Giovedì 3 settembre.
Molti quotidiani pubblicano la foto di Aylan, un bambino di tre anni,
curdo siriano. La maglietta rossa, i pantaloncini blu, le scarpe ai
piedi. Ordinatissimo. Sdraiato sulla spiaggia. Non sta dormendo. È
morto. Annegato mentre, a bordo di un gommone, cercava di lasciare la
Turchia, insieme alla famiglia, per raggiungere l’Europa. “Il
manifesto” gli dedica metà della prima pagina: sulla fotografia
campeggia la scritta “Niente asilo”. È una foto che – non
certo per volontà del piccolo Aylan e della sua famiglia – entrerà
nella storia. Come quella, per restare nel dopoguerra, della piccola
vietnamita Kim Phuc, in fuga, nuda, dal napalm. La foto – inutile
illudersi – non cambierà i comportamenti dei “grandi della
terra”. Ma già ora ha contribuito a svegliare coscienze, a
suscitare pratiche di accoglienza e solidarietà, a moltiplicare
reazioni.
Da mesi il messaggio,
ossessivamente ripetuto da media e da politici di ogni colore, in
Italia e in Europa, è che bisogna finirla con il buonismo e prendere
atto che per rifugiati e migranti in genere non c’è posto “a
casa nostra”. Di qui il rincorrersi, in un crescendo senza fine, di
proposte definite risolutive: rinchiuderli in campi aldilà del
Mediterraneo, ricacciarli nei Paesi da dove vengono, bombardare i
barconi che attraversano il mare, costruire muri e potenziare
reticolati di filo spinato sulla terraferma. E, a fianco, un
distillato di odio e xenofobia che sembra mettere nell’angolo e
inferiorizzare chi invita alla ragione e all’accoglienza.
Così i giornali, i talk
show televisivi e i social sono invasi da volgarità razziste e la
scena è dominata da invettive provocatorie come quelle del
segretario leghista che intima a vescovi, alte cariche dello Stato e
buonisti in genere di «prendersi i clandestini a casa loro» quasi
che la solidarietà potesse (e dovesse) sostituire la politica più
di quanto già non accade. Contro questa deriva poco hanno potuto,
fino ad oggi, i princìpi: l’uguaglianza, la solidarietà, la
dignità delle persone. Nonostante il messaggio cristiano richiamato
con forza dal Papa venuto da lontano. Nonostante la miglior cultura
dell’occidente, transitata dall’illuminismo al socialismo.
Nonostante la nostra Costituzione del 1948, il cui articolo 10
attribuisce “il diritto d’asilo nel territorio della Repubblica”
allo “straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo
esercizio delle libertà democratiche”. Nonostante la Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo, il cui articolo 11 prevede che
“ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi
asilo dalle persecuzioni”.
E poco hanno potuto le
dure lezioni della storia che mostrano l’immancabile sbocco della
xenofobia, soprattutto nei momenti di crisi economica e di
disgregazione sociale, in persecuzioni e pulizie etniche praticate da
“camicie” di diverso colore. Con aggressioni di gruppo,
linciaggi, cacce all’uomo, pogrom nei confronti dei diversi. Con,
alla base, la costruzione del «capro espiatorio» che fa apparire
naturali e spontanei anche l’annientamento e la distruzione fisica.
E ciò ancorché, a ben guardare, la pratica del rifiuto, lungi dal
fondarsi su dati e fatti, poggi su luoghi comuni, chiacchiere, falsi
(come l’incombente invasione di milioni di islamisti sanguinari e
l’esistenza di spese spropositate per l’accoglienza) che
acquistano dignità di argomenti solo grazie a ripetizioni ossessive
e a mancate confutazioni.
Oggi la foto di un
bambino indifeso, ucciso dall’intolleranza e dal rifiuto, ha scosso
le coscienze di molti (insieme a molte immagini analoghe e, da
ultimo, a quelle di uomini che, come settant’anni fa, marchiano
altre donne e altri uomini con numeri impressi indelebilmente sulle
braccia). Di qui il crescere di manifestazioni di solidarietà e di
ribellione a una “legalità” che uccide, respinge, costruisce
muri (come è accaduto da ultimo in Ungheria). E, ancora una volta,
il protagonismo delle donne e degli uomini ha cambiato gli scenari e
spiazzato la politica, spingendo Germania e Austria a dichiarare una
disponibilità generalizzata all’accoglienza dei profughi siriani.
È un fatto importante, positivo e, fino a ieri, imprevedibile.
Ma guai ai trionfalismi e
alla retorica a buon mercato. All’indomani dell’apertura dei
confini tedeschi e austriaci sono fioccate le dissociazioni. I più
(anche in Italia) hanno scelto il silenzio. E molti si sono
dissociati: l’Ungheria, i Paesi dell’Est, ma anche, di fatto,
l’Inghilterra e la Spagna. E sono cominciati i distinguo: sulla
nazionalità e la religione dei profughi da accogliere, sulla non
assimilabilità ai profughi dei migranti tout court (come se
fuggire dalla fame fosse diverso dal fuggire dalle guerre), sulla
necessità, comunque, di rispettare il trattato di Dublino (che
demanda l’accoglienza, in via esclusiva, ai Paesi di confine).
Nonostante tutto,
peraltro, una falla si è aperta nel fronte del rifiuto e della
xenofobia. Ed è una falla che può ingrandirsi. Ma solo se la
mobilitazione, la solidarietà, la protesta di oggi si
moltiplicheranno e si tradurranno in iniziativa politica capace di
incalzare forze politiche e governi.
Narcomafie, 17 settembre
2015
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