Ho letto la prima volta I
fiori del male nella traduzione (la prima, che io sappia,
in italiano e in prosa) dovuta a Riccardo Sonzogno. Avevo tredici
anni, frequentavo la terza ginnasio inferiore, una sorta di scuola
media molto più difficile, molto più formativa, molto meno
democratica, forse. E da "bambino innamorato di stampe e di
mappe", avevo su una bancarella scovato quella traduzione di
Riccardo Sonzogno uscita proprio nella benemerita, benedetta
Biblioteca Universale Sonzogno, nella quale poco più tardi trovai le
Foglie d'erba di Walt Whitman e scoprii il meraviglioso,
liberatorio verso libero. Ma ecco che sui sedici anni, posso accedere
alla Biblioteca Palatina di Parma dove, finalmente, mi è dato
leggere Les fleurs du mal.
Da allora, in varie
edizioni sino alle due della "Pléiade" non ho fatto che
leggere il mio Baudelaire, dico mio perché me ne sono appropriato,
eseguendo inconsciamente operazioni di rimozione forse non troppo
lecite. Oggi il poeta Cosimo Ortesta mi obbliga a leggere tutto il
libro: sua bella traduzione, testo implacabilmente a fronte e molte
utilissime note, tanto più utili quanto più secche, essenziali,
senza sbavature estetiche. Era giusta questa lettura ultima. Ma non
mi ha guarito dal morbo che mi fa, non dico scegliere, fissare a
lungo gli occhi sulle poesie che più amo; e potrei farne a meno,
ormai, perché le so a memoria, con affioramenti improvvisi,
ossessivi di versi, magari utili ai fini della mia meteorologia
personale: "O fins d' automne, hivers, printemps trempés de
boue [...]".
In cerca di chi potesse
giustificarmi, improvvisamente mi sono ricordato che l' altro
scrittore di tutta la mia vita, Marcel Proust, aveva scritto in due
diverse occasioni pagine immortali su Baudelaire: le prime raccolte
in Contre Sainte-Beuve, le altre uscite in un numero della
Nouvelle Revue Francaise e sollecitate da Jacques Rivière. L'
attacco: "Mon cher Rivière, une grave maladie m'empèche...".
Morì qualche mese dopo.
I poeti muoiono: a 47
anni doveva morire il mio Baudelaire, afasico, riuscendo a malapena a
scarabocchiare su un pezzo di carta "Pregate per l' anima di
Mariette e di Edgar Poe". O cristianissimo, tanto più cristiano
quanto più bestemmiatore, povero Charles. Qui vorrei ricordare, e ci
ritornerò, una delle poesie che ho impresso indelebilmente nella mia
memoria e nel mio cuore, per sempre. "Alla serva che destava la
vostra gelosia, / e che dorme il suo sonno sotto l'umile prato, /
dovremmo qualche volta portarle un po' di fiori". Era Mariette.
Ma non seguitemi in
questo errare, leggete per intero I fiori del male, troverete
altro da quanto testardamente continuo a chiamare "il mio
Baudelaire". Forse uno psicoanalista potrebbe dire che rimuovo
per non soffrire unitamente al poeta, che terribilmente soffriva. Ma
voglio citare qui i due primi versi dello stupendo Crepuscolo del
mattino: "Cantava la diana nei cortili delle caserme, / e sui
lampioni soffiava il vento del mattino". E ora citarne gli
ultimi, inebrianti: "Tremante, in una veste rosa e verde, lenta
/ spuntava l' aurora sulla Senna deserta". Confesso che non ho
imitato, Baudelaire è inimitabile, ma rubato questi due versi a
chiusura di un canto della Camera da letto. Volevo ribadire,
forse contraddicendomi, che mi son fatto una piccola antologia
personale che non dovrei variare mai.
E invece, rileggendo
interi I fiori del male, trovo una delle poesie a me meno
care, Una carogna. Ed ecco, o meraviglia, una quartina in cui
non più fetore, larve, eccetera, ma la improvvisa, sublime metafora:
"E una musica strana da quel mondo emanava, / come vento,
corrente d'acqua, o grano / che volge e agita nel vaglio / il
vagliatore con ritmo cadenzato". Sì, il grano, il vagliatore,
il vanneur, descritti con tanta precisione da suonare
familiari a me, figlio della campagna, tanto più sorprendenti se
scritti dal poeta della città. Proseguendo la rilettura del gran
libro mi sento avviluppato dalla sua tenebrosa e profonda unità: ma
perché non potrebbero colpirmi di più, abbacinarmi, le lame di luce
che vittoriosamente investono il tenebrore del libro? Come nelle
Vecchine, il poemetto forse più crudele e pietoso che
Baudelaire abbia scritto, voyeur implacabile e affettuoso: "[...]
ogni sera vi mando un solenne addio [...] Eve ottuagenarie[...]".
Ed ecco il poeta ne ha seguita una "[...] tra le altre, nell'
ora del tramonto / quando il cielo s' insanguina di ferite vermiglie,
/ su una panca, pensosa, seduta in disparte, / dei nostri soldati
ascoltava un concerto, ricco / di ottoni, di quelli che inondano i
giardini, / nelle sere d' oro quando sembra di rinascere, / e
infondono eroismo nel cuore dei cittadini". Nessuna ironia, non
sembra rinascere anche il poeta a quella musica? E infatti, in un'
altra poesia: "Il suono della tromba è così delizioso, / nelle
sere solenni di celesti vendemmie, / in tutti filtrando un' estasi
[...]".
Altri due poemetti per me
eccelsi dopo Le vecchine sono Il cigno e Il viaggio.
Il primo con quell'attacco entrato nel nostro cuore, più che nella
nostra memoria, con un rintocco infinito. "Andromaca, io penso a
voi! [...] l'immensa maestà del vostro lutto vedovile". Ma
d'improvviso, a sorpresa, sentite "[...] la vecchia Parigi non
c' è più (cambia d' aspetto / una città più velocemente, ahimè,
del cuore dei mortali)". Chi da Parigi che cambia (sono gli anni
di Haussmann) non sente che il poeta parla per tutti, per noi cui
dinanzi agli occhi cambia la nostra città? "[...] Palazzi
nuovi, impalcature, massi, / vecchi sobborghi, tutto per me diventa
allegoria / e i cari ricordi pesano come rocce".
Ma passiamo al
complessissimo Viaggio. Non vogliamo procedere nel suo
intrico, sia pure pausato sapientemente in sei parti numerate. Ancora
una volta cedo a quanto la memoria per anni e anni mi ha serbato. E
lo dico subito, la prima e la penultima quartina, per due ragioni
diversissime. Ero così giovane quando mi hanno incantato i primi due
versi da farmi illecitamente identificare al "bambino innamorato
di stampe e di mappe", questo bambino per cui "l' universo
sembra pari alla sua vasta brama". Ben diversa e tale da
portarmi a meditare sulla natura del moderno, della poesia pura, la
penultima quartina. Il primo verso, conosciutissimo, suona veramente
d' una novità impressionante: "O Morte, vecchio capitano, è
tempo, leviamo l' ancora". Chi mai prima di Baudelaire aveva
osato, quella Morte tante volte raffigurata dal Gotico al Barocco
(sempre falciatrice di vite umane), vestirla da vecchio capitano di
mare, cui chiedere di "levare l' ancora"? Più avanti:
"Questo posto ci annoia, o Morte! Salpiamo! / Se cielo e mare
sono neri come inchiostro, / i nostri cuori, tu li conosci, sono
pieni di luce". Forse la poesia moderna inizia con quel "Morte,
vecchio capitano"? E' stato detto e stradetto, ma se Baudelaire
è il primo dei moderni è anche l'ultimo degli antichi, vedi la sua
fedeltà alla prosodia tradizionale. E qui vorrei (è soltanto
un'approssimazione) considerarlo come un Manet rispetto a un Monet.
Ripenso al gran Baudelaire cronista di salons, di esposizioni:
ma non fece in tempo ad andare oltre Delacroix, con il quale, come
con lui, si sente in bocca un sapore mischiato di sangue e di
voluttà.
Ma chi sono i moderni
venuti dopo di lui? Due nomi, subito: Rimbaud e Mallarmé. Non voglio
inoltrarmi nell'assoluto del primo, del voyant, del profeta
del dereglement, impossibile a seguirsi senza il rischio di perdersi.
Mallarmé, con i suoi ventagli, i suoi fauni, i suoi azzardi sta
ormai sotto "l'eternel azur" del "vivace
aujourd'hui". Verranno dopo di lui Paul Valéry, il suo
cimitero marino, "toit ou marchent des colombes".
Poteva il vieux capitaine salpare e giungere a tale
meraviglioso cimitero sul quale "Midi le juste y compose de
feux / la mer, la mer, tojours recommencée"? Qualche anno
fa a Parigi, dove non sono mai stato al Père-Lachaise, nel quale
giacciono sepolti, meta di infiniti pellegrinaggi, tutti i più
famosi scrittori di Francia, ho cercato e trovato con difficoltà, al
cimitero di Montparnasse la stele sotto cui giace il povero Charles.
Ho portato qualche fiore, non ve n' erano altri. E mi son tornati
alla memoria quei versi: "I morti, i poveri morti hanno grandi
dolori / [...] sentono le nevi dell'inverno sgocciolare / e il secolo
passare, senza un parente o amico / che cambi gli stracci appesi alla
loro grata". Sono felice d'avergli portato un mazzetto di fiori,
mi sento perdonato di essermi preso tante e tante libertà con il suo
grande libro. Ma non ci accade di farlo anche con la Commedia?
Prefazione a I fiori
del male, Classici Giunti, 1996
a cura di Cosimo Ortesta. Pubblicata come anticipazione su “la
Repubblica”, 5 marzo 1996
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