Philipp Frank fu lo
scienziato viennese che successe ad Einstein, da lui chiamato,
nell'insegnamento all'Università di Praga. Einstein rimase solo un
paio d'anni a Praga, dal 1911 al 1913, quando passò a dirigere
l'Istituto di Fisica di Berlino, fino al 1933, quando l'avvento al
potere di Hitler lo spinse a trasferirsi negli USA. Il brano che
segue è tratto da un suo opuscolo del 1948 (Einstein: his life
and times, Alfred Knopf Inc., New York). Io l'ho ripreso da “Eco
del mondo”, una rivista che imitava il “Readers Digest”
pubblicando estratti di libri, ma era di oientamento progressista.
(S.L.L.)
I risultati delle sue
ricerche pubblicati da Einstein a Berna nel 1905 erano talmente fuor
del comune che ai fisici delle Università svizzere parvero
incompatibili col lavoro assegnato a un piccolo impiegato
dell’ufficio brevetti. E ben presto si fece di tutto perché
Einstein insegnasse all’Università di Zurigo.
Cosi, nel 1909, sebbene
il professore più reputato disapprovasse il suo modo di far lezione,
Einstein fu nominato professore straordinario all’Università di
Zurigo. Ma il suo reddito non fu maggiore di quello che aveva
all’ufficio brevetti; e, per di più, egli non poteva, adesso,
condurre una vita poco costosa e divertente, una vita da bohémien.
Per migliorare la loro situazione finanziaria, sua moglie prese in
casa, a pensione, degli studenti. Una volta, scherzando, Einstein
disse : «Nella mia teoria della relatività, ho messo un orologio in
tutti i punti dello spazio; ma in realtà mi riesce difficile
provvedermi un solo orologio, per la mia stanza».
Un animo
spensierato
Einstein si comportava
allo stesso modo con tutti: con i maggiorenti dell’Università, col
suo droghiere o con la donna di fatica del suo laboratorio. Le
angustie che spesso avevano pesato sulla sua giovinezza erano
scomparse. Ora era occupato in un lavoro al quale avrebbe dedicato la
vita e si sentiva pari al suo compito. Di fronte a quest’opera, i
problemi della vita quotidiana non avevano grande importanza, non
andavano presi sul serio. E tale atteggiamento spensierato si
manifestava in tutte le parole di Einstein. Il riso che sgorgava dal
profondo del suo essere era una caratteristica che attirava
immediatamente l’attenzione. A quelli che lo circondavano il suo
riso era una fonte di gioia che accresceva la loro vitalità. E
tuttavia, a volte, si sentiva che in quel riso v’era un elemento
critico. Sicché l’impressione che Einstein faceva nel suo ambiente
oscillava tra i due poli dell’allegria puerile e del cinismo. Tra
questi due poli era l’impressione di una persona molto divertente e
vivace, la cui compagnia arricchiva d’esperienza chi lo
frequentava. Una seconda gamma d’impressioni variava da quella di
una persona pronta a simpatizzare profondamente e appassionatamente
con la sorte di qualsiasi estraneo, a quella di una persona che, a un
più intimo contatto, si ritirava immediatamente nel suo guscio.
“Tirar la
carretta da solo"
Per tutta la vita
Einstein, in un certo senso, è stato un uomo molto solo. Cercava
l’armonia dell’universo nella musica come nella fisica
matematica, e s’è impegnato nell’uno e nell’altro campo
durante l’intera vita. Cercava amici coi quali potesse far musica o
discutere le sue idee sull’universo; e tuttavia non gli piaceva che
l’intimità con gli amici diventasse tanto grande da far si ch’essi
potessero in un modo o nell’altro limitare la sua libertà. La sua
personalità attraente, franca e spiritosa gli rendeva facile il
procurarsi degli amici; ma la sua predilezione per l’isolamento e
il suo concentrarsi nella vita artistica e scientifica deluse molti,
e allontanò da lui alcuni che erano stati, o per lo meno avevano
creduto di essere, suoi amici.
Molti anni dopo, nel
1930, lo stesso Einstein descrisse questa sua caratteristica in modo
esatto e sorprendente: “Il mio interesse appassionato per la
giustizia sociale e la responsabilità sociale ha sempre stranamente
contrastato con la mancanza di desiderio di diretta associazione con
gli uomini e con le donne. Sono un cavallo fatto per tirare la
carretta da solo, e inadatto al lavoro in tandem o a gruppi. Non ho
mai appartenuto con tutto me stesso a nessun paese, a nessuno Stato, né alla cerchia dei miei amici, e neppure alla mia stessa famiglia.
Simili legami furono sempre accompagnati, per me, da un vago senso di
distanza, e il desiderio di ritirarmi in me stesso cresce in me con
gli anni. Tale isolamento è a volte pieno d’amarezza, ma non mi
dolgo di essere tagliato fuori dalla comprensione e dalla simpatia
degli altri uomini. Certo, ci perdo qualche cosa; ma in compenso sono
libero dalle abitudini, dalle opinioni e dai pregiudizi altrui; e non
provo la tentazione di basare la mia pace su fondamenta cosi
malsicure”.
Nei circoli
accademici
Poco dopo il suo arrivo a
Berlino, dove fu nominato professore nel 1913, Einstein si separò
dalla moglie, Mileva, con la quale su molte cose non andava più
d’accordo, c visse una vita da scapolo. Aveva trentaquattro anni,
un giovane tra uomini in gran parte più vecchi di lui, uomini con un
passato notevole e una grande autorità; e molti di essi avevano
anche fatto cose importanti. Ma la sensazione di essere un estraneo
derivava soltanto in piccolissima parte dalla differenza d’età. La
maggior parte di quegli uomini erano, per cosi dire, “veterani
della vita universitaria”. Tutto quanto accadeva nella loro cerchia
pareva ad essi straordinariamente importante, e l’elezione
all’Accademia sembrava essere il culmine delle loro aspirazioni.
Tutto ciò non poteva fare una grande impressione ad Einstein, il
quale stava facendosi una rinomanza mondiale prima di diventare un
grand’uomo nella ristretta cerchia accademica.
La mentalità
prussiana
Anche talune
caratteristiche dell’ambiente berlinese, che egli frequentò,
contribuivano a far si che Einstein si sentisse solo ed estraneo. Nel
secolo decimottavo, sotto Federico il Grande, francesi come il
Voltaire e il D’Alembert erano stati l’orgoglio dell’Accademia
berlinese. Ma dall’età del Bismarck, dopo che gli intellettuali
tedeschi si furono volti al nazionalismo, un’atmosfera di
volontaria o involontaria sottomissione al nuovo Reich tedesco s’era
fatta sempre più sentire, dapprima sotto l’influsso del Bismarck,
poi sotto quello di Guglielmo II. Tale atmosfera dipendeva anche
dalla presunzione di superiorità della nazione o della razza
tedesca...
Ma quello che infastidì
particolarmente Einstein fin dai primi tempi furono i modi freddi e
in certo modo meccanici dei prussiani e dei loro imitatori, ch’egli
aveva temuto come studente e dai quali s’era allontanato. Per un
uomo proveniente da un ambiente diverso, e in particolare per un uomo
che sentiva intuitivamente il significato delle relazioni umane, un
tal genere di vita era spesso cagione di disaccordo. Einstein ebbe a
sentirsi estraneo persino nelle sue relazioni con un uomo come Max
Planck, il quale aveva fatto tanto perché egli venisse riconosciuto
come scienziato e che lo stimava tanto come persona. Si ebbe modo di
vedere quanto la riservatezza prussiana e il prussiano modo di
pensare, veramente meccanico, pesassero ad Einstein quando Erwin
Schrödinger, austriaco, andò a Berlino quale successore del Planck.
Ora non v’erano barriere, bensì un’immediata comprensione tra i
due uomini, che s’accordavano istintivamente sul modo d’agire
l’uno verso l’altro.
Una visita
pomeridiana
Ad Einstein non piacevano
le visite d’etichetta; ma aveva sentito dire che il professor
Stumpf, noto psicologo, s’interessava molto dei problemi della
percezione spaziale. Einstein credette di poter parlare con lui di
cose d’interesse comune, forse connesse alla teoria della
relatività: e decise di fare questa visita. Sperando di trovare in
casa il professore, andò da lui alle undici del mattino. La
domestica gli disse che il Herr Geheimrat non era in casa, e domandò
ad Einstein se volesse lasciar detto qualche cosa, ma egli rispose
che non importava. Non voleva disturbare nessuno, e sarebbe ritornato
pili tardi. “Intanto”, disse, “vado a fare una passeggiata nel
parco”. Alle due del pomeriggio Einstein .ritornò. “Oh”, disse
la domestica, “il Herr Geheimrat è ritornato a casa dopo che ve ne
siete andato, ha fatto colazione, e poiché non gli ho detto che
sareste venuto di nuovo, sta facendo il sonnellino pomeridiano”.
“Non importa”, fece Einstein. “Ritornerò più tardi”. Andò
a fare un’altra passeggiata e tornò alle quattro. Finalmente
questa volta poté vedere il Geheimrat. “Vedete?” disse Einstein
alla domestica. “Alla fine la pazienza e la perseveranza sono
sempre premiate.”
Il Geheimrat e sua moglie furono lieti di vedere il famoso Einstein, e credettero che volesse fare la sua visita ufficiale di presentazione. Ma Einstein cominciò subito a discorrere della sua nuova generalizzazione della teoria della relatività e spiegò nei suoi particolari le sue relazioni col problema dello spazio. Il professor Stumpf, che era uno psicologo privo di vaste conoscenze matematiche, comprese molto poco in tutto il discorso, e riuscì a mala pena ad aprir bocca. Quando Einstein ebbe parlato per circa quaranta minuti, ricordò che i suoi ospiti credevano ch’egli facesse loro una visita ufficiale, e che, come tale, la sua visita era già durata fin troppo. Disse che aveva fatto tardi, e se ne andò. Il professore e sua moglie rimasero esterrefatti, perché non avevano avuto la possibilità di fare le domande d’uso: “Vi piace Berlino?” “Come sta vostra moglie? e i bambini?” e via dicendo.
Il Geheimrat e sua moglie furono lieti di vedere il famoso Einstein, e credettero che volesse fare la sua visita ufficiale di presentazione. Ma Einstein cominciò subito a discorrere della sua nuova generalizzazione della teoria della relatività e spiegò nei suoi particolari le sue relazioni col problema dello spazio. Il professor Stumpf, che era uno psicologo privo di vaste conoscenze matematiche, comprese molto poco in tutto il discorso, e riuscì a mala pena ad aprir bocca. Quando Einstein ebbe parlato per circa quaranta minuti, ricordò che i suoi ospiti credevano ch’egli facesse loro una visita ufficiale, e che, come tale, la sua visita era già durata fin troppo. Disse che aveva fatto tardi, e se ne andò. Il professore e sua moglie rimasero esterrefatti, perché non avevano avuto la possibilità di fare le domande d’uso: “Vi piace Berlino?” “Come sta vostra moglie? e i bambini?” e via dicendo.
In qualsiasi
momento, dove che sia
Quando, nel 1912, andai a
Praga come suo successore, gli studenti di Einstein mi dissero tutti
contenti e pieni d’ammirazione che, non appena assunto il suo posto
di professore, Einstein aveva detto loro: “Sarò sempre pronto a
ricevervi. Se avete un problema da risolvere, venite da me. Non mi
disturberete mai, poiché io posso interrompere il mio lavoro in
qualsiasi momento e riprenderlo immediatamente, non appena finita
l’interruzione”.
Questo atteggiamento va
giudicato paragonandolo a quello di molti professori, che temono di
essere disturbati nelle loro ricerche, perché un’interruzione
potrebbe essere dannosa al risultato delle loro profonde riflessioni.
Certa gente si vanta di
non avere mai tempo; mentre Einstein si è sempre vantato di averne.
Ricordo una visita che gli feci, durante la quale decidemmo di
visitare insieme l’osservatorio astrofisico di Potsdam. Ci
accordammo di trovarci a un certo ponte di Potsdam; ma, poiché
conoscevo poco Berlino, gli dissi che forse non avrei potuto essere
puntuale. “Oh,” mi rispose Einstein, “non importa. Vi aspetterò
sul ponte”. Osservai che forse gli avrei fatto perdere molto tempo.
“Oh, no,” mi rispose; “il genere di lavoro che faccio io può
esser fatto in qualsiasi luogo. Perché dovrei essere meno in grado
di riflettere ai miei problemi sul ponte di Potsdam che a casa mia?”
Come vivono i
poveri
Nei primi mesi del 1921
Einstein ritornò a Praga, dopo nove anni, durante i quali aveva
acquistato fama in tutto il mondo. Desideravo molto rivederlo, e mi
preoccupavo di procurargli, a Praga, il modo di vivere tranquillo.
Quando lo vidi, alla stazione, aveva ancora l’aspetto di un
violinista ambulante; e dimostrava quelle caratteristiche tra il
puerile e il sicuro di sé che attraevano tanta gente, sebbene, a
volte, la irritassero. Fu lietissimo di poter evitare la folla e di
passare la notte su di un sofà nel mio ufficio al Laboratorio di
fisica, dove abitavo con la mia giovane moglie, dato che era tanto
difficile trovare un appartamento.
A Praga, come in tutte le
città già appartenenti alla monarchia austro-ungarica, gran parte
della vita sociale si svolgeva nei caffè, dove venivano fondati
nuovi partiti politici, circoli letterari, e grandi ditte per la
trattazione degli affari. Molti studenti si preparavano per gli esami
nei caffè, perché la loro stanza era troppo fredda, troppo buia, o
semplicemente troppo triste. E Einstein volle visitare i caffè, e mi
disse : “Dovremmo andare in parecchi, per renderci conto di quello
che sono i vari luoghi frequentati dalle classi sociali”. E cosi
facemmo rapide visite a parecchi caffè; in uno di essi vedemmo
nazionalisti cechi, in un altro dei nazionalisti tedeschi; qua
v’erano degli ebrei, là dei comunisti, degli attori, dei
professori d’università.
La teoria del
fegato di vitello
Mentre ritornavamo a
casa, Einstein mi disse: “Adesso bisogna comperare qualche cosa, in
modo che vostra moglie non abbia troppo da fare per la colazione”.
Allora, mia moglie ed io cuocevamo i nostri pasti su una lampada
Bunsen, nella stessa grande stanza in cui abitavamo e nella quale
aveva dormito anche Einstein. Tornammo a casa con del fegato di
vitello che avevamo comperato. Mentre mia moglie lo cucinava, mi misi
a sedere con Einstein e a discorrere un po’ di tutto. Ad un tratto
Einstein diede un’occhiata piena di preoccupazione al fegato, e
corse da mia moglie. “Che cosa state facendo? Fate bollire il
fegato nell’acqua? Certo sapete che il punto d’ebollizione
dell’acqua è troppo basso perché il fegato vi possa friggere.
Dovete usare una sostanza che abbia un punto d’ebollizione più
alto, come il burro o il grasso”. Mia moglie era stata studentessa
sino ad allora, e sapeva ben poco di culinaria. Ma il consiglio di
Einstein salvò la colazione; e la nostra vita coniugale ebbe una
nuova fonte di divertimento, perché, ogni volta che nominavano la
“teoria di Einstein”, mia moglie si ricordava della sua teoria a
proposito della frittura di fegato.
Definire l’Universo
Quella sera Einstein fece
una conferenza alla Società Urania, e fu quella la sua prima
conferenza popolare da me udita. La sala era particolarmente
sovraffollata, poiché tutti volevano vedere l’uomo famoso in tutto
il mondo, il quale aveva sconvolto le leggi dell’Universo e provato
la “curvatura” dello spazio. Il pubblico comune, in realtà, non
sapeva se si trattasse di un bluff colossale o di una scoperta
scientifica, ed era troppo eccitato per capire il significato della
conferenza.
Dopo la conferenza, il
presidente dell’Urania riunì un certo numero di ospiti, per
passare la serata con Einstein. Furono fatti parecchi discorsi.
Quando toccò ad Einstein rispondere, disse: “Forse vi divertirete
di più, capirete meglio, se invece di fare un discorso vi suonerò
un pezzo col violino”. Esegui una sonata di Mozart, al suo modo
semplice e preciso, e perciò appunto doppiamente commovente. Il suo
modo di suonare mostrava qualche cosa dell’intensità con la quale
sentiva la complessità dell’Universo e della sua gioia
intellettuale nel sentire com’essa possa esprimersi con semplici
formule.
Quello che sarebbe
potuto essere...
Einstein sarebbe dovuto
partire il giorno seguente; ma nella prima mattina s’era già
sparga la voce ch’egli abitava al Laboratorio di fisica, e molti vi
corsero, desiderosi di parlargli. Dovetti sormontare grandi
difficoltà per procurargli una partenza relativamente tranquilla.
Per esempio: un giovane aveva portato un voluminoso manoscritto.
Sulla base dell’equazione einsteiniana E = mc2, il giovane voleva
servirsi dell’energia contenuta nell’atomo per la produzione di
tremendi esplosivi, e aveva inventato una macchina che non poteva
assolutamente funzionare. Mi disse d’aver aspettato quell’istante
per anni; e che in tutti i modi voleva parlare personalmente con
Einstein. Riuscii finalmente ad ottenere che Einstein lo ricevesse.
Rimaneva poco tempo, e Einstein gli disse: “Calmatevi. Non
perderete nulla, anche se non parleremo del vostro lavoro in tutti i
particolari. La sua inanità è evidente alla prima occhiata. Non
potreste imparare di più, da un discorso più lungo”. Einstein
aveva già letto di un centinaio di “invenzioni” del genere. Ma,
venticinque anni più tardi, nel 1945, la vera “invenzione”
esplodeva a Hiroshima.
Da “Eco del mondo”,
n.51, marzo 1949
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