«Velinaro». Ci si
rivolga con tale espressione a un giornalista: il minimo che può
capitare è un cazzotto in faccia. Dalla corporazione è infatti
ritenuta l’offesa massima, per sanare la quale non c’è
riparazione possibile.
Ogni categoria ha i suoi
termini spregiativi. L’arbitro è «venduto», il calciatore
«brocco», l’attore «sfinge», il professore «analfabeta», il
padre «sorpassato». Il giornalista è, per l’appunto, velinaro.
La parola deriva da velina, che è innanzitutto un tipo di carta,
quella usata in dattilografia, prima dell’avvento del ciclostile e
della foto-copiatrice, per sfornare un numero sufficiente di copie.
La «velina» diventò,
durante il fascismo, il foglio sul quale il regime, su indicazione
quasi sempre personale del giornalista Benito Mussolini, dava
consigli direttive e poi ordini ai giornali, all’agenzia e alla
radio dell’epoca, affinché potessero «servire la causa».
All’inizio gli ordini venivano dati a voce o per telefono. Poi i
giornalisti si stufarono di trascriverli a mano e chiesero venissero
impartiti per iscritto. E così vennero battute su carta velina dal
Ministero per la cultura popolare, il Minculcop.
Su questo aspetto assai
poco conosciuto del ventennio, Paolo Murialdi ha curato una
trasmissione televisiva dal titolo Le veline del ventennio. La
trasmissione (regia di Vittorio Salerno) oltre che interessante è
ben costruita, tutt’altro che noiosa.
Redattore capo del
Giorno, poi presidente della Federazione nazionale della stampa,
Murialdi è storico del giornalismo: insegna all’ Università di
Torino e dirige la rivista «Problemi dell’informazione». Sulla
stampa fascista pubblicò nell’80 un saggio nella storia del
giornalismo edita da Laterza.
Mussolini, in pratica, fu
il direttore di tutti i giornali italiani. Al mattino si leggeva
tutte le testate, le annotava con segni blu e rossi, poi chiamava il
ministro competente e dettava i suoi ordini: dare rilievo a questo
fatto, cancellare quest’altro, evitare quest’argomento, esaltare
quest’altro, mettere tre foto, non parlare dell’età del duce,
dare a una sola colonna le notizie di cronaca nera, e così via. E i
giornali eseguivano, pena il sequestro.
Nei primi anni del
regime, dopo la fine della libertà di stampa (1926), il controllo
sugli organi di informazione veniva svolto dall’ufficio stampa del
capo del governo. In seguito, Galeazzo Ciano lo elevò a
sottosegretariato e infine a ministero, il Minculpop, che arrivò ad
arruolare fino a ottocento addetti.
Le veline intervenivano
su ogni argomento: politica interna, politica estera, sport, cronaca,
moda, cinema umorismo, cultura. Su ogni aspetto, una direttiva
precisa.
Murialdi è andato a
rovistare nell’archivio in cui sono conservate, grazie al fanatismo
dell’allora direttore dell’agenzia Stefani (l’attuale Ansa),
buona parte di questo materiale. Durante la trasmissione ne percorre
l’itinerario, dall’ufficio del capo del governo fino alla pagina
stampata. Nella prima puntata vengono affrontati i temi della
costruzione del culto del duce, dello sport, della cultura, della
cronaca nera.
«Non si dica che la
disgrazia al figlio di Agnelli è avvenuta allo Scalo Mussolini, ma
si dica che è avvenuta nel mare di Genova». Il duce non poteva
portare jella. «Dire che il Duce è stato chiamato dieci volte al
balcone».
Gianni Brera racconta in
modo assai gustoso la vicenda di Primo Camera, il pugile
fascistissimo dipinto come un eccezionale campione e in realtà «un
Everest di polenta». Tullio De Mauro commenta la follia
dell’eliminazione del «lei» (giudicato troppo femmineo) per
sostituirvi il più virile «voi». Il settimanale femminile Lei
dovette di conseguenza trasformarsi in Annabella. E infine
l’orrore per la cronaca nera, che avrebbe rivelato come anche la
società fascista fosse formata da uomini. Le notizie relative ai
suicidi sono abolite e non debbono riaffiorare neppure in forma
velata».
L’intento di Paolo
Murialdi è quello di far capire come erano i giornali e la radio
dell’epoca, ma anche quello di ricordare che di veline ne circolano
parecchie anche ora. Non più sotto forma di ordini, ma di consigli
interessati. Vengono redatte e fatte circolare da giornalisti legati
a partiti, correnti di partito, potenti, gruppi economici,
organizzazioni più o meno occulte, aziende. «Velinari» sono i loro
autori, ma soprattutto i giornalisti che le usano per propinare i
loro messaggi ai lettori (o ai radio e tele-spettatori). Allora i
giornali non potevano fare a meno di eseguire gli ordini, mentre oggi
l’accondiscendenza è puro servilismo.
“il manifesto”, 19
luglio 1984
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