Giorgio Luzzi |
La già corposa produzione Giorgio
Luzzi presenta al lettore un nuovo libro importante che include anche
la sequenza Rogo alla Thyssen-Krupp, composta a seguito
dell'orrida morte dei sette operai della fonderia torinese nel
dicembre 2007, sequenza musicata da Guarnieri e rappresentata lo
scorso autunno al teatro Astra di quella città con la regia di
Alberto Jona (Troppo tardi per Santiago, Aragno).
La costitutiva preminenza del tutto
sulle parti dell'opera d'arte è da Giorgio Luzzi assecondata da un
sorvegliato intento costruttivo, evidente a partire dalla
titolazione, impiegata per un verso a complicare le fughe semantiche
del componimento e per l'altro a strutturare legami d'insieme nella
raccolta, per cui il profilo dei testi e delle sezioni
precedentemente usciti in forme occasionali acquista ora un
significato parzialmente nuovo.
La radice nutritiva di Luzzi, classe
1940 «valtellinese di nascita e torinese d'elezione» come ama
precisare, è riconoscibilmente mitteleuropea, con aperture all'area
francese, cosicché non sorprende che la sua voce si collochi
nell'espressionismo lombardo, sorretta per altro da una forte
tensione narrativa. L'energia che la anima è principalmente etica,
con esplicite incursioni civili, sostenuta dalla profonda convinzione
nella responsabilità della parola e della poesia, cui è assegnato
il compito di scavare oltre la falsa chiarezza di ciò che
immediatamente appare, oltre l'inganno reiterato della comunicazione
alla portata di tutti, arma del potere.
Per questo i suoi testi sono slogati da
una doppia tensione. Infatti mentre essi assecondano il bisogno di
ancorarsi alla determinatezza ora con indicazioni circostanziali,
appelli e sollecitazioni al lettore convocato nella scena, ora con
continui ricorsi al dato cronachistico tramite inserti di voci in
presa diretta e lacerti di dialogo, nel contempo tali agganci alla
ruvidezza del principio di realtà sono violentemente virati in una
dimensione altra, che dà al materiale denotativo forma spaesante,
irriconoscibile. Il modus operandi principe è, insieme con
l'elisione operata da un secco procedimento sineddotico, il
montaggio. Per questo se la figura chiave è l'analogia, il ritmo è
vistosamente segnato da ciò che altra volta ho cercato di riassumere
con il termine sintattismo.
Uno dei primi elementi che colpiscono
il lettore, perché vi si trama l'intera raccolta, è il tema del
viaggio. Numerosi e disseminati sono i nomi di luogo: dall'amata
Vienna al Vermont, dalla Francia ai paesi africani, per tacere di
altri anonimi paesaggi e passaggi. Eppure a sondar oltre la
superficie, si scorge un immorare, un patire che diresti da
locus conclusus. Per meglio testare il senso di questa faglia,
è necessario però percorrere un'altra strada.
Dicevo del primato etico della parola,
della tensione a fare del tessuto poetico, per l'oltranza che gli è
propria, il luogo dove vive il senso della vita del poeta e
dell'ordine collettivo. Avverti in ogni mossa la nobiltà della
parola, sia quando prende movenze da divertissement infantile, sia
quando s'impenna nell'invettiva sarcastica. Da questa tensione
nascono l'intermittente ricorso alle clausole gnomiche, la
predilezione per le giunture analogiche rare, in lessico alto fino
all'arcaismo o al neologismo.
È insomma convogliata tutta una
cerimonialità della parola che più si palesa laddove lo sforzo
ultraneo dell'espressionismo diviene più rarefatto, in contrappeso a
quell'avvicinamento alla materia storica che altra volta ho
intravisto nella recente ricerca luzziana. In quei punti estremi
avverti la tensione etica scoprire un uso difensivo della nobiltà
della parola. Ferita squadernata dalla sincerità intrepida del poeta
che percorre intera la strada scelta, giungendo a mettere a nudo la
sua impotenza e sperimentando sulla propria carne la precarietà
irrimediabile della propria scommessa:i viaggi forse sono irreali,
così come l'onore della lingua diventa forse un gesto
autoconsolatorio. Dico «propria», ma naturalmente è di un'intera
cultura che si parla. È una certa figura novecentesca di poeta che
guarda smarrita il paesaggio sociale e umano, una cultura e una
lingua sfigurati eppure ineludibili: mentre gridano che l'intera fase
otto-novecentesca è finita, reclamano altre domande, altri gesti.
Ecco, solo da questo ultimo orizzonte diviene chiaro il titolo,
bellissimo, della raccolta: Troppo tardi per Santiago. Quasi fraterno
e oscuro rinvio a una poesia del viennese Karl Kraus, La domenica
dopo la guerra: «Che ora è del giorno?/ Troppo tardi».
Il manifesto, 22.07.2015
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