13.9.15

Einstein il maestro (Philipp Frank)

Philipp Frank fu lo scienziato viennese che successe ad Einstein, da lui chiamato, nell'insegnamento all'Università di Praga. Einstein rimase solo un paio d'anni a Praga, dal 1911 al 1913, quando passò a dirigere l'Istituto di Fisica di Berlino, fino al 1933, quando l'avvento al potere di Hitler lo spinse a trasferirsi negli USA. Il brano che segue è tratto da un suo opuscolo del 1948 (Einstein: his life and times, Alfred Knopf Inc., New York). Io l'ho ripreso da “Eco del mondo”, una rivista che imitava il “Readers Digest” pubblicando estratti di libri, ma era di oientamento progressista. (S.L.L.)
I risultati delle sue ricerche pubblicati da Einstein a Berna nel 1905 erano talmente fuor del comune che ai fisici delle Università svizzere parvero incompatibili col lavoro assegnato a un piccolo impiegato dell’ufficio brevetti. E ben presto si fece di tutto perché Einstein insegnasse all’Università di Zurigo.
Cosi, nel 1909, sebbene il professore più reputato disapprovasse il suo modo di far lezione, Einstein fu nominato professore straordinario all’Università di Zurigo. Ma il suo reddito non fu maggiore di quello che aveva all’ufficio brevetti; e, per di più, egli non poteva, adesso, condurre una vita poco costosa e divertente, una vita da bohémien. Per migliorare la loro situazione finanziaria, sua moglie prese in casa, a pensione, degli studenti. Una volta, scherzando, Einstein disse : «Nella mia teoria della relatività, ho messo un orologio in tutti i punti dello spazio; ma in realtà mi riesce difficile provvedermi un solo orologio, per la mia stanza».

Un animo spensierato
Einstein si comportava allo stesso modo con tutti: con i maggiorenti dell’Università, col suo droghiere o con la donna di fatica del suo laboratorio. Le angustie che spesso avevano pesato sulla sua giovinezza erano scomparse. Ora era occupato in un lavoro al quale avrebbe dedicato la vita e si sentiva pari al suo compito. Di fronte a quest’opera, i problemi della vita quotidiana non avevano grande importanza, non andavano presi sul serio. E tale atteggiamento spensierato si manifestava in tutte le parole di Einstein. Il riso che sgorgava dal profondo del suo essere era una caratteristica che attirava immediatamente l’attenzione. A quelli che lo circondavano il suo riso era una fonte di gioia che accresceva la loro vitalità. E tuttavia, a volte, si sentiva che in quel riso v’era un elemento critico. Sicché l’impressione che Einstein faceva nel suo ambiente oscillava tra i due poli dell’allegria puerile e del cinismo. Tra questi due poli era l’impressione di una persona molto divertente e vivace, la cui compagnia arricchiva d’esperienza chi lo frequentava. Una seconda gamma d’impressioni variava da quella di una persona pronta a simpatizzare profondamente e appassionatamente con la sorte di qualsiasi estraneo, a quella di una persona che, a un più intimo contatto, si ritirava immediatamente nel suo guscio.

Tirar la carretta da solo"
Per tutta la vita Einstein, in un certo senso, è stato un uomo molto solo. Cercava l’armonia dell’universo nella musica come nella fisica matematica, e s’è impegnato nell’uno e nell’altro campo durante l’intera vita. Cercava amici coi quali potesse far musica o discutere le sue idee sull’universo; e tuttavia non gli piaceva che l’intimità con gli amici diventasse tanto grande da far si ch’essi potessero in un modo o nell’altro limitare la sua libertà. La sua personalità attraente, franca e spiritosa gli rendeva facile il procurarsi degli amici; ma la sua predilezione per l’isolamento e il suo concentrarsi nella vita artistica e scientifica deluse molti, e allontanò da lui alcuni che erano stati, o per lo meno avevano creduto di essere, suoi amici.
Molti anni dopo, nel 1930, lo stesso Einstein descrisse questa sua caratteristica in modo esatto e sorprendente: “Il mio interesse appassionato per la giustizia sociale e la responsabilità sociale ha sempre stranamente contrastato con la mancanza di desiderio di diretta associazione con gli uomini e con le donne. Sono un cavallo fatto per tirare la carretta da solo, e inadatto al lavoro in tandem o a gruppi. Non ho mai appartenuto con tutto me stesso a nessun paese, a nessuno Stato, né alla cerchia dei miei amici, e neppure alla mia stessa famiglia. Simili legami furono sempre accompagnati, per me, da un vago senso di distanza, e il desiderio di ritirarmi in me stesso cresce in me con gli anni. Tale isolamento è a volte pieno d’amarezza, ma non mi dolgo di essere tagliato fuori dalla comprensione e dalla simpatia degli altri uomini. Certo, ci perdo qualche cosa; ma in compenso sono libero dalle abitudini, dalle opinioni e dai pregiudizi altrui; e non provo la tentazione di basare la mia pace su fondamenta cosi malsicure”.

Nei circoli accademici
Poco dopo il suo arrivo a Berlino, dove fu nominato professore nel 1913, Einstein si separò dalla moglie, Mileva, con la quale su molte cose non andava più d’accordo, c visse una vita da scapolo. Aveva trentaquattro anni, un giovane tra uomini in gran parte più vecchi di lui, uomini con un passato notevole e una grande autorità; e molti di essi avevano anche fatto cose importanti. Ma la sensazione di essere un estraneo derivava soltanto in piccolissima parte dalla differenza d’età. La maggior parte di quegli uomini erano, per cosi dire, “veterani della vita universitaria”. Tutto quanto accadeva nella loro cerchia pareva ad essi straordinariamente importante, e l’elezione all’Accademia sembrava essere il culmine delle loro aspirazioni. Tutto ciò non poteva fare una grande impressione ad Einstein, il quale stava facendosi una rinomanza mondiale prima di diventare un grand’uomo nella ristretta cerchia accademica.

La mentalità prussiana
Anche talune caratteristiche dell’ambiente berlinese, che egli frequentò, contribuivano a far si che Einstein si sentisse solo ed estraneo. Nel secolo decimottavo, sotto Federico il Grande, francesi come il Voltaire e il D’Alembert erano stati l’orgoglio dell’Accademia berlinese. Ma dall’età del Bismarck, dopo che gli intellettuali tedeschi si furono volti al nazionalismo, un’atmosfera di volontaria o involontaria sottomissione al nuovo Reich tedesco s’era fatta sempre più sentire, dapprima sotto l’influsso del Bismarck, poi sotto quello di Guglielmo II. Tale atmosfera dipendeva anche dalla presunzione di superiorità della nazione o della razza tedesca...
Ma quello che infastidì particolarmente Einstein fin dai primi tempi furono i modi freddi e in certo modo meccanici dei prussiani e dei loro imitatori, ch’egli aveva temuto come studente e dai quali s’era allontanato. Per un uomo proveniente da un ambiente diverso, e in particolare per un uomo che sentiva intuitivamente il significato delle relazioni umane, un tal genere di vita era spesso cagione di disaccordo. Einstein ebbe a sentirsi estraneo persino nelle sue relazioni con un uomo come Max Planck, il quale aveva fatto tanto perché egli venisse riconosciuto come scienziato e che lo stimava tanto come persona. Si ebbe modo di vedere quanto la riservatezza prussiana e il prussiano modo di pensare, veramente meccanico, pesassero ad Einstein quando Erwin Schrödinger, austriaco, andò a Berlino quale successore del Planck. Ora non v’erano barriere, bensì un’immediata comprensione tra i due uomini, che s’accordavano istintivamente sul modo d’agire l’uno verso l’altro.

Una visita pomeridiana
Ad Einstein non piacevano le visite d’etichetta; ma aveva sentito dire che il professor Stumpf, noto psicologo, s’interessava molto dei problemi della percezione spaziale. Einstein credette di poter parlare con lui di cose d’interesse comune, forse connesse alla teoria della relatività: e decise di fare questa visita. Sperando di trovare in casa il professore, andò da lui alle undici del mattino. La domestica gli disse che il Herr Geheimrat non era in casa, e domandò ad Einstein se volesse lasciar detto qualche cosa, ma egli rispose che non importava. Non voleva disturbare nessuno, e sarebbe ritornato pili tardi. “Intanto”, disse, “vado a fare una passeggiata nel parco”. Alle due del pomeriggio Einstein .ritornò. “Oh”, disse la domestica, “il Herr Geheimrat è ritornato a casa dopo che ve ne siete andato, ha fatto colazione, e poiché non gli ho detto che sareste venuto di nuovo, sta facendo il sonnellino pomeridiano”. “Non importa”, fece Einstein. “Ritornerò più tardi”. Andò a fare un’altra passeggiata e tornò alle quattro. Finalmente questa volta poté vedere il Geheimrat. “Vedete?” disse Einstein alla domestica. “Alla fine la pazienza e la perseveranza sono sempre premiate.”
Il Geheimrat e sua moglie furono lieti di vedere il famoso Einstein, e credettero che volesse fare la sua visita ufficiale di presentazione. Ma Einstein cominciò subito a discorrere della sua nuova generalizzazione della teoria della relatività e spiegò nei suoi particolari le sue relazioni col problema dello spazio. Il professor Stumpf, che era uno psicologo privo di vaste conoscenze matematiche, comprese molto poco in tutto il discorso, e riuscì a mala pena ad aprir bocca. Quando Einstein ebbe parlato per circa quaranta minuti, ricordò che i suoi ospiti credevano ch’egli facesse loro una visita ufficiale, e che, come tale, la sua visita era già durata fin troppo. Disse che aveva fatto tardi, e se ne andò. Il professore e sua moglie rimasero esterrefatti, perché non avevano avuto la possibilità di fare le domande d’uso: “Vi piace Berlino?” “Come sta vostra moglie? e i bambini?” e via dicendo.

In qualsiasi momento, dove che sia
Quando, nel 1912, andai a Praga come suo successore, gli studenti di Einstein mi dissero tutti contenti e pieni d’ammirazione che, non appena assunto il suo posto di professore, Einstein aveva detto loro: “Sarò sempre pronto a ricevervi. Se avete un problema da risolvere, venite da me. Non mi disturberete mai, poiché io posso interrompere il mio lavoro in qualsiasi momento e riprenderlo immediatamente, non appena finita l’interruzione”.
Questo atteggiamento va giudicato paragonandolo a quello di molti professori, che temono di essere disturbati nelle loro ricerche, perché un’interruzione potrebbe essere dannosa al risultato delle loro profonde riflessioni.
Certa gente si vanta di non avere mai tempo; mentre Einstein si è sempre vantato di averne. Ricordo una visita che gli feci, durante la quale decidemmo di visitare insieme l’osservatorio astrofisico di Potsdam. Ci accordammo di trovarci a un certo ponte di Potsdam; ma, poiché conoscevo poco Berlino, gli dissi che forse non avrei potuto essere puntuale. “Oh,” mi rispose Einstein, “non importa. Vi aspetterò sul ponte”. Osservai che forse gli avrei fatto perdere molto tempo. “Oh, no,” mi rispose; “il genere di lavoro che faccio io può esser fatto in qualsiasi luogo. Perché dovrei essere meno in grado di riflettere ai miei problemi sul ponte di Potsdam che a casa mia?”

Come vivono i poveri
Nei primi mesi del 1921 Einstein ritornò a Praga, dopo nove anni, durante i quali aveva acquistato fama in tutto il mondo. Desideravo molto rivederlo, e mi preoccupavo di procurargli, a Praga, il modo di vivere tranquillo. Quando lo vidi, alla stazione, aveva ancora l’aspetto di un violinista ambulante; e dimostrava quelle caratteristiche tra il puerile e il sicuro di sé che attraevano tanta gente, sebbene, a volte, la irritassero. Fu lietissimo di poter evitare la folla e di passare la notte su di un sofà nel mio ufficio al Laboratorio di fisica, dove abitavo con la mia giovane moglie, dato che era tanto difficile trovare un appartamento.
A Praga, come in tutte le città già appartenenti alla monarchia austro-ungarica, gran parte della vita sociale si svolgeva nei caffè, dove venivano fondati nuovi partiti politici, circoli letterari, e grandi ditte per la trattazione degli affari. Molti studenti si preparavano per gli esami nei caffè, perché la loro stanza era troppo fredda, troppo buia, o semplicemente troppo triste. E Einstein volle visitare i caffè, e mi disse : “Dovremmo andare in parecchi, per renderci conto di quello che sono i vari luoghi frequentati dalle classi sociali”. E cosi facemmo rapide visite a parecchi caffè; in uno di essi vedemmo nazionalisti cechi, in un altro dei nazionalisti tedeschi; qua v’erano degli ebrei, là dei comunisti, degli attori, dei professori d’università.

La teoria del fegato di vitello
Mentre ritornavamo a casa, Einstein mi disse: “Adesso bisogna comperare qualche cosa, in modo che vostra moglie non abbia troppo da fare per la colazione”. Allora, mia moglie ed io cuocevamo i nostri pasti su una lampada Bunsen, nella stessa grande stanza in cui abitavamo e nella quale aveva dormito anche Einstein. Tornammo a casa con del fegato di vitello che avevamo comperato. Mentre mia moglie lo cucinava, mi misi a sedere con Einstein e a discorrere un po’ di tutto. Ad un tratto Einstein diede un’occhiata piena di preoccupazione al fegato, e corse da mia moglie. “Che cosa state facendo? Fate bollire il fegato nell’acqua? Certo sapete che il punto d’ebollizione dell’acqua è troppo basso perché il fegato vi possa friggere. Dovete usare una sostanza che abbia un punto d’ebollizione più alto, come il burro o il grasso”. Mia moglie era stata studentessa sino ad allora, e sapeva ben poco di culinaria. Ma il consiglio di Einstein salvò la colazione; e la nostra vita coniugale ebbe una nuova fonte di divertimento, perché, ogni volta che nominavano la “teoria di Einstein”, mia moglie si ricordava della sua teoria a proposito della frittura di fegato.

Definire l’Universo
Quella sera Einstein fece una conferenza alla Società Urania, e fu quella la sua prima conferenza popolare da me udita. La sala era particolarmente sovraffollata, poiché tutti volevano vedere l’uomo famoso in tutto il mondo, il quale aveva sconvolto le leggi dell’Universo e provato la “curvatura” dello spazio. Il pubblico comune, in realtà, non sapeva se si trattasse di un bluff colossale o di una scoperta scientifica, ed era troppo eccitato per capire il significato della conferenza.
Dopo la conferenza, il presidente dell’Urania riunì un certo numero di ospiti, per passare la serata con Einstein. Furono fatti parecchi discorsi. Quando toccò ad Einstein rispondere, disse: “Forse vi divertirete di più, capirete meglio, se invece di fare un discorso vi suonerò un pezzo col violino”. Esegui una sonata di Mozart, al suo modo semplice e preciso, e perciò appunto doppiamente commovente. Il suo modo di suonare mostrava qualche cosa dell’intensità con la quale sentiva la complessità dell’Universo e della sua gioia intellettuale nel sentire com’essa possa esprimersi con semplici formule.

Quello che sarebbe potuto essere...
Einstein sarebbe dovuto partire il giorno seguente; ma nella prima mattina s’era già sparga la voce ch’egli abitava al Laboratorio di fisica, e molti vi corsero, desiderosi di parlargli. Dovetti sormontare grandi difficoltà per procurargli una partenza relativamente tranquilla. Per esempio: un giovane aveva portato un voluminoso manoscritto. Sulla base dell’equazione einsteiniana E = mc2, il giovane voleva servirsi dell’energia contenuta nell’atomo per la produzione di tremendi esplosivi, e aveva inventato una macchina che non poteva assolutamente funzionare. Mi disse d’aver aspettato quell’istante per anni; e che in tutti i modi voleva parlare personalmente con Einstein. Riuscii finalmente ad ottenere che Einstein lo ricevesse. Rimaneva poco tempo, e Einstein gli disse: “Calmatevi. Non perderete nulla, anche se non parleremo del vostro lavoro in tutti i particolari. La sua inanità è evidente alla prima occhiata. Non potreste imparare di più, da un discorso più lungo”. Einstein aveva già letto di un centinaio di “invenzioni” del genere. Ma, venticinque anni più tardi, nel 1945, la vera “invenzione” esplodeva a Hiroshima.

Da “Eco del mondo”, n.51, marzo 1949

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