Nella sua carriera di
studente universitario, Federico Chabod incorse in un incidente: fu
sorpreso a sostenere esami per conto di un suo compagno valdostano,
dal nome simile al suo. Si trattava, per Chabod, quasi di un
passatempo, infilare tra un esame e l'altro della sua facoltà –
Lettere, dell'ateneo torinese - qualche esame di Giurisprudenza, a
cui era iscritto l'amico. Fu grazie alla battaglia di Pietro Egidi,
titolare della cattedra di Storia moderna, che Chabod evitò
l'espulsione dall'Università. Poco dopo, nel luglio 1924, egli si
laureava proprio con Egidi, il quale gli aveva già girato l'incarico
di curare un'edizione del Principe per la Utet. Incominciava
così una precoce carriera: il Machiavelli di Chabod si impose
subito all' attenzione, a cominciare da Benedetto Croce, ma anche a
quella, d'altro segno, di un'intellettualità nazionalfascista che
nel Segretario fiorentino voleva a tutti i costi vedere un
«precursore» dei tempi moderni, con allusione più o meno vaga a
Mussolini.
Seguirono anni di
apprendistato, tra Salvemini a Firenze (quel Salvemini che lo stesso
Chabod aiutò a espatriare, guidandolo per i sentieri del Piccolo San
Bernardo), Meinecke a Berlino, il soggiorno spagnolo a Simancas: nel
formidabile archivio dove svolgeva ricerche che sarebbero sfociate
nei suoi lavori sulla Milano dell'età di Carlo V, incrociò Fernand
Braudel inaugurando un'amicizia duratura; infine, la Scuola romana di
Storia moderna e contemporanea diretta da Gioacchino Volpe che, morto
Egidi nel 29, sarebbe diventato non solo il grande maestro di Chabod,
ma anche il suo protettore. A Roma Chabod era stato reclutato nella
grande impresa dell'Enciclopedia Italiana, dove pubblicò voci
di mirabile efficacia e chiarezza. Eppure nel frattempo quel giovane
non ancora trentenne (era nato nel 1901) scopriva Croce, rimanendone
fascinato.
In realtà, almeno fino
alla guerra mondiale, Chabod aderì al fascismo soprattutto perché
il regime creava opportunità nuove per gli uomini di cultura, anche
se non mancano in taluni scritti chabodiani inclinazioni
nazionalistiche e momenti retorici che fanno emergere una qualche
vicinanza ideologica: Volpe avrebbe ricordato poi, con un po' di
malizia, che una lacrima era spuntata negli occhi del suo discepolo
alla notizia della proclamazione dell'Impero, nel 1936. L'anno prima
egli era diventato professore a Perugia, per poi passare, nel 1938,
all' Università di Milano.
Studioso del
Rinascimento, della nascita delle nazioni e degli Stati moderni,
Chabod aveva incominciato a guardare a temi più vicini, ossia
l'Italia unita, all'interno di un progetto nato in seno ad un'altra
importante istituzione culturale del regime, il milanese Ispi, su
iniziativa di Volpe, Alberto Pirelli e Pier Franco Gaslini. Da questi
studi sarebbe nato il capolavoro, quella Storia della politica
estera italiana dal 1870 al 1896 (1951) che sembra quasi
suggellare la duplice influenza: Croce e la sua storia
etico-politica, attenta soprattutto alle idee, da un canto e, dall'
altro, Volpe e l'attenzione alla società, all'economia, alla «grande
politica».
Non si contano gli
scritti «minori», l'attività culturale, e soprattutto la passione
didattica profusa in questi anni. E tuttavia quella passione, intanto
associatasi a una presa di coscienza politica con quel fondamentale
corso milanese del 1943-44 sull'Idea di nazione, non gli
impedì di abbandonare la cattedra per il maquis, come il
grande Marc Bloch, che proprio nel ' 44 veniva fucilato dai tedeschi.
Chabod fece la sua parte
nella Resistenza. E sull'onda, la politica lo prese, portandolo alla
presidenza della Regione Valdostana, ruolo svolto all'insegna del più
tenace autonomismo, ma della ferma rivendicazione dell'italianità
della Valle. Fu questo che a molti valdostani non piacque, al punto
che per poco non fu ucciso da un gruppo di fanatici dell'annessione
alla Francia, che cercarono di defenestrarlo dalla sede del
Consiglio. Trasferito all'Università di Roma, raccolse i frutti
della lunga semina: direttore della prestigiosa «Rivista Storica
Italiana» e insieme, su proposta di Croce, del napoletano Istituto
per gli Studi Storici. La straordinaria vitalità di questo montanaro
scabro e coraggioso non valse però a fermare la malattia che lo
aveva colpito. E quando il 14 luglio del 1960 egli se ne andò, un
altro grande della storiografia, Delio Cantimori, diede voce al
sentimento comune, esprimendo il «senso di solitudine, di esser
stati lasciati soli, quasi orfani». Da allora la fortuna di Chabod
nella cultura italiana è stata oscillante. Negli anni
Sessanta-Settanta, la sua storia «seria», quasi schiva, fu travolta
dai modi e le mode della storia sociale, per riemergere parzialmente
negli anni Ottanta, rimanendo, finora, soltanto sullo sfondo del
dibattito e della ricerca. Oggi i tempi appaiono maturi per
accogliere l'eredità dell'opera e, anche, dello stile umano di uno
studioso che non rinunciò ad essere un cittadino e che avrebbe molto
da insegnare agli uni e agli altri.
Corriere della Sera,12
luglio 2000
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