Don Zeno Saltini, 1945 |
Le forme della prepolitica nella
lunga lotta di don Zeno
«Chi ha i soldi da una parte, chi non
ne ha dall'altra». Un messaggio chiaro, che tutti potevano capire.
«Fê du mucc. Fate due mucchi» e poi, concludeva don Zeno Saltini,
prenderemo a contarci. Sarà allora evidente chi è maggioranza e chi
no, chi possiede e chi è posseduto, chi non ha pane e chi invece ha
i granai pieni e attende solo che il prezzo salga per speculare
ancora e speculare di più. L'oppresso e gli oppressori, l'affamato e
chi lo affama, il servo, il padrone e poi la retorica dell'esser
liberi, quando la servitù non è più un vantaggio per gli uni, ma
continua a essere un peso, sotto altri nomi e forme, per gli altri,
quelli che arrivano comunque ultimi o a corsa finita. Una storia
semplice, forse ingenua - ma non troppo, se è sempre alla struttura
elementare di questa storia che si torna, finita la festa. Finita la
nostra, di festa, scopriamo che don Zeno Saltini ha ancora molto da
dire. Le sue tracce concrete, frutto di una passione che ha saputo
farsi azione, si inscrivono forse in un futuro che vorremmo nostro e
per il quale già proviamo nostalgia.
Le soluzioni dei poveri
Affermava don Zeno: «Ecco il mio
consiglio. L'Italia è un pero che fa delle prugne, perché siamo il
99% poveri e finiamo per avere un governo che protegge i capitalisti.
Facciamo due mucchi, i poveri da una parte e quelli con i quattrini
dall'altra. Poi si va al potere con la maggioranza semplice del
programma: fare gli interessi dei poveri. Siamo tutti poveri e
troveremo le soluzioni. E se gli altri dicono: non siete mica capaci
di amministrarvi. Risponderemo: come ci avete amministrato voi ci
riusciamo comunque anche noi. Lo vedono tutti cosa avete combinato».
Don Zeno amava parlare di politica, ma anche - con un termine che fu
tra i primi a usare - di prepolitica, ossia di tutto ciò che la
precede e, incontenibile nelle vecchie forme, ne cerca di nuove.
Magari mancandole, magari sbagliandole, ma le cerca.
Il 5 maggio del 1945, a mezzogiorno in
punto, dal balcone del palazzo comunale di Carpi a pronunciare queste
parole non era solo il prete che aveva trasformato una frazioncina
della Bassa modenese, San Giacomo Roncole, poche centinaia di
abitanti, in un vero laboratorio di comunità, raccogliendo ragazzi
abbandonati, respinti ai margini e orfani attorno all'Opera Piccoli
Apostoli da lui fondata dodici anni prima. Zeno Saltini, nato a
Fossoli nel pomeriggio del 30 agosto del 1900, nono figlio in una
famiglia patriarcale di possidenti terrieri, sacerdote dal 1931, era
anche un «vicesindaco» essendosi insediato in ragione della nomina
decretata dal Comitato di Liberazione Nazionale di Mirandola. Neanche
il tempo di riambientarsi, dopo essere rientrato dalla zona libera
dove si era nottetempo rifugiato, per sottrarsi al Tribunale
Militare, e don Zeno si affrettò a dar vita a una commissione
comunale per l'assegnazione degli alloggi nel comune di Mirandola,
assumendone la presidenza e provvedendo a sistemare in ville
coloniche, nell'ex Casa del Fascio e persino nella vecchia caserma
della Milizia, restaurata dai suoi ragazzi, i numerosi senza tetto
che gli chiedevano aiuto. Non ultimo, ma ultimo della lista - «per
non dare l'idea che qui ci siano privilegiati» - il presidente dello
stesso Cln mirandolese.
Mediazioni ex post
Nel secondo dopoguerra, come già era
avvenuto nel primo, don Zeno è un vulcano in piena: progetta di
istituire a San Giacomo una scuola di cinematografia, un liceo,
un'università popolare e un'università vera e propria, ma questa
solo «in un secondo tempo», quando si saranno gettate le basi di
una società nuova, e progetta persino di dar vita a un movimento di
democrazia diretta e di fratellanza universale. Cosa che, ovviamente,
non fu vista di buon grado da molti esponenti del clero, anche se
molti altri lo seguono, non foss'altro per la sua capacità di
parlare a tutti, comunisti compresi, riempiendo piazze, chiese e quel
cinematografo che, negli anni più bui del regime, gli era servito
per rompere la retorica dominante, con film americani e dibattiti
nemmeno velatemente antifascisti. «Abbasso i preti, tranne don
Zeno», aveva scritto qualcuno su un muro di Modena. E sull'Unità,
il 4 agosto del 1945, apparve un articolo, firmato «Stella Rossa»,
che dopo duri attacchi al clero concludeva: «don Zeno ci piace». Ma
don Zeno non piaceva a tutti. Tra i comunisti era pur sempre un
prete, tra i preti era in sospetto di comunismo mistico-evangelico,
ma lui non si lamentava, «si vede che ho qualcosa da dire a tutti e
tutti hanno qualcosa da dire a me». «Testa calda», «tribuno»,
«sovversivo» - lo definiranno parroci e prelati della zona,
indisposti verso quell'uomo dalla non comune capacità di attrarre
con un'oratoria raffinata e schietta, ancorché velata di dialetto e
anacoluti, e dai metodi spicci. Tratto caratteristico dell'azione di
don Zeno fu sempre quello di mettere le autorità dinanzi al fatto
compiuto, attendendo e operando ex post la mediazione. Anche questo,
va da sé, non piaceva.
Dai suoi studi in teologia, don Zeno
aveva imparato che «le opere sono di Dio, le parole di Satana e nel
giorno del redde rationem» dovremo rendere conto di quanto
non abbiamo fatto al pari di quanto abbiamo fatto, mentre dalla sua
laurea in giurisprudenza seppure presa con voto basso, 75/110, nel
1929 alla Cattolica di Milano, l'avvocato Saltini aveva tratto una
passione per la sostanza materiale e le forme vive del diritto. Quel
diritto degli ultimi, che spesso poggia su residui di ordinamenti
consuetudinari in frantumi, che aveva appassionato anche il giovane
Marx.
Lo stato di necessità, per don Zeno,
legittima la rottura delle forme. Sia che si trattasse di celebrare
la prima messa, appena ordinato sacerdote, facendosi accompagnare nel
Duomo di Carpi - era il 1931 - da un ragazzo appena uscito di galera
che diventerà il primo dei suoi «figli», sia che si dovessero
affrontare Scelba, Montini, un questurino qualsiasi o De Gasperi,
oppure contestare il fisco che con lui non fu mai clemente, in tutti
i casi, don Zeno sembrava animato da una convinzione certa: il mondo
è diviso in due, non c'è terza via. Chi ha fame ha fame e non può
aspettare che la fortuna arrivi dal cielo, la fortuna te la devi
prendere, ma con giustizia anche quando giustizia significa rompere
uno stato di fatto. Ma per la giustizia, osservava, occorrono
«libertà, eguaglianza, fraternità». Le stesse parole che chi lo
seguiva - e furono tanti, in una vita che taglia il secolo - scrisse
sulle schede elettorali, quando don Zeno invitò i suoi a annullarle
alle amministrative del 10 giugno 1951, facendo perdere voti alla
Democrazia cristiana e ottenendo un'eco nazionale.
Scrisse Anna Maria Ortese: «Non era un
prete, ma qualcosa di più. Non era un politico, malgrado avesse
attaccato così arditamente fatti e persone del governo; né un
diplomatico, perché aveva perduto tutto. Un educatore neppure,
perché la sua rude semplicità glielo impediva. Ci chiedevamo
segretamente a chi e a che cosa somigliasse, chi fosse in realtà
quest'uomo buono, leale, impulsivo, legato da un amore così
appassionato a una famiglia così diversa da lui: lui così vivo,
generoso, tenero, la testa piena di sogni, e i figli così scialbi,
prudenti, duri. Ma definirlo era difficile».
Tedescofobo e antifascista
«Se il Cristianesimo fosse quello
predicato dalla Democrazia Cristiana, io sarei o ebreo o ateo»,
ribadiva don Zeno. Un partito di ispirazione cristiana, così come si
stava sempre più configurando nella DC, gli sembrava d'altronde un
pro forma e la veste da prete - «la cornice, il Vangelo è la
sostanza», ma d'altronde lui in seminario c'era stato solo dodici
mesi - non gli poteva certo impedire di denunciare che, dietro quello
che veniva allora definito il male minore, rispetto al pericolo
rosso, si configurasse «il beneficio migliore per i capitalisti».
Fê du mucc, appunto. Chi è di qua e chi è di là, non c'è via di
mezzo, anche quando le cose sono complesse, difficili, ostiche la
scelta etica è sempre possibile.
La Prefettura di Modena lo conosceva
bene e conosceva le sue testarde intemperanze, contro le quali aveva
cozzato a più riprese, avendolo schedato da tempo. In una nota del
31 gennaio 1944, firmata dal commissario di Mirandola Alberto
Paltrinieri si legge infatti: «L'attività del clero fiancheggia in
linea di massima quella delle autorità locali. Solo don Zeno
Saltini, curato di S. Giacomo Roncole, specialmente nell'infausto
periodo 25 luglio - 8 settembre '43, si è dimostrato tedescofobo ed
antifascista». Il 30 luglio del '43, d'altronde, don Zeno era stato
tratto in arresto, per la pubblicazione di una dura critica al Regime
formalmente caduto da cinque giorni. Critica apparsa sul suo
giornalino Piccoli Apostoli.
«Un governo poliziesco è destinato al
fallimento», aveva scritto in una lettera contro il perdurante
divieto di assembramento e riunione, inviata tre giorni prima al
generale Matteo Negro, comandante a Modena, che voleva continuare a
mantenere un ordine già morto, minacciando di aprire
indiscriminatamente il fuoco su qualsiasi drappello «sedizioso»
composto da più di tre persone. Nel frattempo, la sua comunità
cresceva e non bastavano più le vecchie stanze del Casinone, a San
Giovanni, per contenere tutti quelli che chiedevano un tetto o da
mangiare. La guerra volgeva alla fine, ma per la fame non era certo
tempo di armistizio.
Il 19 maggio del 1947, la grande
decisione. Con fanfare e tamburi e cineprese al seguito don Zeno si
mise in testa a una strana processione, diretta verso l'ex campo di
concentramento Fossoli per una nuova sfida: rendere abitabile
l'inabitabile, bonificare l'orrore. I ragazzi di don Zeno tagliarono
le reti e il filo spinato, abbatterono i muri, scavarono e spalarono
e infine occuparono, dopo un lungo lavoro appena «tollerato» dalla
autorità, l'ex campo di concentramento nel quale si trovavano
reclusi oramai solo pochi «indesiderati».
In nome della fraternità
Ricorderà don Zeno: «La mattina del
19 maggio abbiamo formato una piccola autocolonna. In testa c'era il
camion con la banda musicale, poi altre macchine e corriere prese a
noleggio. Io li avevo preceduti. Quando l'autocolonna è arrivata
davanti all'ingresso la banda ha cominciato a suonare e il poliziotto
di guardia ha aperto. Mica abbiamo spinto noialtri il portone. Entra
dunque il camion con questi ragazzi che suonano e le guardie sono
andate a prende i ragazzini più piccoli, a prenderli sulle spalle e
tutti i prigionieri, al di là dal muro e sui tetti a guardare e
applaudire». A cose fatte, sempre a cose fatte, Zeno scriverà al
capo della Polizia, annunciandogli: «Ho ritenuto immorale lasciare
ancora per un giorno tanti figli d'Italia in così pietose condizioni
di abbandono». Come dire: il dado è tratto.
Dopo mesi di richieste, di anticamera,
di pratiche burocratiche e burocratiche attese, ancora una volta don
Zeno decide di fare da sé, fondando Nomadelfia, una città dove non
la burocrazia, non l'astratta libertà, non la ricchezza, non la
finta eguaglianza, ma «la fraternità è legge». Un nome splendido,
commenterà Guido Calogero sul Mondo, un nome che compare per la
prima volta in uno scritto di Saltini del 22 maggio del 1947.
Fraternità e legge inscritte nel nome
vennero sancite da una costituzione, approvata il 14 febbraio del
1948, un mese e mezzo dopo l'entrata in vigore di quella
repubblicana. La Costituzione di Nomadelfia venne approvata e firmata
sull'altare da tutti i membri di una comunità che si stava sempre
più ingrandendo e presto avrebbe accolto centinaia di «scartini»,
i ragazzi dei brefotrofi che nessuno voleva in adozione ai quali don
Zeno, le famiglie e le mamme per vocazione - donne che accoglievano
come figli propri i ragazzi - diedero «dignità di popolo». Senza
denaro, a Nomadelfia si usavano i «Tis», titoli interni di scambio,
non c'era proprietà privata, si lavorava e si studiava in comune e
la comunità raggiunse in poco tempo i 1600 cittadini. Si può vivere
senza denaro e il popolo di Nomadelfia era lì a dimostrarlo.
La resa dei conti
Nel 1951, sulla comunità - presto
smantellata, ma pronta a rinascere in Maremma, nella sua sede
attuale, dove nel '49 era andato in avanscoperta un giovane
architetto di nome Danilo Dolci - e don Zeno iniziarono ad abbattersi
colpi durissimi. Era la resa dei conti. Un processo per millantato
credito, truffa, peculato, firma di assegni a vuoto lo ridurrà allo
stato laicale per anni, anche se poi verrà completamente assolto. Io
non so, scriverà all'onorevole Scelba, se lei «abbia mai pensato
che è finita una guerra e gli uomini hanno creato gli stati nella
speranza di una libertà. Non so se l'on. Scelba sappia che i Piccoli
Apostoli nel 1943 si sono buttati nella lotta per conquistare questo
diritto di libertà; e che sono stati impiccati, fucilati, sette dei
nostri, tra i quali don Monari che era sacerdote, e dei giovani di 16
e 17 anni. Non so se l'on. Scelba sappia che noi, durante il
fascismo, siamo stati combattuti e che nessuno è riuscito a
scioglierci; e che - nonostante il decreto di scioglimento della
prefettura di Modena - da quel giorno, anni dopo anno, ci siamo
trovati raddoppiati». Ma nemmeno per don Zeno la guerra era finita.
Don Zeno Saltini si spegnerà nella sua
nuova Nomadelfia, nei pressi di Grosseto, il 15 gennaio 1981. «Fê
du mucc. Fate due mucchi». Noi sappiamo in quale dei due mucchi ha
vissuto, per quale dei due mucchi ha sperato, per quale dei due ha
lottato e pagato un prezzo molto alto. Ma ne valeva la pena.
“il manifesto”, 17 agosto 2012 –
Nella serie Coni d'ombra, dedicata
ad autori e figure da ritrovare
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