Robert Redford e Mia Farrow nel "Grande Gatsby" di Jack Clayton (1974) |
È un modello
intramontabile: quattro versioni cinematografiche tra il 1926 e il
2013, un adattamento teatrale del 1926 di Owen Davis e uno del 2006
di Simon Levy, un’opera del 1999 di John Harbison, un musical del
2012, due balletti, due videogames, molte citazioni cinematografiche
e letterarie consapevoli o inconscie. Meno di duecento pagine per
raccontare il culmine e presentire il crollo del periodo e della
generazione che avevano “inventato” la modernità: è Il
grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, pubblicato per la
prima volta novant’anni fa, il 10 aprile del 1925, il ritratto duro
e malinconico dell’età del jazz stretta tra la Prima guerra
mondiale e il crack del 1929 che, a differenza dei due romanzi
precedenti dell’autore (Di qua dal paradiso e Belli e
dannati), non ebbe successo, vendette poco, fino a quando nel
1941, ripubblicato un anno dopo la morte di Fitzgerald insieme
all’incompiuto Gli ultimi fuochi, incominciò la sua
rivalutazione critica e la sua irresistibile ascesa; oggi, ha venduto
più di 25 milioni di copie, è un titolo che non esce mai dai
cataloghi ed è secondo (dopo Ulisse di Joyce) nella lista
della Modem Library dei migliori romanzi di lingua inglese del
Novecento. Per gli anni Venti e Trenta è il corrispettivo di Il
giovane Holden di Salinger per gli anni Cinquanta e Sessanta: il
romanzo generazionale che ha fissato indelebilmente lo spirito
contraddittorio di un’epoca.
Eppure, nonostante il
fascino che Il grande Gatsby esercita da quasi un secolo, nessuno dei
film che ha ispirato è stato all’altezza delle sue suggestioni. A
parte il primo, muto, diretto nel 1926 da Herbert Brenon, che è
andato perduto, non è più che dignitosamente romantico
l’adattamento del 1949 di Elliott Nugent, soprattutto grazie ad
Alan Ladd, eroe del noir anni Quaranta, che automaticamente
suggerisce il passato oscuro del personaggio. Pessimo, invece, il
sontuoso allestimento del 1974 di Jack Clayton: nonostante il cast
che sulla carta pareva perfetto (la malinconia di Robert Redford, la
spavalderia aggressiva di Bruce Dern, nella parte del marito di
Daisy, e la carnalità di Karen Black, in quella della sua amante,
meno azzeccata Mia Farrow, con poca magia e molti squittii), il film
annega nella fotografia flou e nella pedanteria scolastica
della sceneggiatura di Francis Ford Coppola (che sostituì Truman
Capote). Sperduti tra il bianco e i pastelli, i personaggi si
aggirano in una scenografia fastosa ripetendo diligenti le battute
del romanzo: la lettera è lì, ma lo spirito è andato perduto, e
non capiamo il perché di tutto questo soffrire.
Poi, nel 2013, ecco la
versione pop di Baz Luhrmann, che con la sua energia fantasmagorica e
kitsch riesce ad afferrare quello che avevano mancato i registi
precedenti: qui c’è davvero l’età del jazz, sfrenata, cinica e
immemore, che davvero danza sull’orlo dell’abisso. E c’è il
migliore dei Jay Gatsby: Leonardo Di Caprio, equivoco quanto basta,
ma anche eterno, goffo adolescente capace di trasmettere pene d’amore
e di censo.
Per la prima volta,
prende corpo il personaggio del narratore, Nick Carraway, la voce
morale e insieme incantata della storia, interpretato da Tobey
Maguire. È proprio su questa figura però che il film inciampa,
identificandola apertamente con Fitzgerald. Ma Nick non è
Fitzgerald, o comunque lo è meno di Gatsby, uno dei tanti “fratelli”
dello scrittore, che disse una volta: «1 libri sono come fratelli.
Gatsby è il mio immaginario fratello maggiore, Amory (Di qua dal
paradiso) il mio fratello minore, Anthony (Belli e dannati) il
mio cruccio, Dick (Tenera è la notte) un fratello
relativamente buono. Ma si trovano tutti lontano da casa».
Il problema, di questo e
altri adattamenti, è che il plot è ingannevole, che i personaggi
sono insieme scontati e sconcertanti, che l’ottimismo irragionevole
convive sempre con la disperazione del fallimento. La materia di cui
sono fatti i libri di Fitzgerald è imprendibile, evanescente, fatta
di psicologie cangianti e azioni più desiderate che vissute, una
successione di “incrinature” che conducono sempre alla disfatta,
alla disillusione, alla perdita di quel “Sogno” che aveva
rappresentato l’America per i primi coloni e sul quale il Paese si
era costruito, infrantosi contro la violenza, l’arroganza, il
cinismo.
Una “caduta” che
Fitzgerald percepì prima di altri autori della sua generazione e
nella quale s’identificò dolorosamente. Antieroico ante
litteram: forse è per questo che non è mai stato fatto un film
davvero bello dai suoi romanzi, tranne quando, nel 1976, unautore
deluso da Hollywood tanto quanto lo era stato Fittzgerald riuscì a
sovrapporre le proprie angosce alle sue, a riflettersi in uno stato
d’animo: era Elia Kazan con Gli ultimi fuochi.
“Il Sole 24 Ore
Domenica”, 29 marzo 2015
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