Ci vuole un certo
coraggio, arrivati a 84 anni, per smantellare (smascherare,
disintegrare: insomma polverizzare) tutto quello per cui si è stati
famosi nella vita. Più ancora ce ne vuole se si tratta di una star.
E sebbene nel caso in parola la star sia una donna che non ha mai
avuto peli sulla lingua, questa volta passa il limite anche lei. In
Me: Stories of My Life (Knopf, pagg. 420, dollari 25. In
Italia uscirà con il titolo Jo da Frassinelli a fine mese,
pagg. 336, lire 29.500). Katharine Hepburn vuota il sacco, come
dovevamo aspettarci; spara giudizi senza tregua, e ci aspettavamo
anche questo. Ma fa di sé un profilo disarmante, ed è una
rivelazione. Fin dalla prima pagina si dichiara "stanca da
morire della creatura che ho creato", la "grande bella
bambola del cinema". Con un tono che non lascia spazio a nessun
ghost-writer, una prosa "confessionale", certamente dettata
a un registratore, e la voglia matta di tirar giù dal piedistallo la
diva, la Hepburn fa ciò che nessuna diva ha mai fatto: smitizza se
stessa e il mito delle star. Se salva qualcuno - John Wayne, Gary
Cooper, George Cukor e naturalmente Spencer Tracy - lo fa perché
erano "professionisti seri, sempre a loro agio davanti o dietro
la camera". Niente di più.
Spregiudicata fin dal
titolo, quel "Me" che l' ha accompagnata tutta la vita,
ricorda senza veli, sforzandosi di essere onesta, al punto che - di
molte cose - ci si domanda se siano vezzo o verità. Anche il vezzo,
tuttavia, è verità. Infatti il profilo che si ricava è impietoso:
Katharine Hepburn ha vissuto completamente concentrata su se stessa
(esclusa una parentesi), ha vissuto da snob atroce, da falsa liberal,
da egoista inguaribile. Furba, opportunista, dura e poi "adorabile"
solo per tornaconto, recitava anche quando non recitava; e se a
qualcuno è rimasta di lei l' immagine di una donna quasi intoccata,
una specie di vergine di ferro, un incrocio tra la zitella inglese e
la wasp, la bianca protestante americana, sangue puritano e pelle di
daino, queste "storie" della sua vita distruggono anche
quella.
Un amore dopo l'altro
Katharine Hepburn si crocifigge. (Uno dei suoi tanti agguati?).
Rivela, per cominciare, la sua vera età: è nata il 12 maggio 1907,
non due anni dopo come ha sempre detto, e nemmeno l' 8 novembre, che
era invece la data di nascita del fratello Tom, quello morto (forse)
suicida. "Sono un' attrice? Non lo so. Non ricordo". Di
certo, non faticò affatto per diventarlo. Nata in una famiglia
agiata del Connecticut ("dal lato giusto della scala sociale"),
due genitori forti alle spalle (medico il padre, suffragetta la
madre), fratelli e sorelle esuberanti e sportivi come lei, e un
passaporto verso la celebrità come i Bryn Mawr College (matrice del
suo accento singolare), prima ancora di laurearsi le bastò muovere
un paio di pedine - l'amico Jack Clarke, che conosceva l'impresario
Edwin Knopf - e Knopf le disse: "Ah, sì. Quando finisci il
college vieni a trovarmi"; e quando andò a trovarlo le disse:
"Le prove cominciano lunedì".
Era in teatro. Il cinema
le aprì le porte altrettanto naturalmente. Quando divenne "veleno
al box office" a causa di quattro film sbagliati, reagì
con quattro capolavori (Alice Adams, Stage Door,
Bringing Up Baby e Holiday), che le spianarono la
strada verso i suoi massimi trionfi, The Philadelphia Story e
Woman of the Year. Tutto merito della sua arte? Non proprio.
La donna che da piccola si faceva chiamare Jimmy perché voleva
essere presa per un ragazzo, adescò il successo adescando gli uomini
giusti, uno dietro l'altro. Non diversamente da tante altre attrici:
solo con miglior stile. E oggi lo dice. Persa la verginità a
vent'anni ("Una cosa che andava fatta") con l'uomo che
avrebbe sposato l'anno dopo, Ludlow Ogden Smith (al quale impose di
diventare S. Ogden Ludlow per non doversi chiamare lei "signora
Smith"), e divorziata appena messo piede a Hollywood, la sua
carriera corse a perdifiato; e con essa, i suoi amori, che sono
innumerevoli, mai casuali e spesso "bollenti".
Ai maggiori dedica un
capitolo ciascuno. Gli intermezzi sono i film, che descrive come
tappe del suo successo, "proprietà" da essere contrattate,
mai come arte; e i "grandi" (produttori e registi), che
elogia sapientemente anche oggi. Sono come la statua della libertà-
E' la galleria che fa da corona a Me-Katharine George Cukor:
energico, intelligente, rococò. John Barrymore: uomo strano,
affascinante, dotato di passione per l'altro sesso ma indifferente
verso le sue conquiste, come se guidasse un'automobile ad aria.
"Luddy", il marito: generoso, che Katharine tratta
(pentendosi molto più tardi) in modo triviale. Jed Harris:
scrittore-flirt che fu ospitato anche a Fenwick (la tenuta di
famiglia), e che le sottrasse tredicimila dollari, mai ripagati. Il
presidente Roosevelt: certi uomini hanno un fascino naturale, come
Churchill, come Reagan (Nixon no). Leland Hayward: voleva sposarla,
lei voleva solo spassarsela, lui finì con lo sposare un' altra, e
Katharine pianse. Howard Hughes: lungo rapporto, grandi manovre ma "i
temperamenti uguali fanno bene a dividersi"... Un grande uragano
distrugge la casa di Fenwick. "Una vera avventura", scrive
la Hepburn.
E poi gli amici della sua
fortunata carriera: Louis Mayer, Garson Kanin. "Per molta gente
sono un'istituzione come la Statua della Libertà", riflette.
Altri uomini: William Rose, lo scrittore inglese, Charles Boyer,
"cercato di sedurre ma senza successo", Humprey Bogart
(superammirato soltanto). Più avanti negli anni, una confessione
patetica: "John Wayne, spalle larghe (molto), torace ampio
(tanto). Eccitante, quando mi strusciavo a lui (il più spesso
possibile, devo ammettere... ridotta a piaceri così innocenti)".
La vecchia signora che
oggi abita ancora a Manhattan, nella casa che comprò nel 1931, che
per questo libro ha ricevuto quattro milioni di dollari di anticipo
(circa cinque miliardi di lire), che si reputa "fortunata",
che non ha mai avuto figli perché (dice) ha fatto la madre ai suoi
fratelli, e che per il cinema ha sempre sentito una specie di "soave
disprezzo", deve la sua fortuna - conclude - a tre cose: i
genitori, l'essere stata molto amata (da "Luddy"), ed aver
molto amato (Spencer Tracy, che rimane anche per lei un enigma).
Sapevamo già quasi tutto? No, non detto così. Non con la spietata
intransigenza di un essere umano che, essendosi "prestato"
a un altro (la star), tira le somme e si avvede di aver vissuto
tanto, ma come un' ombra di celluloide. Donna "fortunata"?
Forse...
“la Repubblica”, 21
settembre 1991
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