14.9.15

Giorgio Luzzi. Versi per restituire responsabilità alla parola (Velio Abati)

Giorgio Luzzi
La già corposa produzione Giorgio Luzzi presenta al lettore un nuovo libro importante che include anche la sequenza Rogo alla Thyssen-Krupp, composta a seguito dell'orrida morte dei sette operai della fonderia torinese nel dicembre 2007, sequenza musicata da Guarnieri e rappresentata lo scorso autunno al teatro Astra di quella città con la regia di Alberto Jona (Troppo tardi per Santiago, Aragno).
La costitutiva preminenza del tutto sulle parti dell'opera d'arte è da Giorgio Luzzi assecondata da un sorvegliato intento costruttivo, evidente a partire dalla titolazione, impiegata per un verso a complicare le fughe semantiche del componimento e per l'altro a strutturare legami d'insieme nella raccolta, per cui il profilo dei testi e delle sezioni precedentemente usciti in forme occasionali acquista ora un significato parzialmente nuovo.
La radice nutritiva di Luzzi, classe 1940 «valtellinese di nascita e torinese d'elezione» come ama precisare, è riconoscibilmente mitteleuropea, con aperture all'area francese, cosicché non sorprende che la sua voce si collochi nell'espressionismo lombardo, sorretta per altro da una forte tensione narrativa. L'energia che la anima è principalmente etica, con esplicite incursioni civili, sostenuta dalla profonda convinzione nella responsabilità della parola e della poesia, cui è assegnato il compito di scavare oltre la falsa chiarezza di ciò che immediatamente appare, oltre l'inganno reiterato della comunicazione alla portata di tutti, arma del potere.
Per questo i suoi testi sono slogati da una doppia tensione. Infatti mentre essi assecondano il bisogno di ancorarsi alla determinatezza ora con indicazioni circostanziali, appelli e sollecitazioni al lettore convocato nella scena, ora con continui ricorsi al dato cronachistico tramite inserti di voci in presa diretta e lacerti di dialogo, nel contempo tali agganci alla ruvidezza del principio di realtà sono violentemente virati in una dimensione altra, che dà al materiale denotativo forma spaesante, irriconoscibile. Il modus operandi principe è, insieme con l'elisione operata da un secco procedimento sineddotico, il montaggio. Per questo se la figura chiave è l'analogia, il ritmo è vistosamente segnato da ciò che altra volta ho cercato di riassumere con il termine sintattismo.
Uno dei primi elementi che colpiscono il lettore, perché vi si trama l'intera raccolta, è il tema del viaggio. Numerosi e disseminati sono i nomi di luogo: dall'amata Vienna al Vermont, dalla Francia ai paesi africani, per tacere di altri anonimi paesaggi e passaggi. Eppure a sondar oltre la superficie, si scorge un immorare, un patire che diresti da locus conclusus. Per meglio testare il senso di questa faglia, è necessario però percorrere un'altra strada.
Dicevo del primato etico della parola, della tensione a fare del tessuto poetico, per l'oltranza che gli è propria, il luogo dove vive il senso della vita del poeta e dell'ordine collettivo. Avverti in ogni mossa la nobiltà della parola, sia quando prende movenze da divertissement infantile, sia quando s'impenna nell'invettiva sarcastica. Da questa tensione nascono l'intermittente ricorso alle clausole gnomiche, la predilezione per le giunture analogiche rare, in lessico alto fino all'arcaismo o al neologismo.
È insomma convogliata tutta una cerimonialità della parola che più si palesa laddove lo sforzo ultraneo dell'espressionismo diviene più rarefatto, in contrappeso a quell'avvicinamento alla materia storica che altra volta ho intravisto nella recente ricerca luzziana. In quei punti estremi avverti la tensione etica scoprire un uso difensivo della nobiltà della parola. Ferita squadernata dalla sincerità intrepida del poeta che percorre intera la strada scelta, giungendo a mettere a nudo la sua impotenza e sperimentando sulla propria carne la precarietà irrimediabile della propria scommessa:i viaggi forse sono irreali, così come l'onore della lingua diventa forse un gesto autoconsolatorio. Dico «propria», ma naturalmente è di un'intera cultura che si parla. È una certa figura novecentesca di poeta che guarda smarrita il paesaggio sociale e umano, una cultura e una lingua sfigurati eppure ineludibili: mentre gridano che l'intera fase otto-novecentesca è finita, reclamano altre domande, altri gesti. Ecco, solo da questo ultimo orizzonte diviene chiaro il titolo, bellissimo, della raccolta: Troppo tardi per Santiago. Quasi fraterno e oscuro rinvio a una poesia del viennese Karl Kraus, La domenica dopo la guerra: «Che ora è del giorno?/ Troppo tardi».


Il manifesto, 22.07.2015

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