A 67 anni dal massacro dei sindacalisti
per la prima volta la vedetta della banda Giuliano ha parlato con un
giornalista, raccontando la sua verità sul “re di Montelepre”,
sui rapporti con la politica e la mafia, su Portella della Ginestra,
sulla uccisione del bandito. Alcuni dei suoi ricordi sono conferme di
vicende note da altre fonti, altri contengono vere e proprie
rivelazioni. Non saprei dire fino a che punto siano attendibili, ma
mi sembrano credibili. (S.L.L.)
Il bandito ed il bambino
«Hanno sempre parlato di
un bambino che era una specie di beniamino di Salvatore Giuliano e
della sua banda, ma nessuno mai è riuscito a sapere chi fosse e che
fine avesse fatto. Si è detto di una piccola vedetta che andava e
veniva su e giù per le montagne, andava in paese, a Borgetto, a
procurare il pane, i viveri, il tabacco trinciato per fare le
sigarette e tornava - sempre correndo - per consegnarli ai banditi
che si nascondevano tra quelle rocce. Ecco, sono passati quasi
settant’anni, un secolo che mi porto dentro questo segreto. Ma
adesso voglio dirlo: quel bambino ero io. Ho conosciuto bene
Giuliano, Turiddu, e quasi tutti i suoi uomini. Conosco la loro
storia, che è diversa da quella raccontata dai giornali e dai libri.
Sono stato per tanto tempo vincolato al segreto perché lo avevo
promesso a mio zio e, in punto di morte, a mio padre, che mi fece
giurare di non parlare prima che fossero passati cinquant’anni. Ora
posso sciogliere quel giuramento e parlare di quella che per me fu
anche una straordinaria avventura. Io, il piccolo Giacomino, ho
vissuto a fianco di Turiddu: dal 1942 fino alla sua morte».
Giacomino oggi è un uomo
vicino agli ottanta che non vive più in Sicilia da diverso tempo. La
sagoma, però, e l’inflessione sono rimasti quelli impressi col
fuoco della Sicilia più cupa, aspra come le montagne di Sagana,
Partinico, Montelepre e Piana degli Albanesi. Ha una faccia scolpita
e gli occhi ardenti e mobili, Giacomo B. quando racconta fa una gara
con le parole, come se temesse di perderle nel pozzo della sua
memoria che sembra prodigiosa e incredibilmente ricca.
Non rivela il cognome non
perché abbia qualche timore, ma soltanto per riguardo ai parenti che
abitano ancora in Sicilia. Il suo racconto è meticoloso, forse potrà
non essere condiviso da chi ha codificato una storia diversa, ma
tuttavia rimane una preziosa testimonianza. La «verità» di un
teste oculare che non ricorre a cautele politiche o storiche, perché
non sa cosa siano. Un racconto che comincia nel 1942, quando il
bambino Giacomo trascorre la propria esistenza tra le campagne di
Borgetto (paesone tra Partinico e San Giuseppe Jato, nel
Palermitano), all’aria aperta con le pecore e le mucche, all’ombra
di un vecchio cimelio nobiliare chiamato Palazzo Ramo, dal nome degli
antichi proprietari, dove abitava con la famiglia .
«La fama di Giuliano –
attacca Giacomo – era già esplosa con la sparatoria che aveva
avuto coi carabinieri che gli volevano sequestrare il grano preso al
mercato nero. Mio padre e mio zio erano molto rispettati in quella
zona e Palazzo Ramo era una specie di zona franca per tutti. Lo
diventò anche per Turiddu, che intanto aveva formato la sua banda.
C’era l’acqua, c’era la possibilità di rinfrescarsi e riposare
e quindi spesso lo vedevo arrivare e parlare con mio padre».
Si intuisce che Giacomo
nutre (ancora oggi) una vera passione per Giuliano e lo ricorda come
una specie di difensore dei poveri: «Gli ho sentito dire che
bisognava finirla di “calare” sempre la testa, non sopportava di
vedere la gente scalza e morta di fame e così cominciò a usare i
soldi che gli arrivavano dai suoi “colpi” per comprare il pane e
distribuirlo a chi non aveva niente. Mi ricordo che diede dei soldi a
un certo Peppino Panettini perché ordinasse a mastro Paolino
Migliore, artigiano calzolaio, una certa quantità di scarpe da dare
a chi aveva bisogno. Giuliano andava in giro con le tasche piene di
fichi secchi e li offriva a grandi e bambini che non avevano da
mangiare. Io così me lo ricordo».
Il ritratto di
Giuliano-Robin Hood coincide con una certa tradizione popolare,
almeno per quel che riguarda l’inizio della sua storia. Bandito sì,
ma amato. Persino dalle suore dell’Ospedale Gesù Bambino di
Palermo, che furono ospiti, sfollate a Palazzo Ramo per quasi due
anni, fra il ’42 e il ’44, lontano dai bombardamenti palermitani.
«La superiora – rammenta Giacomo – stava ore a parlare con mio
padre, poi mi ricordo suor Valentina e suor Carlotta. Giuliano non si
nascondeva da loro e quando fu ferito in uno scontro a fuoco coi
carabinieri fu salvato proprio da madre Valentina, che gli fece una
puntura, senza la quale Turiddu sarebbe morto. La riconoscenza di
Giuliano durò per sempre: finanziò il restauro della chiesa di
Palazzo Ramo e, anche dopo il ’44, continuò a mandare il frumento
alle suore». Certo, il bandito aveva i suoi metodi e così, quando
qualcuno cercava di imporre l’acquisto del grano a prezzo di
contrabbando, Turiddu non esitava a «convincerlo» a praticare il
prezzo di mercato, molto più basso. I sequestri dei «padroni del
grano», dunque, cominciarono a proliferare in tutta la zona.
E Giuliano, a sentire
Giacomo, entrò in confidenza anche coi soldati americani, quando
arrivarono da Licata, dopo lo sbarco. «Io andavo a prendere acqua,
ogni giorno, presso una sorgente. Una volta vi trovai un soldato che
mi diede una borraccia e mi fece segno di riempirla. Poi a gesti e a
sillabe mi chiese se conoscevo Giuliano. Mi dava fiducia quel soldato
e così gli dissi che lo conoscevo a sapevo dove trovarlo. Alla fine
si incontrarono a Palazzo Ramo e Giuliano comprò pure delle armi. Da
lì passarono pure altri personaggi: venne il giornalista Stern (che
era una spia, ma Giacomo non lo sa, ndr) e pure una bella signora che
restò a lungo ospite (si tratterebbe di Maria Lamby Karintelka,
anch’essa spia, che intervistò il bandito con lo pseudonimo di
Maria Cyliacus) e venne più d’una volta l’Alto commissario Ciro
Verdiani.
Giacomo avrebbe altri
episodi da includere nell’epopea (per esempio, quando Giuliano curò
un carabiniere che aveva ferito e quello gli chiese un ricordo da
conservare, Turiddu gli regalò un coltellino e iniziò un’amicizia)
e non è facile frenarlo. Ci riusciamo ricorrendo ai «problemi di
spazio». Ma si riaccende quando si passa agli argomenti più «seri»:
la strage di Portella della Ginestra (oggi sono 67 anni) e il mistero
della morte di Giuliano. Anche qui, Giacomo parla per testimonianza
diretta e per aver ascoltato i racconti del padre e dello zio.
«Giuliano fu tradito dai
suoi stessi uomini. Fu tradito – scandisce Giacomo – da Giuseppe
Passatempo che sparò a Portella su mandato della mafia, della
politica, con la complicità dei carabinieri, che addirittura
fornirono armi agli assalitori». La politica? «In particolare i
separatisti. Turiddu era stato agganciato nel 1944 da Finocchiaro
Aprile che venne, accompagnato da un altro, a Palazzo Ramo. Giuliano
non c’era e mio padre li mandò dalla madre. Ma lei non si fidò e
disse loro di lasciare un biglietto che avrebbe fatto avere al
figlio. Finocchiaro Aprile scrisse un indirizzo di Palermo, dove si
potevano incontrare, e specificò le modalità di riconoscimento.
Turiddu conosceva Finocchiaro Aprile e sapeva chi era e cosa faceva.
Andò a Palermo travestito da postino, accompagnato da Gaspare
Pisciotta e Giuseppe Passatempo. Parlò a lungo con il padrone di
casa e da allora ebbero un rapporto continuo».
Ma torniamo a Portella.
Riprende, Giacomo: «Per l’operazione di Portella furono investiti
80 milioni di allora, molti dei quali andarono alla mafia. Il capo
della congiura era il boss don Calò Vizzini, che con Giuliano aveva
avuto più di qualche scontro. Accanto a lui la mafia di Monreale,
Nitto Minasola e gli amici di Domenico Albano, orientati dai
carabinieri. Contrario a questo schieramento c’era il boss di
Partinico e Borgetto don Gioacchino D’Arrigo che stimava molto mio
padre e mio zio».
Ma come fu portata avanti
la congiura? «Giuliano – è la risposta – aveva ordinato a
Passatempo di andare a Portella solo coi fucili. Invece spararono i
mitragliatori che colpirono anche dall’alto della montagna».
Questa la «verità» di Giacomo, che – bisogna dirlo – confligge
con tutta la storiografia prodotta sul tema: non ha mai convinto la
tesi che a Portella il bandito volesse soltanto spaventare i
contadini in festa. «Il fatto è – insiste il nostro – che
quella mattina, nascosti in un furgoncino, arrivarono sei
mitragliatori che furono assegnati ad altrettanti mafiosi. Ci fu un
testimone che li vide: un ragazzo che andava in bicicletta ed era
stato sorpassato dal camioncino. Io ho sentito con le mie orecchie
che le mitragliatrici erano state procurate dai carabinieri e a loro
erano state riconsegnate dopo la sparatoria».
E Giuliano seppe questa
storia? «Certo che l’ha saputo. Arrivò anche a parlare col
ragazzo della bicicletta. Seppe i nomi dei sei mafiosi, ricordo che
due erano di Piana degli Albanesi, due di San Giuseppe Jato e due di
un paese che non so più bene. Lui li voleva rapire per farli
parlare, ma il progetto non era fattibile. Quei nomi, comunque, li
scrisse nel suo libretto (sarebbe il terzo memoriale di Giuliano, mai
ritrovato, ndr) insieme con tutta la verità su Portella. Lui,
Turiddu, avrebbe voluto uccidere Domenico Albano, che faceva il
doppio gioco con quelli di Monreale, ma fu dissuaso da don Gioacchino
D’Arrigo. Il 4 maggio, verso le 18, ci fu una riunione nella
masseria messa a disposizione da Vito D’Amico. Io aprii perché
solo io sapevo dove stavano le chiavi. Don Gioacchino lesse il
giornale con la notizia di Portella e commentò: “Questo è
troppo”. Pisciotta gridava e ripeteva: “Ci hanno preso in giro”
e si riferiva ai politici. Giuliano, mi ha raccontato mio padre prima
di morire, propose la vendetta verso Albano, ma don Gioacchino disse
che le cose potevano aggravarsi ed era meglio soprassedere».
Ma chi ha certezza del
tradimento di Passatempo? «Giuliano, dopo la strage, lo convocò e
lo legò ad un albero. Due giorni dopo, prese il giornale e andò ad
affrontarlo dicendogli: “A chi hai fatto questo favore?” Quello
rispose: “All’amico tuo”, riferendosi a don Calò Vizzini».
Ovviamente,
l’inconfessabile verità sulla strage di Portella sta, secondo
Giacomo, alla base della morte di Salvatore Giuliano: «Che non fu
ucciso a Castelvetrano, lo sanno tutti. Fu ucciso a Monreale, a villa
Carolina. A Giuliano lo cercavano tutti ma per modo di dire, perché
lui aveva rapporti persino con Ciro Verdiani, il capo dei poliziotti.
Grazie a lui era riuscito a far scarcerare i suoi genitori. Il 3
luglio del 1950 gli tesero la trappola: l’ho visto io, a Borgetto,
parlare con Domenico Albano, poi andò dalla madre che gli consigliò
di dirigersi verso Castelvetrano e non a Monreale, perché tutti
quelli che c’erano andati non erano più tornati. Pisciotta era già
a Monreale. Giuliano partì da Borgetto con un amico che lo
accompagnò in taxi, giunse a Monreale e disse a Pisciotta: “Che
stai combinando?”. Turiddu sarebbe dovuto tornare a Borgetto e
invece morì lì, a villa Carolina (poi la messinscena dei
carabinieri a Castelvetrano nel baglio dell’”avvocaticchio”
Gregorio Di Maria e il finto scontro a fuoco, ndr). Mio padre e mio
zio mi hanno raccontato che Giuliano fu addormentato con un potente
sonnifero datogli da Pisciotta che lo aveva avuto dai carabinieri,
durante una sosta nella caserma di corso Calatafimi, a Palermo». Il
resto è più o meno noto. Ora Giacomo dice di sentirsi meglio, anche
se di storie da raccontare ne ha ancora tantissime.
“La Stampa”, primo
maggio 2014
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