L'immagine della basilissa Irene, unica imperatrice della storia bizantina nella Basilica di Santa Sofia a Istambul |
La storia, l'ha detto
anche Elsa Morante, è un tessuto di cupidigia, astuzia, ferocia;
capi di governo e popoli vogliono essere soggetti e non oggetti di
storia, intrecciano trame, inventano precedenti fatidici e augusti
destini per giustificare alleanze, tradimenti e guerre; dietro
espressioni usuali nei libri scolastici, come politica
espansionistica, vittoria schiacciante e gravi perdite si nascondono
milioni di rantoli, cancrene, orribili agonie. La sequela monotona di
orrori si scorge attenuata se si tratta d'un breve periodo; ma emerge
in tutta la sua crudezza se si affronta un millennio di eventi, come
avviene a chi legge il recente massiccio volume edito da Einaudi,
Bisanzio, di Alain Ducellier e altri (traduzione di Ernesto
Garino, pagg.430 più bibliografia e indici). È la storia della
città da quando cessò di chiamarsi Bisanzio e dell'impero di cui fu
capitale Costantinopoli, benché poi tutta la civiltà che ne deriva
continuò ad ispirarsi al nome primitivo. Nel 326, Costantino ne
tracciò il perimetro come guidato da una voce soprannaturale. Si
fermò solo dopo esser salito su sette colli e ne fu ridisceso; al
centro dell'ippodromo, arengo indispensabile, comunicante con il
palazzo imperiale, collocò la colonna serpentina presa a Delfi;
sotto di essa, dicono gli storici bizantini, sotterrò due cimeli di
diversa natura: il meteorite nero che rappresentava la Madre degli
Dei e aveva procurato ai Romani la vittoria di Zama e il paniere nel
quale Gesù aveva operato il miracolo della moltiplicazione dei
pesci: simboli delle sue due religioni, Roma e Cristo.
Con la costruzione della
nuova capitale si avverava l'evento previsto e paventato da secoli,
da quando si era sospettato Cesare e poi Antonio di voler trasferire
la capitale ad Alessandria, Tito a Gerusalemme. La città fu
inaugurata nel 330; ma già un secolo dopo Teodosio II dovette
fortificarla; lo fece materialmente con le mura tuttora visibili e
moralmente con il Codice, che raccoglie le leggi dal 313 al 438.
Ancora un secolo e Giustiniano legherà il suo nome alla grandiosa
operazione di raccolta, selezione e revisione di tutta la
legislazione precedente e della giurisprudenza relativa; con Sofia
sul Bosforo e S. Vitale a Ravenna l'architettura cristiana,
sovrapponendo una cupola alla pianta cruciforme, espresse lo slancio
mistico dei popoli più che non lo facesse la forma razionale della
basilica romana.
Tra la miriade di
avvenimenti politici, religiosi, economici e militari che si
verificarono in quel punto della terra, scelto per la sua posizione
strategica come scolta contro i barbari delle steppe, gli autori di
questo grosso volume hanno cercato di mettere in evidenza un filo
rosso coerente e cioè l'ideologia che ha sostenuto l' impero
d'oriente sin dagli inizi: dalla fondazione di Costantinopoli,
infatti, e ancor più dopo il sacco di Roma (410 d.C.) e dopo la
caduta dell'impero d'occidente (476 d.C.), il regno bizantino ha
visto se stesso ed ha voluto porsi non come successore di Roma ma
come suo continuatore, direi anzi come modello compiuto di essa.
La divinizzazione del
sovrano, reggitore supremo dell'universo, l'aveva già incoraggiata
Augusto, pur presentandosi come primo cittadino, legalmente investito
di cariche costituzionali; nel IV secolo era un fatto compiuto.
Finita ormai la legittimità politica del consenso popolare, non
restava che teorizzare quella soprannaturale.
Quel concetto coincideva
con la fede in un unico Dio, di cui l'imperatore appariva emanazione
terrena. Quell'ideologia smisurata faceva del sovrano l'alter ego
di Dio e di conseguenza il suo potere doveva essere unico,
indivisibile ed esteso al mondo intero. L'imperatore non era più,
come dichiarava ancora Galla Placidia nel V secolo, obbediente alle
leggi, egli era la legge.
Naturalmente, quel regno,
riflesso di quello celeste, era governato volta a volta da uomini
inetti, vili o feroci, funestato da terremoti, pestilenze, locuste,
brigantaggio, dilaniato da eresie e sopratutto dissanguato da guerre
incessanti; ma persisteva l'assioma dell'incomparabile perfezione e
inviolabilità di esso. Minacciato da ogni parte, l'impero bizantino
fu impegnato in una perenne guerra difensiva: lo squilibrio tra i
mezzi materiali di cui disponeva e l'idea di dominio universale che
lo informava era stridente, così come lo era l'asserita divinità
del sovrano e la pochezza della sua persona. Nonostante la tentata
riconquista da parte di Giustiniano che in un ventennio (535-555)
ridusse l'Italia un cumulo di macerie nel VI secolo l'occidente era
perduto: l'Italia devastata, l'Europa frantumata nei regni barbarici,
che l'imperatore si ostinava a considerare suoi umili delegati.
Successivamente Ostrogoti, Vandali, Unni, Longobardi, Slavi, Avari,
Persiani, Bulgari, Russi, Magiari, Normanni, Serbi e infine Turchi si
presentarono ai confini, si insinuarono all'interno, si impadronirono
via via delle isole e dei territori; nell'VIII secolo, gli animi
furono divisi dallo scisma degli iconoclasti: l'imperatrice Irene, la
sola donna che portò il titolo di imperatore di Roma, per reprimere
quella corrente non esitò a far accecare il proprio figlio, ma salvò
l'arte cristiana.
A ogni pagina affiorano
storie di massacri, episodi atroci: un capo bulgaro si serviva per
bere del cranio dell'imperatore Niceforo, ucciso in battaglia.
Vediamo via via gli imperatori d'oriente sottostare alla supremazia
della Chiesa, al dominio spirituale dei monaci, favorire o combattere
i Crociati, arbitrare i concilii, barcamenarsi tra Genova e Venezia,
Pisa e Amalfi, tra il re di Francia e il papato.
Dopo aver retto a tante
tempeste, anche l'albero maestoso trapiantato da Roma si schiantò
nel maggio del 1453. L'imperatore Costantino XII era morto
nell'estrema difesa della città assediata per terra e per mare; non
vide il saccheggio e il massacro. Maometto II il Conquistatore entrò
trionfante nella città. Alcuni anni fa è uscita nella collana della
Fondazione Lorenzo Valla (edizione Mondadori) una raccolta di
resoconti scritti da testimoni: sono agghiaccianti. Dalla sponda
opposta del Bosforo, dalle navi si udivano gli urli degli uomini
impalati lungo le rive; i soldati scatenati stupravano le donne, per
sfregio, sugli altari delle chiese; poi, l'intonaco coprì i mosaici
delle volte, la mezzaluna prese il posto dei crocifissi divelti. Su
tutta l'area occupata dai Turchi (che arrivarono al Mare Jonio nel
1460) i cristiani furono massacrati, i monumenti devastati o
distrutti: è la Storia.
“la Repubblica” 27
gennaio 1989
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