Umberto Coldagelli
conclude con uno spunto di riflessione teorico politica la sua
Introduzione al Viaggio in America, 1831-1832, di Tocqueville
(Feltrinelli, 1990). Conviene partire di qui per riproporre e
giudicare il tema «Tocqueville oggi».
Periodici revivals
tocquevilliani punteggiano la storia intellettuale degli ultimi
decenni. Come ricorda R. Nisbet, alla fine degli anni Trenta, il
pensatore parigino fu posto accanto a Nietzsche, Burckhardt, Taine,
Weber, Ortega y Gasset, come profeta del totalitarismo moderno e
della sua particolare natura di massa, così come negli anni
Cinquanta fu messo sulla scia del giovane Marx come anticipatore
dell'affluent society e delle sue varie forme di alienazione.
Come sostiene G. Lipovetzsky, il cosiddetto nuovo individualismo lo
ha ripresentato come l’espressione postmoderna di un esito estremo
delle società democratiche attuali.
Come racconta
Baudrillard, oggi più che centocinquanta anni fa ritorna il
paradosso di Tocqueville di un universo americano, che tende
contemporaneamente all’assoluta mediocrità e all’originalità
assoluta: «un universo geniale grazie allo sviluppo irrefrenabile
dell’uguaglianza, della banalità e dell’indifferenza». Osserva
e, appunto, conclude Coldagelli: «Non è detto che il vezzo di
piegare "l’immaginazione sociologica" di Tocqueville al
succedersi delle mode ideologiche non riservi ancora qualche
sorpresa. Già si sente evocare il suo nome da parte di coloro che,
in questi tempi di trionfalistica e definitiva identificazione tra
capitalismo e democrazia, tentano di far riemergere il pigro e
ricorrente sogno di un’ennesima "fine della storia"».
Tocqueville, il classico,
continua ad abitare tra noi come un contemporaneo. E per sfuggire
alla tentazione di attualizzare il discorso, o peggio il messaggio,
della sua opera, non basta mettere a nudo le «rughe» del
personaggio, come bene ha fatto Losurdo sull’Unità del 22 dicembre
scorso, e cioè aristocraticismo, sciovinismo, colonialismo, ecc. E’
bene prenderla, quell’opera, nei suoi punti critici, nelle domande
«inattuali», che Cafagna, partendo da Raymond Aron, riformula così:
come è divenuta possibile la democrazia? come è divenuta
impossibile l’aristocrazia? E dunque, come si è data «America» e
come si è data «Rivoluzione»? Due luoghi, questi, dello spirito
del tempo: uno fisico, quasi natura, un territorio, un modo di
vivere, cioè uomini, un popolo, con uno stile di vita, appunto
l’America di Tocqueville; l’altro, storico, un passaggio, che ha
cause, sviluppi e conseguenze, adattamento «dello stato politico
allo stato sociale, dei fatti alle idee, delle leggi ai costumi»,
appunto la rivoluzione in Francia.
In mezzo, luogo naturale
e storico insieme, sta la democrazia, come la vede e come la prevede
lo storico delle libertà. Rivoluzione americana è termine
improprio, per gli stessi motivi per cui Hannah Arendt la considera
l’unica trasformazione politica eticamente apprezzabile.
Rivoluzione è in Francia. Democrazia in America. Ecco una guida per
seguire i «viaggi» di Tocqueville e forse una via per arrivare a un
«per la critica», in senso marxiano, della democrazia politica.
Tirannia di uno,
tirannia dei più
Fine gennaio 1835,
lettera a Louis de Kergorlay, citatissima ed essenziale: non c’è
via di mezzo tra un governo democratico e il governo di uno solo. Col
tempo si arriverà o all’uno o all’altro. Questo secondo polo
dell’alternativa non si fa desiderare, perché non ci sarebbero più
limiti alla tirannia. Il primo non si fa amare, ma tra i due mali è
il minore. In fondo si tratta di scegliere - come dirà meglio nella
seconda Democrazia in America - tra la tirannia di uno e la
tirannia dei più. La società è «nella situazione di un uomo che
ha una ferita al braccio: la cancrena è là e avanza. È
indubbiamente molto doloroso farsi tagliare il braccio. L’operazione
può essere mortale. Ma non è meglio vivere monchi che morire con
tutte e due le proprie braccia?».
Lettera a Eugène
Stoffels, 21 febbraio 1835: ho voluto mostrare che cos’è ai nostri
giorni un popolo democratico. «A coloro che si sono fatti una
democrazia ideale, come sogno brillante che credono di poter
facilmente realizzare, ho inteso mostrare che avevano rivestito il
quadro di falsi colori... Agli uomini, per i quali la democrazia è
sinonimo di sconvolgimento, di anarchia, di spoliazione e di omicidi,
ho cercato di mostrare che la democrazia poteva arrivare a governare
rispettando i patrimoni, riconoscendone i diritti, risparmiandone la
libertà e onorandone le credenze». A tutti ho preteso dimostrare
che, qualsiasi fosse l’opinione di ciascuno, non era più tempo di
deliberare, che la società camminava e trascinava tutti alla scelta
tra mali ormai inevitabili. Forse la volontà di Dio non era quella
di riunire una grande quota di felicità su alcuni e di avvicinare
alla perfezione un piccolo numero di uomini. «Dopo tutto, la volontà
di Dio era quella di diffondere una felicità mediocre sulla totalità
degli uomini».
Io credo che
sull’edificio della democrazia, visto che ormai di un monumento si
tratta, c’è da fare prima di tutto un’opera di restauro della
facciata. Il tempo vi ha accumulato sopra fumo e detriti. Utile
questo racconto dal vivo dei cahiers tocquevilliani, perché
ci ridà l’originale. La democrazia come nasce in America è la
democrazia moderna. Scarnificare ciò che appare per risalire a ciò
che è, impone infatti un lavoro provvisorio di pulizia mentale.
Nella politica quotidiana c’è questa impressionante indipendenza
delle parole dai concetti, del discorso dal pensiero. Solo il dire
nulla fa eco, mentre pensare qualcosa fa intorno il silenzio. E’
più facile dire: sta bene così, che proporsi di cambiare le cose.
Pessimismo e
democrazia
Prendiamo un problema. Il
governo democratico è sempre stato collocato nell’ambito
dell’ottimismo progressista. Il governo di uno solo nell’ambito
del realismo conservatore. Che cosa succederebbe se cominciassimo a
coniugare pessimismo e democrazia? La scelta appunto oggi non è tra
bene e male, ma tra un male minore e un male maggiore. Fer questa via
si otterrebbe di veder uscire dall’orizzonte la democrazia come
valore e magari tornerebbe praticamente utilizzabile la democrazia
come metodo, tecnica procedurale che non ha nulla a che vedere con le
leve del cambiamento. Uno stare di mélancolie démocratique,
come direbbe Pascal Bruckner, che così lo esprime. Poiché tutti i
tentativi di stabilire il paradiso sulla terra si sono chiusi con
l’avvento reale dell’inferno, ci siamo rassegati al purgatorio».
Nulla di più lontano
dall’individuo Tocqueville dell’«uomo democratico», nulla di
più estraneo al suo pensiero dell’«état social démocratique».
Eppure erano queste le realtà che vedeva venire avanti, come una
forza della natura, dall'interno della storia. «La democrazia -
scriverà ancora a Kergorlay dall’America - mi pare ormai un fatto
che un governo può avere la pretesa di regolare, ma non di fermare».
Questa frase che fa la gioia del neostoricismo progressista e
ottimista va letta insieme all’altra, che sta nella Démocratie
del ’40 e che riassume il senso degli influssi della democrazia
«sui costumi»: «la democrazia allenta i vincoli sociali, ma
rinforza i vincoli naturali; avvicina i membri di una famiglia e
divide i cittadini». In termini marxiani, unifica il bourgeois
al bourgeois, separa il citoyen dal citoyen,
integra la parte privata dell’homme en general, aliena la
parte pubblica.
Coldagelli accosta quelle
due frasi tocquevilliane per impostare un discorso essenziale. Tra le
due Démocratie c’è una frequentazione intellettuale di
Tocqueville con Pascal, Montesquieu, Rousseau. L’esperienza del
viaggio americano si fa qui pensiero storico sulla democrazia
politica. L’idea di rivoluzione democratica si fa «ineluttabile e
inquietante destino del mondo cristiano», che dal fondo dei secoli
emerge alla superficie del moderno. La spinta egualitaria si rivela
una forza che tende a soppiantare vincoli sociali storici per
impiantare vincoli sociali naturali. Esattamente il contrario di
quanto comunemente si pensa circa il rapporto tra democrazia moderna
e premoderna. Come al solito, il critico conosce meglio il suo
oggetto che l’apologeta. Anche perché qui la contraddizione
dell’aristocratico Tocqueville è la contraddizione stessa
dell’uomo democratico.
Scrive Coldagelli: «Al
crollo degli antichi vincoli aristocratici non segue di necessità
una sociabilità naturalmente superiore, subentra anzi il rischio di
una separatezza individualistica … E’ la contraddizione per la
quale la società aristocratica, che gerarchizza e particolarizza gli
uomini, tuttavia li fa vivere organicamente insieme ed esalta gli
spiriti superiori, mentre la società democratica, che pur si fonda
su un'idea universale dell'uomo, separa i cittadini, predisponendoli
a una mediocre acculturazione tanto diffusa quanto utilitarista.»
Alienazione della
politica
E se rileggessimo
Tocqueville come critico della democrazia liberale? Forse scopriremmo
la sua vera attualità. Perché questo è il punto vero di esercizio
della critica. Il pericolo infatti non è la democrazia totalitaria
della società di massa, ma la «democrazia della vita quotidiana»
dell’individuo naturale asociale, e dunque non certo nel senso in
cui ne parlava il vecchio Lukàcs. In realtà, la democrazia moderna
non tende a instaurare la tirannia della maggioranza, funziona per
restaurare sempre di nuovo la libertà dell’homo oeconomicus,
contro ogni istanza di libertà veramente politica, libertà cioè di
persone politiche, non eguali o diseguali, ma differenti. Il
paradosso della democrazia moderna è che l’uomo democratico è
l’individuo non politico. Democratizzazione è spoliticizzazione.
L’état social démocratique compare a questo punto come lo
stadio estremo di alienazione della politica dal cittadino, lo Stato
sociale di diritto degli interessi organizzati.
Non
basta allora occuparsi del restauro della facciata.
Bisogna occuparsi degli interni. Una volta riportato ciò che appare
a ciò che è, come passare a risistemare il complesso dell’edificio?
Con quale progetto teorico? E radicalizziamo ancora la domanda.
Questa democrazia reale, questa che è ancora lecito e opportuno
chiamare «democrazia in America», lascia ancora spazi al pensiero
di un’utopia democratica? In che modo si può continuare a pensare,
in forma praticamente credibile, un’altra idea di democrazia?
Domande a cui si deve cercare una risposta, senza che questa risposta
sia definitiva.
Anche Tocqueville si
poneva le sue domande nell’Introduzione alla Démocratie del
’35. Ad alcune possiamo rispondere noi per lui. Si chiedeva: «C’è
forse qualcuno che può pensare che la democrazia, dopo aver
distrutto il feudalismo e aver vinto i re, indietreggerà poi davanti
ai borghesi e ai ricchi?». Sì, qualcuno a questo punto lo può
pensare. «E’ possibile che si arresti proprio ora che è divenuta
tanto forte e i suoi avversari tanto deboli?». Sì, è possibile.
La rivoluzione
democratica non ha più nulla di «irresistibile», al pari di tutte
le altre rivoluzioni. E’ proprio il nesso di rivoluzione e
democrazia che si è spezzato, violentemente e forse senza rimedio. E
non solo, come si crede, sul corpo di un esperimento di
trasformazione della società, ma qui da noi, nel progetto di un
governo alternativo di questa società. Meglio saperlo, prima di
mettersi a coltivare, in questo freddo della storia, nuove illusioni
democratiche. 25 ottobre 1831, tra Filadelfia e Baltimora,
Tocqueville annota nei suoi cahiers per il disincanto di noi
posteri: «Il popolo ha sempre ragione, questo è il dogma della
Repubblica, come: il re non sbaglia mai, è la religione degli stati
monarchici. È un grosso problema quello di sapere se uno è più
falso dell’altro; ma ciò che è ben sicuro è che né l’uno né
l’altro sono veri».
“il manifesto”, 8
gennaio 1991
Nessun commento:
Posta un commento