13.9.15

Federico Chabod, un montanaro sulle vette della storia (Angelo D'Orsi)

Nella sua carriera di studente universitario, Federico Chabod incorse in un incidente: fu sorpreso a sostenere esami per conto di un suo compagno valdostano, dal nome simile al suo. Si trattava, per Chabod, quasi di un passatempo, infilare tra un esame e l'altro della sua facoltà – Lettere, dell'ateneo torinese - qualche esame di Giurisprudenza, a cui era iscritto l'amico. Fu grazie alla battaglia di Pietro Egidi, titolare della cattedra di Storia moderna, che Chabod evitò l'espulsione dall'Università. Poco dopo, nel luglio 1924, egli si laureava proprio con Egidi, il quale gli aveva già girato l'incarico di curare un'edizione del Principe per la Utet. Incominciava così una precoce carriera: il Machiavelli di Chabod si impose subito all' attenzione, a cominciare da Benedetto Croce, ma anche a quella, d'altro segno, di un'intellettualità nazionalfascista che nel Segretario fiorentino voleva a tutti i costi vedere un «precursore» dei tempi moderni, con allusione più o meno vaga a Mussolini.
Seguirono anni di apprendistato, tra Salvemini a Firenze (quel Salvemini che lo stesso Chabod aiutò a espatriare, guidandolo per i sentieri del Piccolo San Bernardo), Meinecke a Berlino, il soggiorno spagnolo a Simancas: nel formidabile archivio dove svolgeva ricerche che sarebbero sfociate nei suoi lavori sulla Milano dell'età di Carlo V, incrociò Fernand Braudel inaugurando un'amicizia duratura; infine, la Scuola romana di Storia moderna e contemporanea diretta da Gioacchino Volpe che, morto Egidi nel 29, sarebbe diventato non solo il grande maestro di Chabod, ma anche il suo protettore. A Roma Chabod era stato reclutato nella grande impresa dell'Enciclopedia Italiana, dove pubblicò voci di mirabile efficacia e chiarezza. Eppure nel frattempo quel giovane non ancora trentenne (era nato nel 1901) scopriva Croce, rimanendone fascinato.
In realtà, almeno fino alla guerra mondiale, Chabod aderì al fascismo soprattutto perché il regime creava opportunità nuove per gli uomini di cultura, anche se non mancano in taluni scritti chabodiani inclinazioni nazionalistiche e momenti retorici che fanno emergere una qualche vicinanza ideologica: Volpe avrebbe ricordato poi, con un po' di malizia, che una lacrima era spuntata negli occhi del suo discepolo alla notizia della proclamazione dell'Impero, nel 1936. L'anno prima egli era diventato professore a Perugia, per poi passare, nel 1938, all' Università di Milano.
Studioso del Rinascimento, della nascita delle nazioni e degli Stati moderni, Chabod aveva incominciato a guardare a temi più vicini, ossia l'Italia unita, all'interno di un progetto nato in seno ad un'altra importante istituzione culturale del regime, il milanese Ispi, su iniziativa di Volpe, Alberto Pirelli e Pier Franco Gaslini. Da questi studi sarebbe nato il capolavoro, quella Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 (1951) che sembra quasi suggellare la duplice influenza: Croce e la sua storia etico-politica, attenta soprattutto alle idee, da un canto e, dall' altro, Volpe e l'attenzione alla società, all'economia, alla «grande politica».
Non si contano gli scritti «minori», l'attività culturale, e soprattutto la passione didattica profusa in questi anni. E tuttavia quella passione, intanto associatasi a una presa di coscienza politica con quel fondamentale corso milanese del 1943-44 sull'Idea di nazione, non gli impedì di abbandonare la cattedra per il maquis, come il grande Marc Bloch, che proprio nel ' 44 veniva fucilato dai tedeschi.
Chabod fece la sua parte nella Resistenza. E sull'onda, la politica lo prese, portandolo alla presidenza della Regione Valdostana, ruolo svolto all'insegna del più tenace autonomismo, ma della ferma rivendicazione dell'italianità della Valle. Fu questo che a molti valdostani non piacque, al punto che per poco non fu ucciso da un gruppo di fanatici dell'annessione alla Francia, che cercarono di defenestrarlo dalla sede del Consiglio. Trasferito all'Università di Roma, raccolse i frutti della lunga semina: direttore della prestigiosa «Rivista Storica Italiana» e insieme, su proposta di Croce, del napoletano Istituto per gli Studi Storici. La straordinaria vitalità di questo montanaro scabro e coraggioso non valse però a fermare la malattia che lo aveva colpito. E quando il 14 luglio del 1960 egli se ne andò, un altro grande della storiografia, Delio Cantimori, diede voce al sentimento comune, esprimendo il «senso di solitudine, di esser stati lasciati soli, quasi orfani». Da allora la fortuna di Chabod nella cultura italiana è stata oscillante. Negli anni Sessanta-Settanta, la sua storia «seria», quasi schiva, fu travolta dai modi e le mode della storia sociale, per riemergere parzialmente negli anni Ottanta, rimanendo, finora, soltanto sullo sfondo del dibattito e della ricerca. Oggi i tempi appaiono maturi per accogliere l'eredità dell'opera e, anche, dello stile umano di uno studioso che non rinunciò ad essere un cittadino e che avrebbe molto da insegnare agli uni e agli altri. 


Corriere della Sera,12 luglio 2000

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