Le donne di Augusto di Marisa
Ranieri Panetta (Electa) narra con leggerezza le vite delle due donne
centrali nella biografia dell'inventore dell'Impero: Livia la pia e
Giulia l'adultera. Exempla opposti: il primo da glorificare,
il secondo da dannare.
La narrazione è accompagnata dalla
descrizione dei luoghi cari alle due, le cui migliori tracce possiamo
ammirare nel Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo: il giardino
affrescato proveniente dal triclinio seminterrato della Villa di
Livia a Prima Porta; i dipinti della Villa della Farnesina, dove
Giulia visse con Agrippa.
Poesie inedite di José Minervini
restituiscono al lettore scene di vita intima, calda, femminile.
Livia la salutista che con le erbe dell'orto prepara tisane e
medicamenti, ispirata dall'«esametro del prato» degli affreschi.
Giulia che cerca conforto nel «giardino fantastico» dipinto nella
dimora immersa nel verde e affacciata sulla riva del fiume, preludio
liquido alla «spiaggia di pietre e di conchiglie di Ventotene».
Luoghi ameni concepiti per
rappresentare la dedala terra, prima della perdita di quell'innocenza
cui perfino il papa ha accennato, senza approfondire, nell'enciclica
Laudato sì: «il pensiero ebraico-cristiano ha demitizzato la
natura». Giulia, amata dal popolo, ha vissuto momenti di gloria e
drammi lancinanti. L'immagine della coppia regale, nel vangelo
secondo Augusto, aveva il compito di diffondere l'ideale del
cittadino perfetto tra i sudditi. La figlia fu per lui un banco di
prova. La diede fanciulla in sposa al valoroso Marcello, destinato al
trono. La ragazza avrebbe potuto trovare un amore da favola, se solo
lui avesse rotto il fato crudele: si qua fata aspera rumpas.
L'imperatore scelse quindi Marco
Vipsanio Agrippa, costruttore del Pantheon e trionfatore di Azio.
In qualche modo l'ammiraglio, con il
doppio degli anni, Giulia dovette amarlo. Scomparso poi il secondo
genero, il princeps volle combinare alla principessa un
matrimonio con lo scontroso Tiberio. I due non si piacquero mai. Dopo
la morte dell'unico figlio, lui l'abbandonò e si ritirò a Rodi.
Allora, la vita di lei virò decisa dalla commedia alla tragedia.
Divenne intima di Iullo, il figlio di
Marco Antonio, riproponendo inconsciamente la coppia negativa per
eccellenza: quella costruita dal rivale di Ottaviano con Cleopatra.
Giulia forse voleva semplicemente divertirsi: godere di un lusso
orientale, dato che nelle sue mani la ricchezza abbondava. Non morire
dea in virtù di una buona condotta morale, ma divinamente vivere.
Lavorava sì la lana, come racconta
Macrobio, ma amava la letteratura: il superfluo. In politica, si
avvicinò alle istanze popolari, disposta com'era a elargizioni per
ingraziarsi la plebe, sognando un governo autocratico dal volto
ellenista contro l'irreggimentazione morale di chi voleva controllare
le masse fin dentro casa. Finì che, scoperta nel 2 a.C. una congiura
anti-imperiale, Augusto sentenziò che a organizzarla fossero stati
presunti amanti della figlia.
L'accusò seduta stante di adulterio e,
incurante delle proteste popolari, la mandò in esilio a Ventotene,
per un lustro. Si spense sedici anni dopo a Reggio Calabria, di
inedia. Il padre, prima di morire, nello stesso 14 d.C., aveva avuto
il tempo di decretare che le sue spoglie non fossero accolte nel
mausoleo di famiglia, inaugurato per ironia della sorte con la
sepoltura di Marcello.
Velleio Patercolo, Seneca, Plinio non
hanno nemmeno provato a mascherare la propria misoginia, riservata
soprattutto alla donna di potere sprovvista di pietas. Non è
un caso che Giulia venga attaccata proprio nella morale. Le uniche
donne che escono indenni dalle reprimenda maschili sono
paradossalmente quelle con atteggiamenti virili, come Clelia: la
vergine consegnata dai romani a Porsenna, capace di scappare
dall'accampamento etrusco attraversando il Tevere a nuoto.
Fa eccezione, tra le potenti, l'augusta
Livia. Machiavellica. Sopportò tanto per continuare a essere la
consorte di Augusto, ma tanto riuscì anche a imporgli.
Le storie di Giulia e Livia si
intrecciano già segnate. Livia Drusilla conobbe Ottaviano
diciottenne.
Lei aveva già avuto dal marito il
primo figlio, Tiberio, e era incinta di Druso. Lui, sposato in
seconde nozze con Scribonia, divorziò nello stesso giorno in cui la
moglie dava alla luce Giulia. Druso nacque il 14 gennaio del 38 a.C.;
Livia e Ottaviano contrassero matrimonio tre giorni dopo. Rimasero
uniti per 52 anni. La sfortuna della più giovane iniziò con il
successo della più anziana. Tiberio entrò nella famiglia imperiale
sposando Giulia, e divenne principe dopo la morte dei suoi figli Gaio
e Lucio.
Fu il trionfo di Livia, che vinse
definitivamente nel campo in cui la figliastra aveva fallito: la vita
privata. Tessitrice di maglie per il freddoloso marito e mamma
devota, nemmeno nelle statue appare abbellita da diademi, orecchini,
abiti preziosi. Perfino con gli schiavi era magnanima.
È lei il secondo terminale della coppia modello, secondo un processo che sembra anticipare il tremendo trittico dio-patria-famiglia di novecentesca memoria. Deve conformarsi alle volontà del marito e ingoiare i suoi tradimenti, eppure Livia è la prima donna romana assimilata agli dei in vita. Augusto pretendeva che partecipasse ai suoi trionfi, le donò il privilegio della sacrosanctitas, le dedicò una piazza sull'Esquilino. Un dettaglio vale per tutti: il primo marito di Livia si chiamava Tiberio Claudio Nerone. Sono questi i nomi degli imperatori che succederanno a Augusto, Caligola escluso. Non è poco, come dote.
È lei il secondo terminale della coppia modello, secondo un processo che sembra anticipare il tremendo trittico dio-patria-famiglia di novecentesca memoria. Deve conformarsi alle volontà del marito e ingoiare i suoi tradimenti, eppure Livia è la prima donna romana assimilata agli dei in vita. Augusto pretendeva che partecipasse ai suoi trionfi, le donò il privilegio della sacrosanctitas, le dedicò una piazza sull'Esquilino. Un dettaglio vale per tutti: il primo marito di Livia si chiamava Tiberio Claudio Nerone. Sono questi i nomi degli imperatori che succederanno a Augusto, Caligola escluso. Non è poco, come dote.
“il manifesto”, 25.06.2015
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