Mirko Coratti |
Favori, spintarelle, gare
d’appalto truccate, mazzette, assunzioni, affidamenti diretti,
pratiche da sbloccare e imprenditori concorrenti da mettere
all’angolo. Per capire che cosa era diventata Roma e la sua classe
dirigente basta leggere i capi d’imputazione contestati dalla
Procura della Repubblica ad alcuni degli indagati dell’inchiesta
Mafia Capitale. Ne viene fuori uno spaccato squallido, degradato e
degradante, indicativo delle miserie umane di politici e burocrati in
vendita in alcuni casi per poche migliaia di euro a fronte della
grande responsabilità che dovrebbe avere chi è chiamato ad
amministrare la cosa pubblica. Si tratta di condotte, ovviamente
tutte da dimostrare in sede di giudizio, che smuove un senso di
tristezza difficile da descrivere. Prendiamo il caso di Franco
Figurelli, componente della segreteria del Presidente del consiglio
della città Mirko Coratti, che per i suoi servigi al gruppo guidato
da Carminati e Buzzi prendeva una bustarella da mille euro al mese.
Il suo capo, Coratti, aveva un prezzo più alto proprio per il ruolo
che svolgeva. Aveva incassato diecimila euro versati all’associazione
Rigenera (a lui riconducibile) e strappato la promessa per altri 150
mila euro oltre all’assunzione di una persona che avrebbe indicato
personalmente. In cambio era pronto a battersi, assieme ad altri, per
facilitare l’aggiudicazione di alcune gare d’appalto ad aziende
vicine al gruppo criminale. Era sempre pronto a spingere per
sbloccare fondi per il sociale a pilotare nomine e a difendere il
direttore generale di Ama (una municipalizzata) Giovanni Fiscon,
gradito agli imprenditori collusi. Fiscon a sua volta quando c’era
da dare una mano con gli appalti e le forniture di Ama non faceva una
piega. Intanto incassava l’interessamento dell’organizzazione che
gli aveva consentito, tramite gli agganci politici, di mantenere il
suo posto e di avere una percentuale sugli appalti stessi.
A libro paga dei boss
c’era anche Massimo Caprari (esponente del Centro democratico),
altro consigliere comunale, che quando c’era da votare un debito
fuori bilancio comodo a Buzzi e Carminati, non si tirava mai
indietro: secondo gli inquirenti, il do ut des sarebbe rappresentato
da soldi ed un’assunzione.
Alla stessa maniera agiva
il consigliere comunale Giordano Tredicine (capogruppo di Forza
Italia in Campidoglio), anche lui pronto ad incassare contante e
altre regalie. Gaetano Altamura dirigente del X dipartimento del
Comune (che si occupa del servizio giardini) pensava alla famiglia e
quindi si era fatto assumere due nipoti nelle cooperative gestite dal
clan. Pescava nella borsa dei mafiosi anche il mini sindaco di Ostia,
Andrea Tassone, che in cambio di alcuni affidamenti diretti si era
fatto “regalare” 30 mila euro e che, da esponente di primo piano
del Pd capitolino, poteva contare sui buoni uffici di altri indagati
del suo stesso partito. C’è poi anche la storia di Daniele Ozzimo
(ex assessore alla Casa della giunta di centrosinistra guidata da
Marino), di Guido Magrini (direttore delle Politiche sociali della
Regione) e del consigliere comunale Pierpaolo Pedetti (anch’esso
del Partito democratico), tutti impegnati a consegnare servizi
relativi all’emergenza casa alle aziende di Carminati e Buzzi, i
quali avevano poi agevolato l’acquisto a prezzi molto vantaggiosi
di 14 appartamenti. C’era poi chi si accontentava di affittare ai
clan qualche immobile intestato alla moglie per un migliaio di euro:
una forma per far qualche soldo senza sporcarsi le mani direttamente.
Miserie insomma. Come miserabile era la richiesta di Ozzimo a cui i
magistrati, in un capo d’imputazione, contestano di essersi venduto
per un’assunzione e per un contributo per la campagna elettorale di
20 mila euro. Ovviamente le briciole toccavano a chi contava di meno,
come alla signora Brigida Paone che, da collaboratrice
all’assessorato alla Casa, per la sua disponibilità era stata
ripagata da una delle cooperative del gruppo criminale con
l’assunzione della figlia. Nulla di grosso rispetto alle richieste
del già citato Pedetti che aveva chiesto a Buzzi di comprargli un
appartamento in cambio di alcuni sconti che avrebbe ricevuto una
delle sue società.
Luca Odevaine |
Il clan di Mafia Capitale
aveva capito come agire. Violenza zero nei confronti dei politici e
dei funzionari pubblici. Per convincerli a spendersi per loro era
sufficiente scoprire quale fosse il prezzo da pagare. In cambio di
favori e appalti, di commesse e spintarelle, bastava pagare qualche
soldo, contribuire a qualche campagna elettorale, regalare
un’assunzione ogni tanto per soddisfare gli appetiti clientelari.
A volte bastava anche solo la promessa. E non era necessario avere
tutti in pugno. Era sufficiente avere gli uomini giusti al posto
giusto. Per il resto, il saccheggio di Roma era un gioco da ragazzi.
Narcomafie, luglio-agosto
2015
Nessun commento:
Posta un commento