Laura Pennacchi |
C'è una domanda cruciale
che si aggira negli ambiti di quella che possiamo chiamare - senza
per ora migliore specificazione — la sinistra di alternativa in
Europa e nel nostro paese. Laura Pennacchi la pone nelle prime pagine
del suo ultimo lavoro (Il soggetto dell'economia. Dalla crisi a un
nuovo modello di sviluppo, Ediesse, Roma 2015, pp. 318, euro 16,00)
con queste parole: «perché il neoliberismo - di cui gli eventi del
2007/2008 avevano sancito il fallimento sul piano teorico - si è
mostrato così resiliente nel tempo, continuando imperterrito a
informare di sé le politiche e le scelte pratiche?».
Rispondere non è facile,
eppure bisogna riconoscere che qui sta, non la, ma certamente
una delle chiavi - anche perché le porte da aprire non sono
poche - che permettono di comprendere le ragioni profonde della crisi
della società contemporanea e della sinistra in particolare.
Non c'è dubbio che
perderemmo tempo se enumerassimo le dichiarazioni, le dimostrazioni,
persino le auto confessioni che forniscono le prove di quel
fallimento. Valga una per tutti. Wolfgang Mun-chau, in una intervista
a un giornale italiano di qualche tempo fa, si dimostrava allibito
che «un economista del calibro di Mario Monti abbia potuto firmare
un trattato (quello sul Fiscal Compact) che, se applicato alla
lettera, porterà l'Italia al fallimento: ridurre al 60% il debito in
venti anni significa andare incontro a una recessione che
sottrarrebbe il 30-40% del Pil nello stesso periodo. Un disastro, e
la fine dell'euro».
Altro che «stagnazione
secolare», di cui si parla con maggiore insistenza nel dibattito
economico! Si potrebbe dire - come ha scritto altrove Fausto
Bertinotti - che il re è nudo, ma è ancora stabilmente sul trono e
continua a comandare. Almeno qui, in Europa, dove non a caso la crisi
economica e sociale è più grave e non se ne vede via d'uscita.
Crepe nella Troika
La vicenda greca
costituisce il disvelamento più clamoroso e recente, ma non l'unico,
di questa realtà. Che la condizione del paese e del popolo greci
siano peggiorate, da ogni punto di vista, ivi compreso quello della
quantità del debito, è questione che nessuno discute. Eppure
l'accordo imposto a Tsipras ribadisce, in parte anche peggiorandole e
indurendole, le stesse ricette. Ciò che non ha funzionato prima, può
farlo ora in condizioni peggiori? Evidentemente no, basta una logica
elementare ad escluderlo. Perfino il Fondo monetario internazionale
lo ribadisce, aprendo così una crepa nel monolite della Troika
(risultato non trascurabile della tenacia con cui il governo greco ha
affrontato la lunga trattativa), quando afferma che senza il taglio
del debito non c'è salvezza, perché la situazione debitoria della
Grecia è destinata a riproporsi e in modo aggravato. Eppure vi è
addirittura, e non solo a destra, chi esalta la lungimiranza presunta
di Schaeuble perché ha posto la Grecia di fronte all'aut aut:
o fuori dall'euro (per un po', ma preferibilmente per sempre) o
accetti queste condizioni. Lo stesso documento dei cinque presidenti
reso noto a fine giugno, firmato da Djisse-lbloem, da Draghi, da
Juncker, da Tusk, da Schulz e giudicato irritante persino da un uomo
come Fabrizio Saccomanni ex ministro ed ex direttore generale di
Bankitalia, ribadisce una linea di galleggiamento della Ue che sconta
l'abbandono possibile dei paesi in difficoltà, pur di non rimuovere
le politiche neoliberiste del rigore.
Come si vede, sempre in
questa vicenda, grandi sono le responsabilità della socialdemocrazia
europea - anche se per fortuna non vi è un comportamento omogeneo in
tutti i paesi — quella tedesca in prima fila. Il paragone con il
voto dei crediti di guerra è certamente forzato, come lo sono tutti
i parallelismi storici, ma è quello che più si avvicina per gravità
all'attuale comportamento socialdemocratico impegnato a sostenere la
politica del rigore, a volte scavalcando a destra i suoi propugnatori
come ha fatto Gabriel nei confronti della stessa Merkel. Eppure non
si potrebbe rispondere alla domanda di cui sopra, e infatti l'autrice
non lo fa, semplicemente sostenendo che il neoliberismo ha trovato
solidi alleati da un lato e il ventre ancora troppo molle della
sinistra antagonista dall'altro e che ciò sarebbe sufficiente per
spiegare la sua buona salute e la sua sopravvivenza ai propri
disastri economici e politici.
Il concorso delle
discipline
Laura Pennacchi tenta con
questo suo più recente lavoro un percorso ambizioso. Considerando
troppo angusti i confini della «scienza triste» per spiegare la
situazione e tracciare delle nuove terapie, vuole mettere in campo
una affascinante multidisciplinarietà per aggredire e destrutturare
le basi della dottrina economica dominante. Ecco quindi che la
ricerca non si limita al campo delle teorie economiche, ma attraversa
anche quelli della filosofia, dell'antropologia, della sociologia.
Questo rappresenta una
nuova sfida per l'autrice, un elemento di novità rilevante,
perlomeno in queste dimensioni, rispetto a precedenti lavori e
certamente un fattore di particolare godimento intellettuale per il
lettore. Infatti sta qui forse il maggiore valore del libro. Cercare
di riunificare mentalmente e metodologicamente le settorialità e le
specializzazioni del sapere è una precondizione indispensabile per
stroncare il pensiero unico, per ricostruire una critica
dell'economia politica all'altezza dei tempi, per fare rinascere una
cultura di sinistra.
Ne nasce un percorso di
scrittura nel quale l'erudizione e la formidabile ampiezza dei
puntuali riferimenti ad altre autrici e autori non sono mai ostentati
- come purtroppo spesso capita ad altri — ma funzionali alla
costruzione di un discorso. Non tutti i giudizi che l'autrice dà
sulle opere altrui sono perfettamente condivisibili. Alcuni sembrano
un po' troppo tranchant. Per esempio sui lavori di Dardot e
Laval che meriterebbero una più accurata disamina e non sono
accostabili in tutto e per tutto a certe semplificazioni che
circolano abbondantemente sul tema del «comune».
Questo percorso, partendo
dalla analisi delle principali componenti del neoliberismo,
individuate nella finanziarizzazione, nella mercificazione (anche se
l'autrice preferisce il termine inglese commodification),
nella denormativizzazione, ci conduce fino alla proposta di un nuovo
modello di sviluppo fondato su un neoumanesimo che sconfigge la
dimensione mutilata e alienata dell'homo oeconomicus. Su tutti
questi tre lati gli argomenti portati sollecitano riflessioni
importanti.
In particolare,
meriterebbe un approfondimento il tema della «denormatizzazione»,
su cui del resto i giuristi sono da tempo impegnati. In realtà non
siamo solo di fronte ad un abbattimento di regole e norme
appartenenti alla seconda metà dello scorso secolo, ma anche — e
soprattutto nell'ultima fase — ad una pericolosa
«rinormativizzazione» secondo i principi della più pura
a-democrazia. Nel caso europeo questo è molto evidente.
La politica
insidiosa
Da diverso tempo a questa
parte la Ue si è data, attraverso un percorso produttivo di nuove
norme e trattati, come il già citato fiscal compact, un
robusto e complesso sistema di governance. Questo sistema
detta nuove norme agli stati membri, fino a modificare le loro
Costituzioni in punti rilevanti. Come nel caso italiano ove la
modifica dell'articolo 81 ha introdotto il pareggio di bilancio in
Costituzione. Dire oggi, come purtroppo non è infrequente udire
anche in discorsi altolocati quanto vuoti, che all'Europa mancherebbe
un governo, è una pura sciocchezza. Come anche dire che l'Europa è
governata solo dalle leggi dell'economia e che la politica è fuori
dalla porta. La politica democratica certamente, ma non la politica
tout court.
Mario Draghi, in un
discorso tenuto all'Università di Helsinki, nel novembre del 2014,
affermava che: «una diffusa erronea concezione sull'Unione Europea -
e la zona euro - è che esse siano unioni economiche senza una
sottostante unione politica. Ciò riflette un profondo equivoco di
cosa significhi unione economica: essa è per sua natura politica».
Egli ci ricorda una verità sostanziale, curvandola però al suo
punto di vista: che il capitalismo, anche nella sua versione più
dichiaratamente liberista, non esiste - e non è mai esistito
aggiungono gli storici dell'economia come Marc Bloch — senza il
supporto dello Stato. Il percorso fin qui fatto dall'Europa è stato
solo apparentemente puramente economico. È vero che si è cominciato
dal carbone e dall'acciaio. Ma, appunto, quella era economia reale,
da cui muoveva un certo tipo di governance politica. Ora siamo
dentro un'economia dominata dalla finanza e la sua governance
politica è imperscrutabile e impermeabile al volere popolare quanto
lo sono le sue istituzioni economiche. Ma non per questo non esiste.
Un mondo di
interessi
Le cose non vanno meglio
se si esce dal nostro continente. Grazie all'apporto dei voti
socialdemocratici ha fatto altri passi in avanti il famigerato Ttip,
l'accordo «commerciale» tra Usa e Ue. Al suo interno è prevista la
possibilità che le multinazionali facciano ricorso contro stati o
enti locali se questi attuano provvedimenti che possono limitare la
vendita dei loro prodotti o essere considerati lesivi della loro
libertà commerciale. La questione non verrebbe risolta nei tribunali
ma in sede extragiudiziale, tramite una cupola di superesperti
chiamati a dirimere il contenzioso. Si deregolamenta e si
annichilisce il ruolo della giustizia e delle sue proprie sedi da un
lato; dall'altro si costruisce un'impalcatura totalmente estranea
alle logiche democratiche e coerente con la supremazia degli
interessi dell'impresa identificati come interesse generale non della
nazione ma di un intero continente e sistema mondo.
Per questa ragione la
risposta non può che essere politica, ma non politicista. Deve
contenere una proposta di nuovo modello di sviluppo e una nuova e
coerente idea di democrazia, di società, di persona. È vero, la
terminologia - nuovo modello di sviluppo — qui usata è un po'
d'antan. Le parole sono consumate, come i sassi di Gino Paoli,
dal tempo e soprattutto dal pessimo uso fattone. Ma non vi è altro
termine più preciso, perlomeno non ancora, per indicare che non solo
di distribuzione della ricchezza esistente bisogna occuparsi, anche
se con criteri innovativi e trasformativi degli attuali assetti, come
nel caso del basic income, ma soprattutto di radicale
modificazione degli oggetti, delle finalità e delle modalità della
produzione.
Dalla crisi più lunga di
sempre non si esce rilanciando vecchi modelli produttivi, ma con una
rivoluzione strutturale che indirizzi la produzione verso la
soddisfazione dei bisogni basici e maturi delle popolazioni. Con un
ruolo fondamentale del pubblico.
Se alcuni prevedono una
ripresa senza lavoro, la nuova sinistra non può accettare l'idea di
una jobless society. Il tema della ricerca della piena e buona
occupazione va quindi ripensato, ma non espunto. La
risoggettivizzazione dell'agente economico — per usare le parole di
Laura Pennacchi -, la ricostruzione del nuovo soggetto dell'economia
non possono avvenire senza una rivalorizzazione del lavoro in tutte
le sue antiche e più moderne forme. Il capitalismo ha mostrato nella
sua lunga storia di avere diverse facce. È dunque «riformabile»,
ma all'interno del suoi confini e ai suoi fini riproduttivi. Il suo
superamento, la trasformazione, non può avvenire senza soggetti
forti, resistenti alla sua camicia di forza.
“il manifesto”,
30.07.2015
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