Nel 1976, a quindici anni
dall’assassinio del leader africano Patrice Lumumba, ad opera degli
agenti del neocolonialismo, il “Calendario del popolo”, pubblicò
l'articolo che segue, con l'intento di eliminare quanto di
leggendario c'era nella “vulgata” sul leader congolese, in
qualche modo alimentata dalla sinistra internazionale. Tra le “icone”
del Terzomondismo cubano, infatti, Lumumba aveva un posto di
riguardo.
Lo ripropongo, benché sia passati alcuni decenni, non ci sia più l'URSS e taluni riferimenti siano datati, sperando di sollecitare qualche attenzione intorno a una figura importante della storia del Novecento. (S.L.L.)
Lo ripropongo, benché sia passati alcuni decenni, non ci sia più l'URSS e taluni riferimenti siano datati, sperando di sollecitare qualche attenzione intorno a una figura importante della storia del Novecento. (S.L.L.)
Sono passati quindici anni dalla morte di Patrice Lumumba. In quei giorni di crudeltà e di «nuova barbarie», in cui il mondo esterrefatto e impotente assisteva all’agonia di un eroe, chi scrive queste righe si trovava all’Avana. In un bar frequentato quasi soltanto da afro-cubani ascoltò conversazioni, registrò commenti, lacrime e gesti di collera. Lo stesso avveniva in molte altre città del mondo. Morente, Lumumba entrava già nel mito.
Non fu un ribelle
romantico
Forse è ancora troppo
presto perché la sua dolente figura ne esca, per entrare nella
storia, più prosaica, ma più corretta narratrice di fatti, e più
efficace maestra di vita. Si può tuttavia tentare un diverso
«approccio» con l’uomo che passò come una troppo rapida cometa
nel cielo africano: un «approccio» che, restituendogli ciò che la
leggenda gli ha tolto, gli renda quella giustizia che gli hanno
finora negato non solo i suoi nemici, ma anche i suoi troppo ingenui
e sbrigativi ammiratori.
Lumumba non era (nulla,
infatti, lo prova) quel ribelle romantico che alcuni ci hanno voluto
far credere (basti pensare a certe frasi del suo amico belga Jean Van
Lierde). Perfino sulle sue «umili» origini ci sarebbe da discutere.
Figlio di un contadino, era però un évolué, cioè uno di
quegli africani a cui la «paternalistica» amministrazione belga,
nel tramonto degli imperi, aveva concesso una sorta di cittadinanza
di seconda classe.
Nato a Onalua (distretto
di Sankuru-Kasai) il 2 luglio 1925, apparteneva a una tribù dal
passato glorioso: quella dei batetela, protagonisti di due
epiche rivolte (nel 1895 e nel 1897) contro i mercenari di re
Leopoldo. Fece le elementari con i missionari cattolici, le medie con
i protestanti. Inurbatosi a Stanleyville, riusci a conquistarsi un
lavoro fisso, modesto, ma rispettato: impiegato delle poste. In mezzo
a una marea di milioni di contadini analfabeti, e di sottoproletari
turbolenti e disperati, Lumumba apparteneva dunque a una «felice»
élite di non più di centomila persone. Come membro del circolo
liberale di Stanleyville, a trent’anni, s’incontrò con re
Baldovino.
Cantò il «fratello
negro
che non ha mai
innalzato piramidi»
Non possedeva, certo, la
cultura di un Senghor o di un N’Kruma. Ma la sua poesia L’Africa
sarà libera («Piangi, amato mio fratello negro... Tu, che non hai
mai innalzato piramidi...») è singolarmente bella e colta, e i suoi
discorsi sono eloquenti. Ben lontano dalla cultura ancestrale
africana, cristiano, non credeva più nel potere magico degli
stregoni. Sensibile al fascino della civiltà europea, non cercava
una ragione d’essere nella «negritudine» e neanche
nell’«autenticità africana», tanto cara a mistificatori e a
fantocci dell'imperialismo. Non risulta affatto che avesse simpatie
per il marxismo, per il comunismo; né che già mirasse ad
affrontare, una volta conquistata l’indipendenza, i problemi
sociali congolesi, del resto ancora embrionali in un paese dove il
colonialismo non aveva permesso, o aveva ritardato e deformato, la
nascita di vere classi nel senso moderno della parola. Ammiratore dei
valori ricevuti dall’Europa attraverso l’educazione missionaria,
le avide letture e le accese conversazioni (anche con amici
«bianchi»), non sembrava neanche consapevole del fatto che il
colonialismo burocratico e militare, il vecchio colonialismo senza
maschera, ormai morente, avesse come solida retrovia un colonialismo
economico destinato a sopravvivergli, sotto forma di neocolonialismo.
Credeva nella «meritocrazia», che il colonialismo grossolano,
«prima maniera», negava stolidamente, promuovendo «bianchi»
mediocri e incapaci a svantaggio di «nativi» intelligenti, colti ed
energici.
Lumumba rivendicava
semplicemente per sé e per tutti gli altri africani «evoluti» il
diritto di disporre liberamente del proprio destino, e di dirigere le
masse arretrate sulla via dell’emancipazione, cioè
dell’acquisizione di quegli stessi valori e «beni» materiali e
spirituali che l’Europa aveva creato con tanta abbondanza e
sviluppato con tanta sagacia, anche attraverso lo sfruttamento delle
colonie e la tratta degli schiavi, per poi negarli egoisticamente ai
popoli da essa assoggettati.
Era anche lui un
«negro bianco»
Era, insomma, anche lui,
come tanti altri protagonisti della decolonizzazione in Africa, un
«negro bianco»; era il prodotto doloroso di un’acculturazione che
ha sconvolto e annientato senza pietà le vecchie strutture e
sovrastrutture tribali, senza ancora produrre altro che vuoti
spaventosi, o, nella migliore delle ipotesi, sommarie impalcature,
esili premesse, ruvide trame di un nuovo che stenta a sorgere. Anche
Lumumba era, culturalmente, un «mostro», che il creatore europeo
(nuovo dottor Frankenstein) ha aborrito e rinnegato nel momento
stesso in cui gli ha dato la vita. Perché?
Nella risposta c’è la
chiave di tutta la vicenda. Perché il «mostro» voleva vivere di
vita propria. Perché si rifiutava di essere un automa. Perché, in
nome dei sacri principii europei, chiedeva la libertà, per gli
africani. E non una libertà, un’indipendenza fittizie, formali,
bensì vere, concrete e complete.
Tanto moderato
negli obiettivi quanto rigoroso nel perseguirli
Questo nazionalista
«puro», questo patriota non dissimile dai suoi predecessori europei
di un secolo prima, che aveva imparato ad ammirare sui banchi di
scuola, e poi deciso di emulare da adulto, era tanto moderato negli
obiettivi (non è del tutto «normale» un ruolo di decolonizzatore
nell’epoca della decolonizzazione?) quanto rigoroso, tenace e
inflessibile nel perseguirli. Questo «dettaglio», questa
«sfumatura» fa la differenza fra Lumumba e tanti falsi profeti.
Mentre il tribalismo, il regionalismo, il federalismo di uomini come
Kasavubu. Kalonji e Ciombè (tanto più «africani» nei loro legami
clientelari con le masse arretrate, nella loro demagogia populista,
nel loro estremismo parolaio) non facevano paura alle centrali
imperialistiche, che anzi già pensavano al modo migliore di
servirsene, la prospettiva unitaria di Lumumba, moderna, illuminata,
«europea», anche se non socialista, anche se liberal-democratica
nell’ispirazione, irritava e spaventava, perché conteneva in sé
il germe di un Congo forte, evoluto e padrone delle sue ricchezze,
capace di trattare da pari a pari con il mondo intero. Il paradosso è
insomma, a nostro avviso, questo: che Lumumba si rivelò un pericolo
mortale per Bruxelles, Londra, Parigi e Washington, non perché fosse
«più negro» degli altri esponenti politici congolesi, ma perché
era «più bianco», «più europeo». Proprio perché aveva saputo
più e meglio degli altri impadronirsi degli strumenti (non di tutti,
di alcuni) della cultura europea, «rubandoli» ai «maestri»,
violando i limiti fissati all’«apprendista», era diventato un
nemico con il quale non si poteva arrivare al compromesso, che
bisognava annientare al più presto.
Perché fu
sconfitto
Perché fu sconfitto? Il
dramma di Lumumba fu quello di altri eroi che non hanno saputo dare
ali robuste agli alti ideali che perseguivano. Tutto preso (fino alla
separazione dalla famiglia, alla nevrastenia, all’insonnia, agli
eccessi nel fumo, all’abuso di psicofarmaci) dalla ricerca del
fine, dimenticò l’importanza dei mezzi. Si distaccò dalle masse,
troppo semplici per capire un discorso tutto sommato ancora astratto,
non nutrito di contenuti tangibili, prosaici, a portata di mano. E si
alienò gli altri évolués, meschini e miopi, volgari nelle
aspirazioni, smaniosi soltanto di rafforzare i propri privilegi senza
troppo affaticarsi, di avere gradi più alti, militari e civili, di
mettersi in tasca stipendi più cospicui, insomma di occupare «il
posto dei bianchi», e di vivere «come i bianchi» a spese degli
altri negri.
Sartre lo paragonò
a Robespierre
Nel confuso periodo in
cui fu primo ministro e ministro della difesa (luglio-agosto)
Lumumba, a detta dei testimoni, diede prova di grande energia, e
anche di duttilità. Al capitale privato straniero offrì
assicurazioni esplicite, garanzie sulla sicurezza degli investimenti
e sulla riesportazione dei profitti. Respinse le nazionalizzazioni
«come regola generale». Firmò anche un accordo con una società
americana. Si recò negli Stati Uniti, a chiedervi aiuti. Ma la sua
personale incorruttibilità (che indusse Sartre a paragonarlo a
Robespierre) contraddiceva e smentiva, se così si può dire, la sua
moderazione. Lumumba non era un estremista, non rifiutava il
compromesso. Ma erano i suoi interlocutori a rifiutarlo. Coloni,
generali e amministratori belgi, compagnie multinazionali, CIA.
servizi segreti di mezza Europa, non volevano trattare con un
«eguale», ma con dei servi. Perciò provocarono il famigerato
ammutinamento delle truppe africane, favorirono i movimenti
secessionisti, gli aizzarono contro gli altri aspiranti al potere.
Cosa resta
dell’eredità di Lumumba
A dargli la morte ci
pensarono questi stessi loschi personaggi. Destituito dal presidente
Kasavubu il 5 settembre, «protetto», cioè tenuto in ostaggio, da
un’ONU ancora docile alla volontà americana. avvolto in una fitta
rete di intrighi, arrestato il 2 dicembre durante un ultimo,
disperato tentativo di sollevare le popolazioni rurali del Kwilu,
Lumumba fu consegnato a Ciombè, affinché lo uccidesse. Durante il
trasporto in aereo, fu bastonato a sangue. Il boia fu Munongo, allora
ministro degli interni del secessionista Stato katanghese. 11 17
gennaio 1961 Munongo uccise Lumumba in circostanze che non furono mai
chiarite. Le versioni variano: strangolamento, pugnale, pistola. I
dettagli (veri, falsi?) sono orribili: testa tagliata e offerta a
Ciombè come trofeo, cuore e fegato mangiati...
L’ironia della storia
vuole che l’odierno presidente Mobutu, uno dei responsabili diretti
della morte di Lumumba, si vanti di esserne l’erede, gli intitoli
piazze, gli eriga monumenti. L’ipocrisia, come tutti sanno, è
l’omaggio che il vizio rende alla virtù.
Quanto è rimasto
dell’eredità di Lumumba? È difficile dirlo. Il neocolonialismo è
sempre molto forte in Africa. In certe zone si è consolidato. Alto è
il numero dei paesi i cui leaders sono creature di Washington, Londra
o Parigi. Complicato e contraddittorio è il processo di
emancipazione, ancora in corso. Pure, nuovi Stati hanno conquistato
un’indipendenza talvolta autentica, in qualche caso solo formale.
Altri sono entrati in un’area che può definirsi «progressista».
Non sempre i contorni sono netti. Anzi c’è molta nebbia a oscurare
la realtà. Dubbi e perplessità sono legittimi. Ma il modo come le
ex colonie portoghesi si sono liberate sembra dimostrare che qualcuno
ha fatto tesoro della terribile lezione rappresentata dal sacrificio
di Lumumba. Il fatto che 22 paesi africani (non tutti «di sinistra»)
si schierassero con il governo di Luanda nel dibattito sull’Angola,
dicendo «no» a Kissinger, indusse alla speranza. Contro Agostinho
Neto non è stato possibile ripetere il «golpe» che riuscì così
bene contro Lumumba. L’Angola è il nuovo banco di prova. Da qui
attendiamo con fiducia una risposta alla domanda se il sacrificio
dell’eroe congolese sia stato vano, o fecondo di risultati
positivi.
“Il calendario del
popolo”, marzo 1976
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