Museo Archeologico di Napoli - Statuetta votiva raffigurante il dio Priapo ( I sec.d. C.) |
L'amore a Roma: più
precisamente, il rapporto dei romani con il sesso. Come lo vivevano,
con chi lo vivevano, quali furono gli eventi politici e sociali che
determinarono il loro modo di considerare la sessualità? In un
volume che raccoglie cinque studi, ce ne parla Luca Canali (Vita
sesso morte nella letteratura latina, Il
Saggiatore), secondo il quale nella storia della letteratura
romana sarebbero individuabili due periodi: quello iniziale, nel
quale il sesso era slancio vitale, aspirazione alla felicità e
strumento per ottenerla, e quello più tardo (iniziatosi all'età di
Cesare) caratterizzato dalla stagnazione di ogni pulsione vitale ed
erotica e dal presentimento della fine della vita individuale e della
grandezza di Roma.
Dopo Catullo, dice Canali
(vivamus, mea Lesbia, vivamus atque amemus...), il sesso
finisce di essere gioia, gioco, speranza, passione, talvolta dolore,
ma sempre e comunque espressione di vita. La letteratura dell’età
successiva rifletterebbe quel «cimitero di valori» che era ormai la
società romana. Virgilio, Orazio, Lucano, Seneca, Petronio, Tacito,
Giovenale, Marziale, Svetonio, ciascuno a suo modo, esprimerebbero
l’ossessione della fine, la consapevolezza della caducità
dell’esistenza e dell’incombere «non esorcizzabile» della
morte.
Un discorso complesso,
che meriterebbe un’analisi particolareggiata della sensibilità dei
diversi autori, e che qui non è possibile fare. Ma qualche
considerazione generale è forse opportuna: non - certamente - per
negare la veridicità del quadro della decadenza dei valori tracciato
da Canali, ma per vedere se al suo interno non sia possibile
cogliere, pur sempre, alcuni elementi della concezione vitale, tanto
antica quanto elementare, che i romani avevano sempre avuto del
sesso, e chiedersi se, nel momento della crisi, anziché dissolversi,
questa concezione non sia invece sopravvissuta (come io credo),
venendo ad assolvere a una nuova e tutt’altro che trascurabile
funzione: quella di rassicurare il maschio romano dalle ansietà e
dalle incertezze che lo travagliavano sia come uomo sia come
cittadino.
Per il romano, inutile
negarlo, il sesso era essenzialmente «stupro». Egli era destinato a
conquistare il mondo con la forza delle armi e la superiorità della
legge: la sua logica era quella del dominatore. E posto che la sua
etica sessuale altro non era che un aspetto della sua etica politica,
amare, per lui, significava sottomettere. Del resto, anche i poeti
più raffinati concepivano l’amore come una guerra. Militai omnis
amans, et habet sua castra Cupido: ogni amante è un soldato, e Amore
ha i suoi accampamenti, scrive Ovidio. E il soldato romano,
ovviamente, doveva vincere la guerra: per il colto, frivolo,
sofisticato Ovidio, doveva vincerla in punta di fioretto, nelle
schermaglie mondane, con le armi della seduzione. Ma Ovidio era
un'eccezione. Ben diverso da lui, ad esempio, un autore come Orazio,
che, colto da improvviso e irrefrenabile desiderio, riteneva assurdo
preoccuparsi di come o con chi soddisfarlo: non cerano forse a sua
disposizione, per questo, le schiave e gli schiavetti di casa, per i
quali soddisfare il padrone era un obbligo? Amo Venerem facilem
parabilemque. amo l’amore facile e a portata di mano.
Ben diversi da Ovidio,
ancora, poeti come Giovenale e Marziale, le cui satire impietose, al
di là degli eccessi, offrono purtuttavia un'immagine
dell’atteggiamento popolare che contiene elementi di realtà: e
quantomeno per una parte della popolazione, vale a dire le donne, è
assai difficile cogliere «sentore di morte» nella loro tanto
deprecata sfrenatezza sessuale. Ancora più significativi dei versi
dei «poeti laureati», infine (e certamente più rappresentativi
della mentalità del cittadino medio in questo caso solo maschio)
sono i celebri carmina priapeia, vale a dire le composizioni
anonime dedicate a Priapo, il Fallo, la cui immagine (un omino
fornito di enormi genitali) troneggiava negli orti romani come
spauracchio per gli uccelli che devastavano le messi e i ladri che
spogliavano i frutteti. L'arma con cui Priapo proteggeva gli orti,
infatti (sodomizzando per punizione i ladri), era l'arma di cui il
romano era più fiero, quella che consentiva anche a lui, come a
Priapo - oltre che di sottomettere le donne - di punire chi gli aveva
fatto un torto e di umiliarlo dimostrandogli la sua virilità. Quella
virilità da stupratore così profondamente romana da non poter
essere ripudiata neppure da un poeta romantico come Catullo, pronto
(quantomeno a parole) a sodomizzare per vendetta Furio ed Aurelio,
gli amici traditori che avevano osato insidiare il suo amatissimo
Giuvenzio (pedicabo vos et irrumabo...).
Ma cosa accadde di questa
concezione della virilità nel momento della crisi, quando Roma
divenne ingovernabile, le donne si emanciparono e l'Impero cominciò
a mostrare i sintomi della inevitabile decadenza? A ben vedere, il
maschio romano, lungi dal modificare l'immagine di sé che aveva
sempre avuto, a questa immagine si aggrappò come a un'ancora di
salvezza, facendo di essa il baluardo e il simbolo stesso della sua
pericolante personalità. Quale che sia il giudizio che di questa
virilità si voglia dare, è difficile non cogliere il
valore vitale (o quantomeno il tentativo di attribuirle questo
valore), che essa giocò proprio nei secoli della crisi. Mitizzando
la sua virilità il romano esorcizzava la paura della fine. E a
dimostrarlo interviene la storia della repressione
dell’omosessualità: anche quando, ad opera degli imperatori
cristiani, venne messa in atto una politica che tentava di estirpare
il vizio «contro natura», i soli omosessuali puniti furono quelli
passivi, colpevoli di aver abdicato alle loro prerogative virili.
Quelli attivi, i dominatori, restarono per lunghi secoli impuniti.
“l'Unità”,
ritaglio senza data, ma 1980
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