Attilio Bertolucci e Giorgio Caproni |
Si scherzava sul fatto
che io abitavo in una casa più bella della sua, allora sita nella
bassura di via dei Quattro Venti, la mia alta su via Carini, con
vista su villa Sciarra e gli ontani di Roma. Ma ormai da qualche anno
in pensione si era trasferito in un appartamento più elegante
(l'aggettivo era mio e se protestava al mio allegramente
comunicarglielo, gli ricordavo che non facevo altro che ripagarlo di
sue affermazioni anche pubbliche sulle nostre disuguaglianze) e con
vista meravigliosa su un mare di verde come si dice. Ma lui non
ammetteva di mari che quello di Genova, dirò dunque con vista
meravigliosa su villa Pamphili.
Ci eravamo letti già nei
piccoli giovanilissimi libri e ci eravamo sentiti sì, diversi, come
era giusto, ma uniti nel rifiuto del ricattatorio susseguirsi di mode
letterarie che avrebbero voluto coinvolgerci. Non sta a me, in
quest'ora tristissima tanto più tale mentre il sole di questo
inverno maledettamente sereno (parlo da figlio di agrari, atterrito
dalla siccità) inonda la parte di Roma, città del nostro volontario
esilio, dove ci sono le nostre due case, non sta a me stendere
bilanci sulla sua opera di poeta. È ormai chiaro, mentre già in se
stesso ormai l'eternità lo muta, che i suoi versi rimarranno - dai
primi, di un'allegria di ritmi e colori inebriante, agli ultimi e
ultimissimi, come naturale di pochi argentini tocchi - messaggi di
un'incessante e pure limpida meditatio mortis.
Scrivevo su uno dei suoi
ultimi libri, Il franco cacciatore e oggi non saprei cosa
aggiungere: “L'argomento è la morte; ma Caproni sa, e già lo
aveva insegnato La Rochefoucauld, che non è possibile contemplare la
morte, né il sole, a lungo: così egli non contempla, prende la mira
e spara, poi scompare per riapparire un valloncello più in là, a
ricominciare di scatto. Noi seguiamo questo franco, un po' diabolico
cacciatore nella sua battuta terribilmente e allegramente stoica,
puntante sempre senza incertezze al bersaglio, sia pure con la
consapevolezza intrepida del non evitabile scacco finale. Una
metafora segue l'altra, un crepitio l' altro, con risonanze a non
finire nel nostro orecchio e nella nostra anima. Non manca qua e là
un riposo, una sosta che permettono di posare l' occhio sul paesaggio
(Un albero/ com'è leggero / Com'è leggero / un albero tutto ali, /
di foglie, Viene l'autunno, e come / la Fenice / s' accende nel suo
rogo); ma ecco il lucido, spietato risvolto (Ma noi, noi al paragone,
/ che cosa e chi siamo noi, / senza radici e senza / speranza?). E'
un esercizio, seguire il poeta, che mette a dura prova; ma ne vale la
pena perché finisce per fortificare. Di questo lo ringraziamo”.
“la Repubblica”, 23
gennaio 1990
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