Ora che Pietro Ingrao ha
raggiunto i cento anni - chi l'avrebbe detto a seguire le sue
avventurose vicende tra il fascismo ormai declinante e la lunga e
tormentata repubblica che ne è seguita? - vale la pena ricordare ai
lettori chi è stato l'esponente più noto della sinistra del PCI e
quali sono le ombre e le luci che hanno contraddistinto una vita
ormai lunga e tutt'altro che facile.
Nato nell'anno in cui
l'Italia liberale - dopo dieci mesi di incertezza - entra in guerra
contro l'Austria e la Germania da una famiglia di piccoli proprietari
terrieri in decadenza a Lenola, un paese contadino della bassa
Ciociaria, ma originaria del paesino di Grotte, in provincia di
Agrigento in Sicilia. Una famiglia piccolo-borghese, insomma, a
stretto contatto con l'ambiente contadino che la circonda. La figura
principale della famiglia, nella memoria di Ingrao, è il nonno
materno siciliano approdato in quello sperduto paese tra Lazio e
Campania negli anni dell'unificazione nazionale, a lungo impegnato
non soltanto in Sicilia con Garibaldi e con chi combatteva l'esito
monarchico e sabaudo del processo risorgimentale. Il padre non
divenne mai fascista ma, come tanti italiani, fu costretto a prendere
la tessera del Partito nazionale fascista nel 1933, quando non
prenderla equivaleva a perdere il posto e magari andare al confino o
in carcere. Lui era, secondo le parole che scrisse più tardi di sé,
"un ragazzo introverso, un pò lunatico, emotivo" e a
scuola i primi interessi furono letterari. Il primo vero distacco da
Lenola avvenne negli anni Trenta, a quindici anni, quando, per
frequentare il liceo, approdò nella cittadina di Formia, tra Napoli
e Roma.
Di quegli anni restano a
Ingrao ricordi molto vivi: frequentare il liceo significò lasciare
l'ambiente contadino, il paese chiuso all'esterno, una mentalità
necessariamente un pò ristretta. A Formia cominciò a leggere i
poeti, la "Fiera letteraria", "Solaria". Nasce di
qui il suo amore per la poesia, per Leopardi, per Ungaretti, Montale.
Tra gli insegnanti incontra due personalità complesse e vivaci come
Pilo Albertelli e Gioacchino Gesmundo, destinati entrambi a cadere
durante la lotta di Liberazione. Ingrao, durante la lunga intervista
che gli feci per "le cose impossibili" nel 1990, ristampata
nel 2011 dall'editore Aliberti, ricorda ancora di quegli anni le
lezioni storiche e letterarie di quegli insegnanti e i primi accenni
antifascisti.
Ma, quando arriva a Roma
per iscriversi all'Università, malgrado la tradizione antifascista
della famiglia e la presenza di quei professori, si iscrive al GUF e
sente - come la maggior parte dei giovani della sua generazione - la
spinta nazionalistica che il regime fascista è riuscito a destare
nelle nuove leve e a utilizzare sapientemente per giustificare e
glorificare l'impresa di Etiopia e la fondazione dell'Impero sui
colli di Roma. Sono gli anni più bui dell'antifascismo, quelli in
cui la dittatura riesce, almeno a livello della piccola e media
borghesia, a mobilitare quasi tutta l'opinione pubblica contro le
democrazie occidentali e le "inique sanzioni" della
"Società delle Nazioni". Non è un caso che Ingrao ricordi
distintamente un motivo centrale della propaganda fascista di quegli
anni: la guerra come strumento delle nazioni povere contro le
"plutocrazie" del ricco Occidente. La partecipazione ai
Littoriali rientra in parte in quel momento di adesione alla politica
fascista, in parte nel desiderio particolarmente forte dei giovani di
allora di spostarsi, di scambiare idee, discorsi, sentimenti con
coetanei di altre città, nell'ambizione di provarsi nella poesia che
è allora la grande passione dell'universitario. Ma, ricorda Ingrao,
"la guerra di Spagna spacca la mia vita: da allora comincia un
altro cammino. "E subito dopo interviene un altro avvenimento a
far crescere i dubbi e a far allontanare il giovane dal regime: è
l'asse Roma-Berlino, l'alleanza tra Mussolini e Hitler che si profila
proprio nel 1936 e troverà tre anni dopo, nel Patto di Acciaio, la
sua pericolosa formulazione politica e diplomatica. All'Università,
Ingrao incontra molti di quelli che costituiranno, nella Resistenza e
nel partito comunista italiano, il cosiddetto gruppo romano, dai
fratelli Amendola, a Paolo Bufalini, ad Aldo Natoli, Lucio Lombardo
Radice e a molti altri. Ma, nei suoi ricordi, è Antonio Amendola,
scomparso precocemente nell'immediato dopoguerra, ad esser stato il
personaggio decisivo per la scelta politica. Nell'intervista, Ingrao
racconta di essere stato in qualche modo spinto a decidere il suo
destino da una richiesta, per così dire ultimativa, del giovane
Amendola. Qui si intravvede il sacrificio che, per motivazioni
essenzialmente etiche, Ingrao ritiene di dover fare della sua
passione letteraria e cinematografica, dell'anno trascorso al Centro
Sperimentale di Cinematografia, dei primi appassionanti lavori
condotti sotto la guida di Luchino Visconti, con altri come De Santis
che sarebbero diventati nel dopoguerra registi importanti. Ma i
tempi, sembra dire il protagonista, non consentivano incertezze né
scelte strettamente individuali. L'obbiettivo di abbattere il
fascismo era divenuto in quel momento prioritario sulle passioni
personali. Ingrao sceglie i comunisti per la loro decisa volontà di
condurre la lotta alla dittatura (che si rivela specularmente nella
tendenza della polizia fascista di etichettare come comunisti
pressochè tutti gli oppositori del regime, anche quando si trattava
in realtà di socialisti o di aderenti a Giustizia e Libertà di
Carlo Rosselli ed Emilio Lussu) e il forte accento sociale che
caratterizzava l'azione comunista. "E' con i comunisti e e dai
comunisti - ricorda - che ho imparato a cospirare contro il fascismo.
I comunisti mi parlavano della liberazione delle classi subalterne e
li vedevo praticamente impegnati in questa lotta". Della seconda
guerra mondiale Ingrao ricorda la spaccatura che avvenne nel gruppo
romano sul patto Hitler-Stalin, "un colpo allo stomaco perché
era un accordo con il nemico", le scarsissime conoscenze che
egli aveva del gruppo dirigente in carcere o in esilio (a cominciare
da Gramsci e Togliatti ), l'angoscia di una vittoria nazista
nell'estate del 1940), le lunghe letture da clandestino in Calabria
(è allora che scopre e legge Il capitale di Marx ma prima
aveva già letto la Storia della rivoluzione russa di
Trockij), il contatto con alcuni quadri del partito a Milano.
E' qui che lo coglie il
25 luglio 1943 quando, all'annuncio della destituzione del dittatore,
"Milano fu nelle squadre tutta la notte". E il giorno dopo,
per la prima volta, il giovane partecipa a una manifestazione
politica comunista e parla alla folla: "Fu per me la sensazione
fisica che la gente scendeva in campo, diventava attiva. Non eravamo
più un'isola disperata in un mare chiuso. Eravamo ormai parte di un
movimento di popolo: bene o male, quello che è stato poi il corso
della mia vita, con le sue luci e le sue grandi ombre".
Ingrao appartiene alla
seconda generazione dei leader comunisti: quella che conta personaggi
come Paolo Bufalini, Mario Alicata, Enrico Berlinguer, Emanuele
Macaluso, per citarne alcuni tra i più rappresentativi.
Alcuni tra i più
rappresentativi erano entrati nel partito giovanissimi, durante gli
anni più difficili dell'antifascismo, altri qualche anno dopo. Ma
per tutti loro la lotta di Liberazione fu un momento di particolare
importanza perché, per la prima volta, lottavano non in piccoli
gruppi ma a contatto di grandi masse e sentivano che attraverso
quella lotta a poco a poco stava per nascere un nuovo grande partito
di massa.
In Ingrao è molto chiara
la consapevolezza di questo momento decisivo della sua biografia
politica e intellettuale, nonostante egli non sia mai stato
partigiano combattente. "Anche facendo 'l'Unità clandestina' -
mi ha detto - o lavorando ormai nelle organizzazioni comuniste
clandestine di Milano o di Roma, sentivi di lottare insieme dentro la
gente e fra la gente. Questo era ossigeno. Era un'altra vita che
incominciava rispetto a quella conosciuta prima (...) solo così si
può capire che fatto costitutivo è stata per tanti di noi la
Resistenza e l'immersione in una lotta di massa che sperimentavamo
dentro e con il partito comunista. Siamo diventati comunisti così".
Era una dimensione tendenzialmente esclusiva, totalizzante della
politica che quella generazione sentì per la prima volta e che nella
storia d'Italia si sarebbe ripresentata dopo molto tempo alla fine
degli anni Sessanta, dopo un altro ventennio di forte compressione
delle classi lavoratrici condotta dai partiti centristi non attuando
la Costituzione e risfoderando una parte non piccola della
legislazione ordinaria fascista. Ma ancor più decisivo, rispetto
alla forte sollecitazione di Antonio Amendola, è l'incontro con
Palmiro Togliatti. Ingrao, nell'intervista lo dice apertamente: "Il
dirigente politico che ha avuto l'influenza più forte su di me è
stato Togliatti".
Ed è proprio Togliatti a
notare un editoriale scritto dal giovane sulla situazione politica
romana e a sottrarlo al lavoro organizzativo nella federazione per
portarlo all'Unità il 31 maggio 1945. Qui Ingrao dopo la direzione
di Alicata e quella molto breve di Montagnana, diventa direttore e
mantiene la direzione del giornale per quasi dieci anni fino alla
fine del drammatico 1956.
Sono anni molto
importanti per il partito comunista italiano come per l'esperienza
del direttore e politico Pietro Ingrao che si rende conto
successivamente degli errori commessi dal PCI e da lui personalmente:
"In quella vicenda - ricorda - io non seppi parlare". Non
fu un'omissione da poco. Nel 1954 è eletto in direzione e due anni
dopo entra in segreteria e in seguito l'esponente comunista riconosce
l'errore commesso da Togliatti e dal partito sulla rivoluzione
ungherese. Certo, ricordo che già nel 1990 mi colpì il
condizionamento che per tanti anni il richiamo all'unità e il
carisma di Togliatti ha esercitato su Ingrao. Basta leggere un brano
dell'editoriale che firmò come direttore dell'Unità il 27 ottobre
1956 tra il primo e il secondo, definitivo intervento sovietico in
Ungheria: "Sappiamo - scrisse allora Ingrao - che vi sono masse
le quali seguono gli insorti e combattono con loro ma sono estranee a
fini e obiettivi controrivoluzionari: e fra queste masse sono operai,
studenti, intellettuali, trascinati dagli errori dei dirigenti
ungheresi a prendere oggi le armi contro il regime popolare".
Eppure Ingrao scelse ancora di tenere per sé i dubbi e di schierarsi
con il segretario e con il partito a difesa di una linea di cui pure,
e a ragione, dubitava.
Tra il 1960 e il 1966,
quando i contrasti esplodono apertamente all'XI congresso del PCI, il
gruppo dirigente comunista si interroga sul significato dell'apertura
a sinistra, sui caratteri della Democrazia cristiana, sulla
destalinizzazione nell'Urss, sulla linea da imprimere al partito di
fronte alle molte novità che emergono. Ingrao riteneva che la
ripresa delle lotte sociali e operaie e le contraddizioni già emerse
vistosamente nell'alleanza tra democristiani e socialisti indicassero
la necessità che al partito della classe operaia spettasse l'onere
di sconfiggere il centro-sinistra e proporre un modello alternativo
globale di sviluppo economico e sociale del nostro paese. L'alleanza
tra il centro togliattiano e la destra amendoliana, guidato dal nuovo
segretario Longo, segna un successo e si ricompone l'unità del
gruppo dirigente. Ingrao, sconfitto, ammette di aver perduto ma
sottolinea il suo dissenso: "Non sarei sincero, compagni, se
dicessi che sono rimasto persuaso".
Con il 1968 si chiude una
fase positiva per la sinistra e per i comunisti. E, l'anno dopo, vota
a favore della radiazione dei membri del Manifesto (Rossana Rossanda,
Aldo Natoli e Luigi Pintor, pur sottolineando subito dopo che si
trattò di "un brutto errore".
Nel 1972 Enrico
Berlinguer diventa segretario del PCI ma Ingrao non condivide la
politica di "compromesso storico" lanciata dal segretario.
"La formula del compromesso storico fu improvvisa come annuncio,
né discussa prima ma era già in nuce nelle valutazioni,
negli atteggiamenti, persino nelle scelte di inquadramento degli
apparati dirigenti all'aprirsi degli anni Settanta. Io non condivisi
e continuavo ad insistere su una strategia che tendesse a spaccare la
DC nel momento in cui rischiava di trovarsi senza copertura politica
per la crisi e il disinganno che scuoteva il partito socialista.
Anche sulla politica estera non vi fu accordo con il segretario: "Io
-precisa - fui contro la sua dichiarazione sul Patto Atlantico e
sull''ombrello' offerto a noi dalla Nato. E glielo dissi direttamente
in un colloquio che non dimentico per la sua asprezza ma anche per la
sua sincerità". Tra il 1976 e il 1979 Ingrao è il primo
esponente del PCI a presiedere la Camera dei Deputati dopo esser
stato per 42 anni membro di quella assemblea.
La decisione di
Berlinguer di rompere l'alleanza con la DC e puntare di nuovo su
un'alternativa fu salutata in maniera positiva da Ingrao, il quale
segnala l'importanza dello "strappo" del 1981
sull'invasione sovietica in Afghanistan legata a un giudizio negativo
senza riserve sul modello sovietico di comunismo.
Ingrao non nasconde di
sentirsi responsabile, come gli altri leaders del PCI, di non aver
approfondito i problemi legati al tramonto del modello sovietico
prima dell'89: "C'è stato uno sbaglio serio e un ritardo di noi
comunisti italiani (ed io fra questi) nel capire i guasti dei regimi
dell'Est e le convulsioni che si preparavano" ma non condivide
la soluzione data dal segretario.
Di qui la successiva
decisione di rifiuto della svolta impressa da Occhetto al partito
(pur avendo a suo tempo aderito al Partito democratico della
Sinistra) e soltanto nel 1993 dà l'addio definitivo al PDS. Diventa
un indipendente vicino al Partito della Rifondazione comunista a cui
aderisce formalmente soltanto il 3 marzo 2005.
Antimafia 2000, 2 aprile
2015
Nessun commento:
Posta un commento