Chi è più intelligente:
una persona o una scimmia? Dipende dal compito che si deve risolvere.
In uno studio del 2007, Ayumu, un giovane scimpanzé maschio
all’Università di Kyoto, fece sfigurare la memoria umana.
Addestrato all’uso di un touch screen, riuscì a ricordare una
sequenza casuale di nove numeri, da 1 a 9, toccandoli nel giusto
ordine, anche se gli erano stati mostrati solo per una frazione di
secondo.
Io stesso mi cimentai in
questo compito, non riuscendo a tenere a mente più di cinque numeri
– e sì che mi fu concesso molto più tempo che alla scimmia
intelligente! Ayumu superò con un grande margine in questa prova un
gruppo di studenti universitari. L’anno dopo affrontò il campione
di memoria inglese Ben Pridmore, assicurandosi la vittoria.
Come si somministra a uno
scimpanzé (o a un polpo o a un cavallo) un test d’intelligenza?
Sembrerebbe la premessa di una barzelletta, e invece è una delle
questioni più spinose per la scienza odierna. Nello scorso decennio,
i ricercatori hanno sviluppato vari metodi ingegnosi per misurare le
capacità cognitive degli animali. Le loro scoperte hanno incrinato
la concezione dell’unicità della posizione del genere umano
nell’universo. Cartesio sosteneva che gli animali fossero automi
senz’anima. Nel XX secolo, lo psicologo americano Burrhus F.
Skinner riprese il concetto, descrivendo gli animali come poco più
che macchine capaci di reagire a determinati stimoli. Un numero
crescente di prove dimostra però che abbiamo di gran lunga
sottovalutato l’intelligenza animale.
Gli esperimenti con gli
animali hanno a lungo risentito di un atteggiamento antropocentrico:
spesso le prove cui li sottoponiamo funzionano bene con gli umani, ma
non con le altre specie. Gli scienziati stanno finalmente cominciando
a considerare gli animali nella loro specificità, invece di
trattarli come umani pelosi (o pennuti), e questo sta modificando le
nostre conoscenze.
È stato un problema di
tipologia dell’esperimento a generare l’erronea convinzione che
la nostra specie disponesse di un sistema di riconoscimento facciale
unico, perché riuscivamo a identificare i volti molto meglio degli
altri primati. Anche loro erano stati sottoposti a delle prove,
certo, ma a prove che comportavano il riconoscimento di volti umani,
dando per scontato che fossero i più facili da distinguere. Quando
però Lisa Parr, della Emory University, ha sottoposto agli scimpanzé
le immagini di esemplari della loro specie, le loro capacità di
riconoscimento si sono dimostrate eccellenti.
Forse dovremmo anche
rivedere la fisiologia dell’intelligenza. Prendiamo i polpi. In
cattività, riconoscono chi se ne prende cura e imparano ad aprire
flaconi di pillole con tappi a prova di bambino. Il loro cervello è
senza dubbio il più grosso fra quelli degli invertebrati, ma la
spiegazione delle loro capacità potrebbe risiedere altrove. Sembra
che questi animali pensino, letteralmente, usando parti esterne al
cervello. I polpi hanno centinaia di ventose, ciascuna delle quali è
dotata di un ganglio con migliaia di neuroni. Questi «minicervelli»
sono collegati tra loro, fungendo da sistema nervoso ad ampia
distribuzione. Ecco perché il tentacolo reciso di un polpo può
strisciare da sé e persino raccogliere del cibo. Allo stesso modo,
quando il polpo cambia il colore della pelle per autodifesa,
mimetizzandosi in modo da sembrare un serpente marino velenoso, la
decisione può non essere stata scatenata dal suo sistema centrale,
ma dalla pelle stessa. Si può forse parlare, dunque, di un organismo
con una pelle in grado di vedere e otto tentacoli in grado di
pensare?
È bene ricordare che a
volte abbiamo sopravvalutato le capacità degli animali. Circa un
secolo fa, si credette che un cavallo tedesco chiamato «Kluger Hans»
(l’astuto Hans) fosse in grado di eseguire addizioni, sottrazioni e
moltiplicazioni. Il proprietario gli chiedeva quanto facesse 4 x 3 e
Hans batteva lo zoccolo 12 volte. Poi però Oskar Pfungst, psicologo,
scoprì che dava la risposta giusta a due condizioni: che anche il
proprietario la sapesse e che Hans potesse vederlo. A quanto pare,
l’uomo cambiava posizione quando Hans raggiungeva il giusto numero
di colpi di zoccolo. Lo faceva senza rendersene conto, non si trattò
di una truffa.
Considerare l’«effetto
dell’astuto Hans» ha apportato enormi miglioramenti alle prove cui
sottoporre gli animali. Purtroppo però il principio viene spesso
dimenticato negli analoghi test per gli umani. Se le prove di
verifica delle capacità cognitive dei cani vengono effettuate mentre
i loro proprietari sono bendati o invitati a non guardare, i bambini
ancora sostengono i test in braccio alle mamme. Si dà per scontato
che siano presenze ininfluenti, ma tutte le madri vogliono che il
figlio abbia successo e niente garantisce che sospiri, movimenti del
capo e piccoli cambiamenti di posizione non diventino segnali per il
bambino.
Ciò assume una
particolare importanza quando si cerca di confrontare l’intelligenza
delle scimmie con quella dei bambini. Per riuscirci, gli scienziati
sottopongono a entrambe le specie problemi identici. I bambini però
stanno in braccio ai genitori, ricevono stimoli verbali e
interagiscono con altri umani. Le scimmie stanno in gabbia, non
godono né del beneficio del linguaggio né della vicinanza di un
genitore che conosce le risposte, e in più hanno a che fare con
membri di una specie diversa.
Molte delle nostre errate
convinzioni sull’intelligenza animale sono da imputare al problema
della cosiddetta prova negativa. Se faccio una passeggiata in una
foresta della Georgia e non vedo il picchio pileato, posso forse
concludere che non c’è? No. Sappiamo con quanta facilità questi
picchi si sottraggano alla vista. Potrò solo dire che mi mancano le
prove della sua presenza. Lascia dunque perplessi che la storia dello
studio dell’intelligenza degli animali sia così fitta di
asserzioni sull’assenza di capacità. Conclusioni del genere
contraddicono il famoso motto per cui «l’assenza di prove non è
prova di assenza».
Consideriamo se sia vero
che siamo l’unica specie che si preoccupa del benessere altrui. È
risaputo che le scimmie in libertà si aiutano a vicenda, e non
risparmiano abbracci di consolazione ai compagni in difficoltà.
Eppure per decenni queste osservazioni sono state ignorate e si è
preferito dare più credito a esperimenti secondo i quali le scimmie
erano egoiste. Per verificare se gli scimpanzé fossero disposti a
condividere il cibo tra loro, era stato predisposto un marchingegno
che gli animali dovevano azionare. Forse però non erano riusciti a
capirne il funzionamento. Noi invece abbiamo semplicemente messo gli
scimpanzé di fronte alla possibilità di scegliere fra due tipi di
gettone convertibili in cibo (uno assegnava cibo solo all’animale
che l’aveva scelto, l’altro assegnava cibo anche al suo compagno)
e, meraviglia delle meraviglie: lo scimpanzé sotto esame sceglieva
sempre il gettone che si traduceva in cibo anche per il compagno.
Una costante storica è
che non appena una teoria sulla presunta unicità degli umani si
estingue, quasi subito ne nascono altre. Nel frattempo, la scienza
continua a scalfire il muro che ci separa dagli altri animali. Siamo
passati dalla concezione degli animali come macchine, comandate da un
sistema di risposta istintiva agli stimoli, a quella di esseri
sofisticati. È tempo di capire che le forme di vita intelligente non
vanno cercate nello spazio perché abbondano qui sulla Terra.
La Stampa, 3 maggio 2014
(traduzione di Laura Lunardi)
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