Sul N.20 di “Lettera
Internazionale” (primavera 1989) aperta da un testo di Saramago sul
romanzo, una sezione era dedicata alla letteratura brasiliana. Il
testo che segue, lì pubblicato con il titolo Lettera a una
lettrice, è di Jorge Amado (1912 - 2001), nato e vissuto a
Bahia, grande scrittore e militante comunista, autore di molti
romanzi tradotti anche in italiano come Sudore, Jubiabà,
Dona Flores e i suoi due mariti,
Gabriella garofano e cannella, Teresa Batista stanca di
guerra.
Nella
forma della risposta alle domande di una signora, Amado esprime la
sua poetica ed il suo legame strettissimo con il popolo di Bahia. La
traduzione e le note sono a cura della rivista. Ho aggiunto io i
sottotitoli, sperando che incoraggino la lettura. (S.L.L.)
Jorge Amado |
Un’ammiratrice chiese
al pittore Carybé, il più bahiano dei bahiani: — Lei è nato a
Bahia?
Il pittore delle mulatte,
degli orixas (1), della capoeira (2), rispose con il
suo leggero sorriso: — Non l’ho meritato, signora.
Carybé l’avrebbe sì
meritato, e nessuno più di lui, poiché dalle sue magiche mani Bahia
nasce ogni mattina, creata di nuovo in tutta la sua bellezza, ma gli
dèi non hanno voluto concedergli questo privilegio.
Io l’ho avuto, signora,
l’onore di nascere bahiano e di vivere nella città di Salvador, in
intimità con la sua gente. Lei mi dice, generosa e gentile, in una
lettera piena di buone parole, che ho fatto questo e quello per
Bahia, che merito gratitudine, omaggi, e così via. Assolutamente
niente di tutto questo, cara signora, amabile lettrice. Lasci che io
le dica che, nel mezzo secolo e oltre delle mie relazioni con Bahia e
con il popolo bahiano, sono io il debitore, sono io che debbo essere
grato, sono io che devo rendere omaggio. Sono solamente io che nella
vita di questo popolo, nella sua saggezza, nella sua dura lotta e
ostinata voglia di vivere nonostante tutti i dolori e tutti i
numerosi, invincibili ostacoli, ho imparato tutto quello che so. Se
ho realizzato qualcosa nella vita, lo devo al popolo di Bahia, alla
città di Bahia.
Lo scrittore e il
popolo
Rispondo così, signora,
alla prima domanda della sua gentile lettera sui rapporti fra lo
scrittore e il popolo, quel popolo che per lo scrittore rappresenta,
fondamentalmente, il suo personaggio, la farina e il fermento della
sua verità, della sua creazione. Questi rapporti devono possedere un
carattere di perfetta intimità, perché la conoscenza necessaria
allo scrittore per ricreare personaggi, paesaggi e situazioni, non
può essere fatta solo di osservazione fredda e prudente, di note nel
quaderno, di appunti, per quanto minuziosi e attenti . Con una
materia così, se onesta e ampia, lo scrittore potrà senz’altro
realizzare cronache e saggi di interpretazione, ma non realizzerà
mai romanzi, poesie, vita, sangue, carne, il cuore che urla. Solo la
conoscenza vera, completa, quella che non si impara sui libri e
neanche con la fredda analisi del grande reporter dal fiuto
infallibile, solo quella conoscenza che si è vissuta giorno per
giorno, minuto per minuto, nell’errore e nella verità,
nell’allegria e nella tristezza, nella disperazione e nella
speranza, nella lotta e nel dolore, nella risata e nel pianto, nella
vita e nella morte — solo questo tipo di conoscenza rende possibile
la creazione.
Come si può pensare di
ricreare la vita per sentito dire? Come si può parlare di questo
paese, di Bahia, di questo popolo meticcio e antico, forgiato da un
lungo e difficile cammino, in una mescolanza di razze, come parlare
di questa città «situata a oriente del mondo» — frase di una
appassionato cronista — dove diverse culture si sono amalgamate, i
colori si sono mischiati formandone uno nuovo, medito, dove varie
nazioni si sono unite in un letto d’amore senza limiti, come
scrivere della vita ardente e magica di Bahia senza esserne parte
integrante, come? Per ricreare la vita è necessario averla prima
vissuta ardentemente, con cuore appassionato.
Il “candomblé”
Ecco perché, signora,
non posso rispondere semplicemente con un sì o con un no a un’altra
domanda della Sua lettera: Lei crede al candomblé (3). Uno
dei miei personaggi, il mulatto Padro Archanjo, bidello
dell’università e uomo di scienza, stregone ed etnologo, ha già
risposto alla stessa domanda nelle pagine della Tenda dei Miracoli,
discutendo con un professore di medicina. «Sono materialista» ha
detto, e io qui lo ripeto: sono materialista ma il mio materialismo
non mi castra, non mi porta a essere d’accordo con la meschinità
di dogmi così limitanti per l’esperienza umana come quelli di
qualsiasi religione o setta. Non ho trasformato il mio materialismo
in setta, in inquisizione o castrazione o tribunale, sono libero
esattamente perché possiedo «riga e compasso». Bahia mi ha già
dato riga e compasso — ha scritto il poeta Gilberto Gii in un verso
immortale. Così posso sedermi sul mio trono di obà (4),
coperto di collane, rivestito dell’autorità e dell’onore che mi
sono stati concessi dai miei amici delle religioni afro-bahiane. Non
solo posso sedermi su questo trono, ma lo devo fare fra gli iaós
(5), feitas (6) e ogas (7), al lato della mae de
santo (8) e degli alti dignitari, perché solo così, nella vita
reale e profonda e non nella facile osservazione del reporter, sarò
in grado di parlarvi delle divinità e della vita popolare, dei
misteri, del mondo magico bahiano, solo così potrò ricreare la sua
verità, ricreare l’aspetto di questi uomini e donne che mi
circondano, i cui piedi danno vita alla danza più bella, uomini e
donne che hanno portato dal fondo della loro schiavitù, sulle spalle
segnate, tanta bellezza e l’hanno salvata e conservata per noi.
Tutte le volte che sento
una di queste canzoni moderne di cantanti famosi, che copiano il
ritmo del candomblé, che rubano le parole alle strade di
Bahia, mi chiedo se questi felici autori si rendono conto di cosa sia
stata l’epopea del nero brasiliano, schiavo strappato alla libertà
della foresta, incatenato con i suoi dei e i suoi tamburi, battezzato
per forza, violentato per trasformarlo in animale. Questi giovani,
gloriosi autori, capiscono quanto c’è di lotta, di coraggio, di
irriducibile speranza in ognuno di questi orixà, in ogni
passo di danza, in ogni battuta di atabaque (9), nel ritmo
stesso della nostra musica brasiliana? Il nero non ha permesso che lo
si trasformasse in animale, non ha dimenticato i suoi retaggi
culturali, il suo mondo di paure e storie, di dei e usanze. Tutto
questo è servito a farli sentire uomini, e molte volte eroi nelle
epopee dei quilombos (10). Zumbi (11) è l’eroe nato dallo
schiavo ribelle e dal libero orixà, che si erge per
recuperare la libertà.
Credere e non
credere
Capirà facilmente,
signora, come sarebbe amorfa la descrizione di questa festa di
candomblé se la conoscenza dell’artista derivasse solo
dall’osservazione, anche se particolarmente acuta, se non ci fosse
fra il creatore e la creazione un anello di sangue, anello di
fidanzamento e matrimonio, questo battere dei cuori all’unisono.
Come vuole che possa darle, viva e ardente, l’immagine di questo
mondo magico e custodito ben oltre il pittoresco, il decorativo e il
folcloristico, che io le presenti la sua verità, il suo segreto, la
sua intima risonanza, se io lo conoscessi solo per aver assistito ad
alcune cerimonie, seduto fra i visitatori, alcune volte armato solo
di vana curiosità se non addirittura di preconcetti. Se le posso
parlare di tutto questo senza mentire è perché tutto questo è
parte integrante della mia vita, del mio essere, della mia stessa
verità.
Non si tratta, quindi,
signora, di credere o non credere, bensì di essere o non essere.
Queste cose io me le porto dentro, non le ho ottenute, non le ho
comprate in nessun mercato dei sentimenti o delle conoscenze, sono
mie di diritto e alcune le conosco addirittura prima di averle viste,
le porto dentro di me.
Becchini e
ostetrici
Più di una volta si è
scritto che l’artista — scrittore, scultore, musicista — più è
nazionale più sarà universale e che la sua opera diventerà
immortale se esibirà l’impronta del suo tempo. Esiste
un’originalità nazionale che differenzia noi brasiliani dal resto
del mondo e noi bahiani dalle restanti regioni del paese. Questa
originalità, questa immagine nazionale, il colore del nostro spirito
e il colore della nostra pelle, la nostra fisionomia, non possono
essere dimenticati neanche per un momento.
Ecco perché, signora, lo
le dico che tutto quello che so, tutto quello che ho fatto e
interpretato, la parte migliore di me, mi vengono dal popolo bahiano,
sono io il grande debitore, quello che è grato e rende omaggio. Le
nostre relazioni sono intime, quelle di padre e figlio, quelle di
figlio e padre, poiché noi che scriviamo sulla vita del popolo siamo
figli e padri al tempo stesso, partoriti dall’immenso ventre del
popolo e gravidi della sua vita; dal nostro lavoro nasce la sua
realtà in termini di arte. Padri e figli del popolo e insieme, come
diceva Maksim Gorkij, becchini o ostetrici. Viviamo in un’epoca di
cambiamenti, un’epoca drammatica e bella, terribile e
appassionante. Epoca di minacce atomiche e di conquiste
dell'universo, quando le frontiere della terra si estendono
all’infinito, senza limiti. Dove arriverà l’uomo domani, fino a
dove lo porterà la sua avventura?
Becchini, sotterriamo una
società in stato di putrefazione; ostetrici, vediamo nascere,
aiutiamo a nascere un nuovo mondo. Ma, forse, nessuno di noi oggi è
capace di dire come sarà il domani, perché il nostro tempo ha rotto
con tutti i dogmi e ha messo nella bilancia della contestazione tutte
le affermazioni e tutte le profezie. Dobbiamo registrare, signora,
questo sì!, la crescita del nostro tempo, la morte del vecchio, del
passato, delle strutture decrepite, e la nascita del nuovo, del
futuro, di un orizzonte illimitato. Ma dobbiamo farlo avendo, al
tempo stesso, la nozione dell’insieme e la conoscenza del
dettaglio. Di quello che è il nostro privato.
La democrazia della
mescolanza
Nel caso di Bahia, qual è
l’impronta fondamentale? Io le direi, signora, che questa impronta
è la mescolanza. Qui tutto si è mischiato, in un amalgama
colossale. Sangue, razze, religioni, usanze, neri e bianchi, indios e
meticci, ricchi e poveri, mulatti con mulatte, e i risultati sono
questo colore di pelle e questa coscienza democratica, la cordialità
e la dolcezza, il piacere sensuale di ogni istante. Le nostre
immagini si sono sommate, si sono moltiplicate, e dentro di noi, nel
nostro sangue, le contraddizioni hanno trovato la via della
convivenza.
Quanto a me, ho voluto
soltanto fissare, per quanto è possibile e con tutti i miei limiti,
l’uomo nato da tutto questo amalgama e narrare come quest’uomo
abbia popolato democraticamente la sua nazione per ricostruirla senza
preconcetti. Per questo ho cercato di essere fedele ai suoi valori
caratteristici, senza preoccuparmi in nessun caso del circostanziale
e dell’immediato. Ho scritto dell’uomo nella sua intesa più
profonda con la terra e gli altri uomini. Ho voluto segnalare i
momenti più importanti, l’amore e la morte.
Cacao, amore e
morte
Veramente, se leggo le
pagine scritte dall’adolescenza a oggi in più di quarantanni di
duro lavoro, di mestiere instancabile, scopro l'amore e la morte
sempre presenti, al centro degli avvenimenti. L’amore e la morte,
ossia la vita e la morte, perché amore e vita sono sinonimi.
Provengo dall’universo
primitivo e feroce del cacao. Ho vissuto, signora, l’infanzia fra
sparatorie, nell’era della conquista della terra per la piantagione
degli alberi dai frutti d’oro. Il cacao aveva aperto radure nella
foresta vergine e aveva acceso la luce gialla dell’ambizione nel
petto degli uomini. Il coraggio e la crudeltà diventavano necessari,
esigenze di un tempo in cui si ammazzava e si viveva. Gli spari
echeggiavano nei campi e nelle foreste durante gli agguati nelle
notti senza luna, e si propagavano nelle città e nei villaggi.
Caseggiati nascevano sulla scia dei cadaveri, nella terra bagnata di
sangue. Lì ho colto il fiore della vita addobbata nella morte.
Fiorivano le piantagioni di alberi di cacao, e qualche volta una
croce segnava la caduta di un uomo in quella lotta senza quartiere.
La terra, di nessuno, era conquistata dalla punta del fucile, dal
filo del pugnale. In queste terre di II-heus e Itabune, in luoghi che
anticamente si chiamavano Pirangi e Àgua Preta, Rio do Brago, ho
parlato con uomini e donne dalla rude umanità per tracciare con loro
la saga della conquista della terra, la grandezza e la miseria dei
colonnelli (12) e del latifondo, la nascita di una civiltà dalla
bocca dei fucili, di una cultura ammantata di violenza. Ho raccontato
storie paurose, ho eretto il monumento di uomini che erano al tempo
stesso fraterni e brutali, dalla impassibile villania, ho parlato di
donne che hanno mantenuto alta la fiamma dell’amore lì dove
comandava solo la morte.
Note
(1) Divinità secondaria
della mitologia africana [ndt].
(2) Gioco atletico fatto
con un rasoio fra i piedi [ndt].
(3) Danza di neri, per
estensione macumba [ndt].
(4) Re, ministro della
macumba [ndt].
(5) Iniziati alla
macumba [ndt].
(6) Preparati alla
macumba [ndt].
(7) Protettori del
candomblé [ndt].
(8) Medium della macumba
[ndt].
(9) Tamburello [ndt].
(10) Capanne nella
foresta dove si rifugiavano gli schiavi neri fuggiti [ndt].
(11) Fantasma che va
nelle case nelle ore notturne [ndt].
(12) Non militari, ma
coloro che comandano nella realtà locale, quasi sempre latifondisti
[ndt].
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