alle streghe, cioè
ai rossi nemici dell'american way of life. Che, tra l'altro,
secondo il senatore Joseph McCarthy, avevano trasformato Hollywood in
una centrale sovietica. Tirava una brutta aria: come scrive Philip
Roth in Ho sposato un comunista, il Paese aveva eletto il
pettegolezzo e la diffamazione a fede nazionale. Al minimo sospetto
di simpatie per la falce e il martello si rischiava la carriera. O la
galera. In certi casi la vita. Ma, al sospettato, bastava spifferare
il nome di qualche altro vero o presunto sovversivo per rifarsi una
reputazione da americano tranquillo.
Poi arrivò Spartaco.
Anzi Spartacus, il peplum sulla rivolta degli schiavi.
Prodotto e interpretato da Kirk Douglas e diretto da un lunatico
Stanley Kubrick al suo debutto nei kolossal, Spartacus
decretò l'inizio della fine del maccartismo. La decretò con un
gesto semplice e coraggioso di Douglas, che nei titoli di testa e sui
manifesti del film firmò la sceneggiatura con il vero nome di chi
l'aveva scritta, Dalton Trumbo. Un tempo, Trumbo era l'autore più
pagato di Hollywood. Poi, risucchiato nella lista nera di McCarthy,
era sparito ufficialmente. Ma ufficiosamente continuava a sfornare
copioni (anche quello di Vacanze Romane), sotto falso nome.
Spartacus era
costato 12 milioni di dollari, una cifra astronomica per l'epoca.
Nell'America paranoica del «pericolo rosso» ci voleva un bel
coraggio per mettere a rischio una megaproduzione come quella. C'era
la seria possibilità che il pubblico boicottasse un film sceneggiato
da uno sporco comunista e tratto, per di più, dal romanzo di un
altro sporco comunista, Howard Fast, celebre scrittore
(abbondantemente citato da Roth nel libro di cui sopra) che, finito
anche lui nella lista nera, aveva dovuto stamparsi Spartacus in
cantina, visto che gli editori si erano tirati indietro. E per
Douglas, che era già un divo, c'era la spiacevole eventualità di
veder sparire per sempre la sua bella faccia dagli schermi. Insomma,
una storia di eroismo a Hollywood. Vero, non di celluloide. Benedetta
dal presidente Kennedy, che andò al cinema in incognito, ma non
troppo, e sdoganò Spartacus dichiarando che gli era piaciuto.
Questa storia adesso è un libro: Spartacus!, ultima fatica di
Kirk Douglas che, da quando si è ritirato dalle scene, si è dato
alla scrittura, beccheggiando dalla narrativa all'autobiografico: in
tutto, dieci titoli. Nonostante un ictus che molti anni fa gli
aveva tolto la parola, ma sul serio, e lo costringe ancora a due
sedute di logoterapia la settimana, a 96 anni il vecchio Kirk se la
passa piuttosto bene. Nella sua villa non troppo sfarzosa di Beverly
Hills, mi viene incontro dritto e spedito: maglia e pantaloni Nike
neri, degli strani mocassini imbottiti di pelliccia e un cerotto
sulla guancia che lascia supporre si sia rasato con la daga.
Nell'atrio, mi mostra un vaso di Picasso: «Tanti anni fa, mia moglie
ha fatto un affare, l'ha pagato solo 500 dollari». A conferma,
indica una fotografia incorniciata di Picasso con il vaso, appesa lì
vicino.
È di ottimo umore. E,
per rendere onore all'Italia, intona Come è bello far l'amore
quando è sera, un cavallo di battaglia di Claudio Villa. Oddio,
la canta proprio tutta: core a core co' 'na pupa che è sincera
e pure le stelle che ce guardano lassù nun so' belle come l'occhi
che c'hai tu. Ascoltandolo, temo di aver assunto l'espressione
vacua delle attrici dei musical, quando i partner gorgheggiano e
loro, poverette, non sanno cosa fare. Devono piacergli molto queste
improvvisazioni musicali. Più di mezzo secolo fa, mentre girava Il
cacciatore di indiani, la sua prima produzione, telefonò a Elsa
Martinelli per proporle il ruolo della bella pellerossa: lei, che non
faceva ancora l'attrice ma solo la modella, pensò fosse uno scherzo
e lo obbligò a farsi riconoscere eseguendo una canzone di Ventimila
leghe sotto i mari, che aveva visto proprio quel pomeriggio. E
lui si mise a cantare, al telefono, un motivetto pieno di balene e
fiocinator, donne ardite e folli amor.
Io sono Spartacus!
è un libro avventuroso, divertente, perfino edificante e potrebbe
diventare anche uno strepitoso film sul cinema. Prende il titolo da
un'epica scena in cui gli schiavi, ormai vinti dall'esercito romano,
impediscono al loro comandante di farsi riconoscere: ognuno grida «Io
sono Spartaco!» per condividere il suo destino, che non è dei
migliori, visto che finiranno tutti crocifissi. L'allusione alle
delazioni che rovinarono migliaia di americani è abbastanza palese,
ma nel film è evidente anche il messaggio antischiavista. Eppure, in
quegli anni ancora segnati dalla segregazione razziale, in cui non si
riusciva a trovare una controfigura per un attore nero, non ci furono
particolari reazioni del Ku Klux Klan. Almeno, Douglas non le
ricorda.
«Spartacus», dice, «è
contro ogni forma di schiavismo, non mi pare che ci furono
contestazioni in chiave razzista, gli attacchi arrivarono solo dai
maccartisti. L'America era molto paranoica sul comunismo, in quegli
anni». Sembra che il vecchio Kirk abbia finito la frase, ma la
riprende subito: «Beh, anche oggi non si scherza. C'è stato un
parlamentare repubblicano della Florida, Allen West, che ha accusato,
senza prove, da 78 a 82 membri del Congresso di essere comunisti. Poi
non l'hanno rieletto. E c'è un senatore in carica, un altro
repubblicano, il texano Ted Cruz, che ha rimproverato al segretario
generale della Difesa, il repubblicano critico Chuck Hagel, e al
senatore democratico John Kerry di non essere patrioti. Quei due sono
veterani decorati del Vietnam, mentre Cruz non ha fatto neanche il
servizio militare. Però abbiamo un presidente rieletto nero, non
avrei mai creduto di poterlo vedere, in vita mia».
La vena polemica sembra
intatta, anche se Douglas scrive di essere diventato più tenero e
meno rabbioso, negli anni. E ora, nel suo blog si scaglia contro le
Colt che maneggiava quando faceva il duro nei western: «I
cowboy d'America hanno fatto il loro tempo». Ma ammette pure
che senza quella rabbia d'antan, forse non avrebbe corso tutti quei
rischi: «Avevo una carriera lanciatissima, dei figli, ma avevo anche
la fortuna di essere arrivato al successo quando il maccartismo era
già in fase calante. Fossi diventato una star cinque anni prima
sarei finito nella lista nera come niente. Comunque Spartacus
non ha cambiato gli umori americani per il mio gesto di coraggio, ma
perché era un bel film».
Siccome the show must
go on anche quando regna la paranoia, Hollywood continuava a far
lavorare sotto falso nome i proscritti, perché erano i migliori:
chiamatelo se volete monopolio di sinistra della cultura. «E Dalton
Trumbo era il migliore di tutti» sbotta Douglas. L'umore si fa più
acceso perché ci avviciniamo a un tema caldo: i rapporti con Stanley
Kubrick, subentrato nella regia ad Anthony Mann, licenziato alla
terza settimana di lavorazione. «Quando c'era il problema di come
firmare la sceneggiatura, Stanley propose di firmarla lui. Dico, ma
come ti senti a prenderti il lavoro di un altro?». Ci fu uno
spettacolare fuoriscena durante la lavorazione: Douglas, che aveva
soprannominato Kubrick Ejzenstejn per il suo sussiego autoriale, era
imbufalito. Kubrick non rispondeva agli appunti che gli mandava, lo
considerava solo un attore e non il suo produttore e si presentava
ogni giorno sul set con gli stessi vestiti, malconci. Una mattina,
già in costume da Spartaco, Douglas montò sulla sua cavalla e andò
verso Kubrick, spingendolo contro il muro, davanti alla troupe. Con
una intemerata partita così: «Senti, stronzetto...», convinse
Kubrick a comprarsi dei vestiti nuovi, a girare una scena come voleva
lui e a darsi un po' meno arie.
«Lo amavo e lo odiavo,
Stanley. Amavo il suo talento e odiavo la sua ingratitudine. Io l'ho
scoperto vedendo un suo film che non aveva visto nessuno, Rapina a
mano armata; ho girato con lui Orizzonti di gloria, che
non voleva nessuno; gli ho affidato Spartacus quando era stato
appena licenziato da Marlon Brando, che aveva preferito dirigersi da
solo I due volti della vendetta piuttosto che lasciarlo a lui.
E in seguito Kubrick ha dichiarato di non essere fiero di Spartacus,
lo considerava la sua spina nel fianco».
Per comunicare meglio,
Douglas, che a quei tempi andava in analisi, trascinò Kubrick dal
suo terapeuta. «Il dialogo non migliorò tanto, ma il mio analista
diede un buon consiglio a Stanley: gli suggerì di leggere Doppio
sogno. Deve avergli dato retta, perché il suo ultimo film, Eyes
Wide Shut, è tratto da quel romanzo».
Dall'analista, Douglas ci
andava perché si era un po' perso: «Tutti quei ruoli: eroe
mitologico, militare, fuorilegge. Non sapevo più chi ero». E
l'analisi è servita per ritrovarsi? «Non mi pare». I ruoli devono
aver confuso anche il pubblico, che forse per tutte quelle parti da
duro lo considera più un falco che una colomba. Lui ribatte: «I
duri mica sono repubblicani per forza». Una certa durezza gli è
servita evidentemente per reggere i colpi che la vita non gli ha
risparmiato. Un figlio morto di overdose. Un altro, Michael, che ha
combattuto con un cancro pesante e con qualche altro demone. Un
nipote, figlio di Michael, condannato a nove anni per spaccio.
Incerto fra tante
identità, di una il vecchio Kirk era ed è ancora certo: quella di
sciupafemmine. Nel libro racconta di aver provato un certo imbarazzo
durante la scena in cui confessa a Varinia, l'eroina del film: «Non
ho mai avuto una donna». Considerata la sua immagine pubblica,
temeva che il pubblico sghignazzasse su una battuta così
improbabile. Uso anche il presente - è ancora certo - perché appena
sfioro l'argomento a Douglas si accende un lampo di malizia negli
occhi da immigrato slavo ed ebreo di seconda generazione. E l'istinto
irrefrenabile del seduttore gli fa compiere un gesto da repertorio:
si passa la mano sulla terapia e manda indietro i capelli. Poi finge
di offendersi: «Che fa, viene a casa mia e mi da dello
sciupafemmine?».
Il fatto è che nel libro
si vanta delle sue conquiste, ma professa quasi in ogni pagina amore
e gratitudine per la moglie Anne Buydens. Come l'ha presa la signora
Douglas? «Mia moglie ha sempre saputo chi ero, siamo insieme da
sessantanni. L'ho conosciuta che faceva le pubbliche relazioni per
Carlo Ponti, quando giravo Ulisse. Ci mettemmo insieme e il
giorno del mio compleanno mi organizzò una strana festa: invitò
dieci ragazze che avevo, come dire, conosciuto e le mise tutte in
fila, una dietro l'altra. Lei si piazzò all'ultimo posto. E lei cosa
le disse? «Senti, stronzetta...».
“il venerdì di Repubblica”, 28 giugno 2013
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