Il mio amico e compagno
Eros Barone, ha scritto questo intenso ricordo del fratello Carmelo,
recentemente scomparso. E' una bella storia italiana che volentieri
offro alla lettura di chi vorrà profittarne. (S.L.L.)
Tenerife |
Lontane migliaia di
chilometri dal Vecchio Continente, vicine all’Africa, le Canarie
sono state raggiunte, nei secoli, dai popoli più diversi, che vi
hanno lasciato molteplici tracce: gli aborigeni – i ‘Guanches’
dall’alta statura, dalla carnagione chiara e dai capelli rossi ,
i fenici, i greci, i cartaginesi, i romani, gli arabi, i genovesi, i
castigliani, i portoghesi, gli inglesi, gli irlandesi, i francesi, i
corsari barbareschi, gli olandesi, i tedeschi, gli indiani.
Tuttavia, gli abitanti
delle Canarie hanno, rispetto ad altre isole, un vantaggio che i
paesi latini dimostrano spesso di avere: una specie di signorilità
che non si lascia dominare dalla sindrome insulare. In queste isole
che, soprattutto al loro interno, offrono una bellezza intensa e
varia, ci si sente, nonostante il paesaggio inedito e sorprendente,
in Europa, e non si pensa che, a poca distanza, c’è l’Africa, il
deserto, un altro mondo. Le isole e le coste sono spesso meno
isolate, meno chiuse in se stesse, dei luoghi situati nel cuore della
terraferma. A guardare l’Oceano Atlantico dalle Canarie, se viene
infatti in mente, per un verso, quel “mare unico e immenso”, che
costituisce la terrificante ipotesi che il grande navigatore formula,
per poi scartarla, nel “Dialogo di Cristoforo Colombo e di
Gutierrez”, che fa parte delle «Operette Morali» di Giacomo
Leopardi, vien fatto anche di constatare, per un altro verso, che
proprio il mare, che non soltanto divide ma anche unisce, salva
spesso dalla soffocante chiusura.
Occorre poi aggiungere
che il mare, in spagnolo, è maschile, come in italiano, ma coloro
che hanno a che fare concretamente, fisicamente con lui (pescatori,
naviganti, appassionati di arti nautiche), lo chiamano “la mar”,
al femminile, forse per dare rilievo a quella misteriosa essenza
femminile, simbolo di armonia e di conflitto, di piacere e insieme di
sofferenza, che il mito greco attribuisce alla nascita di Venere
dalla spuma del mare. La storia delle Canarie, e la stessa
letteratura isolana, è tutta pervasa dal senso del mare: non solo la
memoria delle antiche imprese dei navigatori, da san Brandano con la
sua ottava isola introvabile a Cristoforo Colombo e alle battaglie
navali con Drake e Nelson, che vi lasciò il suo braccio, ma il mare
come idea e sentimento generale della vita, che trasforma e assimila
anche ciò che viene dalla terraferma.
Famose per le spiagge,
spesso rovinate da una speculazione edilizia senza freni, le Canarie
rivelano una grande bellezza soprattutto nel paesaggio vario come
quello di un continente, nei colori delle piante, specialmente
nell’azzurro della jacaranda e nel rosso del tulipero del Gabó o
nei grandiosi crateri vulcanici del Teide o ancora nei maestosi
faraglioni degli Acantilados de los Gigantes. Personalmente ricordo
che mi colpirono, nel sud di Tenerife, un impressionante
parallelepipedo roccioso, guardando il quale si pensa ad una sorta di
massiccia montagna metafisica, e il miracoloso drago di Icod, simbolo
delle Canarie, un albero pluricentenario che sembra riassumere in sé
un passato fatto dei millenni delle ere geologiche e un avvenire nel
quale il nostro ‘io’ è come un insetto imprigionato in un
fossile.
Ci sono luoghi che
affascinano perché sembrano radicalmente diversi e altri che
incantano perché, sin dalla prima volta, risultano familiari, quasi
un luogo natio. Conoscere è spesso, platonicamente, riconoscere. Per
vedere un luogo occorre rivederlo, e questa, ne sono certo, è stata
l’esperienza vissuta da mio fratello Carmelo, il quale ha
realizzato nel corso della sua vita un originale pendolarismo tra
l’Umbria, in cui era nato e in cui affondano le radici antiche e
recenti della nostra famiglia per via dei nonni materni e di sua
figlia Jaiza, e Santa Cruz de Tenerife, dove egli, conosciuta colei
che sarebbe diventata sua moglie e che gli avrebbe dato un figlio ed
una figlia, decise, quasi mezzo secolo fa, di porre fine alla sua
carriera di ufficiale della marina mercantile italiana e di fare
delle Canarie la sua seconda patria. Il cuore azzurro del mondo e il
cuore verde dell’Italia si collegarono pertanto l’uno all’altro
nella scelta audace ed anticipatrice che compì mio fratello Carmelo,
autentico figlio di una civiltà mista, marittima e rurale, insulare
e continentale, latina e atlantica.
Così, nel corso dei
decenni che seguirono a quella scelta, Carmelo non dimenticò mai
l’Italia e il patrimonio di affetti di cui essa era il simbolo, pur
vivendo e lavorando nelle Canarie, così come, pur denunciando gli
effetti rovinosi dell’aggressiva economia turistica che
caratterizza l’arcipelago, non mancò mai di battersi, usando con
efficacia l’arma del giornalismo, per salvaguardare l’integrità
e gli equilibri dei siti più caratteristici di un ecosistema
delicato, dando prova di una consapevolezza, di una tenacia e di una
preveggenza, che solo l’amore più profondo ed appassionato per
quel territorio e per quella popolazione poteva ispirare. E il
simbolo più pregnante di questa passione mai spenta, che ha
accompagnato mio fratello durante tutta la sua vita, è stato la
donna canaria, ad un tempo madre, sorella e moglie, da lui celebrata
nelle sue poesie unendo e intrecciando le connotazioni sacrali di
origine divina a significati sentimentali e morali di impronta
schiettamente umana.
Mio fratello Carmelo
amava ripetere, per fornire una definizione e fare un bilancio della
sua umana vicenda, il titolo di un libro di Pablo Neruda: «Confesso
che ho vissuto». Vorrei perciò ricordarlo richiamando questo titolo
così denso ed emblematico, possibilmente a ciglio asciutto, così
come si è serbato il suo sino alla fine, dopo un’epica lotta
contro un male che non dà scampo sostenuta in mezzo ad una sequela
di avversità che gli hanno sottratto gli affetti più preziosi. E
vorrei sottolineare non solo la nobiltà della sua figura, ma anche
il coraggio con cui ha affrontato quell’appuntamento che il destino
ci fissa senza che noi lo abbiamo mai chiesto. Egli ora riposa nella
pace di un cimitero campestre situato su una delle dolci e
malinconiche colline umbre, vicino ai nonni da lui tanto amati. Come
fratello vorrei soltanto soggiungere che ha lasciato a tutti coloro
che gli sono stati vicini sino alla fine, non meno che a coloro che
non hanno potuto esserci ma che lo hanno conosciuto, un insegnamento
importante: il segreto del morire è vivere negli altri.
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