24.9.15

Il supplizio di Tommaso Campanella (Mario Ajello)

Punta Stilo - La statua in bronzo di Tommaso Campanella
Dopo dieci anni passati a Roma, Padova e Napoli, tra conversazioni dotte, letture sterminate e amicizie stimolanti come quella con il Galilei, nel 1598 il frate dominicano e filosofo Tommaso Campanella torna in Calabria. L’impatto con la sua terra d’origine è durissimo: Campanella mostra subito insofferenza per il clima di chiusura culturale e di dogmatismo religioso imposto dalla Controriforma, e per il malgoverno spagnolo. Contro questo stato di cose, dopo neanche un anno organizza una congiura per liberare la sua regione dal viceré spagnoli e fondare una repubblica comunitaria e teocratica.
Aveva centinaia di aderenti e l’appoggio dei turchi quando il complotto fu scoperto. Ma viene arrestato e, accusato di eresia e ribellione, è rinchiuso per ventisette anni nelle carceri di Castel Nuovo a Napoli.
Il supplizio di Tommaso Campanella (a cura di Luigi Firpo, Salerno editrice) raccoglie i verbali delle torture a cui fu sottoposto il frate dominicano e i documenti sulla sua prigionia. Si tratta per lo più di testi già pubblicati da Luigi Amabile nel 1882 che Luigi Firpo ha annotato.
Il linguaggio piatto e burocratico dei verbali degli interrogatori e delle torture non ha ovviamente la forza delle poesie che sullo stesso tema Campanella scrisse dal carcere, ma ci dà la misura delle atroci sofferenze della detenzione e del vivere disumano «sotterra, con ferri sempre, senza veder mai luce né cielo, in luoco bagnato che stilla d’ogni muro acqua continuamente».
Dai dialoghi notturni tra il Campanella e il suo vicino di cella frate Pietro Ponzio, riportati da una spia al servizio degli spagnoli, emerge uno spaccato della vita dei detenuti. Tra tante sofferenze ed angosce, questo testo descrive anche momenti di solidarietà tra reclusi, di dolcezza e persino d’amore. Tommaso Campanella si rivolge al compagno: «O fra Pietro, perché non opri qualche modo e dormimo insieme, e godemo». E Pietro Ponzio risponde: «Cor mio te vorria dare vinte basate per ora».
Seppure distrutto da quattro mesi di ininterrotte torture, Campanella riesce a non confessare e a difendersi in qualche modo. Nel primo interrogatorio nega tutto, sostiene di non aver mai saputo di un complotto in Calabria. Poi cambia linea: accusatemi — diceva in sostanza — di profetismo messianico, per aver interpretato alcune premonizioni naturali e divine come il segno di un cambiamento universale, ma non per una sterile rivolta anti-papale e anti-spagnola che non mi riguarda. L’unico modo per aver salva la vita fu infine fingersi pazzo per un anno intero.
Il supplizio ai Tommaso Campanella è il segno della solitudine di un uomo in preda a un’oscura tirannide, del contrasto tra il legalismo gelido dei giudici e la forte resistenza morale del sacerdote calabrese. È l’affermazione di un irrinunciabile bisogno di libertà: «Libertà, mio Dio, bramo e tu non mi ascolti ma volgi gli occhi altrove».

"il manifesto", ritaglio senza data, ma 1985

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