Ho appreso la notizia nel
piccolo telegiornale di mezzogiorno di ieri, venerdì, e mi è venuto
di piangere: che non mi accade quasi mai. Era il 1925. Io avevo
quattordici anni e frequentavo la terza ginnasiale a Parma, quando il
nostro professore di Lettere si ammalò e venne a sostituirlo uno
strano tipo, dalla quadrata faccia padana, romanica, e dalle
infinite, bizzarre trovate per non annoiarci e non insegnarci il
latino. Era iscritto a Legge e si occupava di politica meritandosi le
botte dai fascisti, e di teatro, specie di Pirandello, che volle
conoscere di persona e lo deluse. Io facevo dei temi molto belli (lo
diceva lui) ed ero già innamorato di Baudelaire e di Walt Whitman, e
insieme all'inseparabile, un po' più grande di me Pietro Bianchi,
anche del meraviglioso cinema d'allora, sul finire del muto.
Diventati amici del prof. Zavattini, i due compari, adolescenti
cinéphiles (ci informavamo sulle Nouvelles Litteraires,
così non ci sfuggivano le prime di Aurora, di Giovanna
d'Arco, di Sinfonia Nuziale), cercavamo di convincerlo che
il cinema non era fatto soltanto per serve e soldati. Noi lo portammo
di sana pianta, un po' riluttante a vedere La febbre dell'oro.
E così assistemmo a un miracolo, ad una conversione folgorante e di
grandissimi esiti: la nascita del padre del nuovo cinema italiano,
del suo più accanito teorico e del suo più inventivo creatore.
Aveva tanto fiducia in me che, facendogli io leggere di nascosto le
mie poesie, convinse un comune amico, Alessandro Minardi, voglioso di
farsi editore, a pubblicare il mio primo libro, Sirio. Non era
più il 25 ma il 29, e Za (ormai questo è il suo nome, messo in
calce a raccontini singolarissimi che andava stampando su un
quotidiano, “La Gazzetta di Parma”, dalla vedova del suo ultimo
direttore affittata, per così dire, alle associazioni afasciste dei
combattenti e dei mutilati, che affidarono a Zavattini il giornale
dandogli modo di scatenare la sua genialità (mi pubblicava in prima
pagina versioni da Lautréamont) e di affondare il quotidiano, finito
poi in mano ai fascisti.
Niente paura: Zavattini
nei primissimi anni Trenta fa il viaggio a Milano, riesce a farsi
assumere come correttore di bozze da Rizzoli e in poco tempo con la
sua avvolgente, non resistibile seppur inceppata loquela, a
convincere l'antico martinitt a farsi produttore d'un suo
originale soggetto, Darò un milione. Il resto è storia del
cinema, che altri racconterà meglio di me, come uno storico della
letteratura dovrà dire dei suoi libri: dal Parliamo tanto di me
ove erano cuciti insieme i raccontini della Gazzetta, alle stupende
poesie in lingua della sua Luzzara. Mi aveva giurato che non
avrebbe mai scritto poesie, come mi aveva giurato che non soltanto
non avrebbe mai dipinto un quadro ma non lo avrebbe mai saputo
guardare. E fu pittore geniale. Era fatto così; dotato di uno
straordinario talento se ne serviva soltanto quando ne poteva usare
per fargli capire (e migliorare?) la vita: e se a questo poi ad un
certo punto poteva arrivarci meglio, più prontamente, in maniera
libera e vergine, con il pennello o con quella strana scrittura a
righi brevi e inuguali che è la poesia, allora giù a dipingere
quadri, a ritmare, in una musica tutta sua, anche poesia.
Cerco di distrarmi dal
dolore per la perdita che abbiamo subito tutti, ma che io sento tanto
più mia perché si carica del rimorso di non averlo frequentato
negli anni tardi: non volevo, anche se ormai contavano poco i dieci
anni che ci separavano, non volevo vederlo vecchio. Era il 25 e lui,
con molti pochi soldi e molta voglia di eleganza (camicie di seta
cruda e cravatte di organzino al tatto morbidissime) si accompagnava
a me, a Pietrino Bianchi, che questa volta lo portavamo a Teresa
Raquin di Feyder che, se non era Charlot, era pur sempre
autentico cinema. Di soppiatto, al buio facendo delle differenze
perché ero io il suo preferito forse perché più ragazzo,
disordinato e sauvage. Mi infilava in tasca copie della
“Rivoluzione Liberale” e del “Baretti” cui era abbonato; su
quest'ultimo foglio di brutta carta e di preziosi scritti ho letto
per la prima volta una pagina della Woolf benissimo tradotta da
Umberto Morra. Così in anni tristi noiosi grigi l'intelligenza non
si dava per vinta, la vocazione pedagogica che sta in ogni vero
artista (e Zavattini la possedeva come pochi altri) assolveva al suo
sacro compito di formazione morale e artistica della gioventù.
La Repubblica, 14 ottobre
1989
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