Walter Elias Disney è
morto vent’anni fa, il 15 dicembre 1966, a Burbank, California. Gli
anniversari sono peggio dei necrologi, ma in pochi casi s’impongono
come dei compleanni. Allora ricominciamo da capo, e diciamo che
Walter Elias Disney è nato il 5 dicembre 1901 al numero 1249 di
Tripp Avenue, Chicago, in una piccola casa di legno come se ne
trovano tante nella periferia delle città del Middle West. E da
allora ha continuato a vivere.
Il fatto è che Walt
Disney non è un genio individuale né rappresenta uno stile del
cartone animato, né trent’anni di cinema americano, come spesso si
dice. Disney è una wonderland, un paese delle meraviglie, che
ad alcuni appare come una terra da non visitare mai. Quello che lo
interessò, comunque, non fu nient’altro che «un effetto di
generazione e produzione complessiva di un mondo, di una wonderland:
il semplice fatto di trovarsi in esso produrrà altri effetti»
(Enrico Ghezzi).
Ma Disney non abita solo
a Disneyland (a Wonderland, appunto) in California o a Disneyworld in
Florida e nemmeno nei fotogrammi dei suoi film che ogni sette anni
tornano sugli schermi. La sua presenza corre parallela al mondo
reale, ma non è il mondo della fantasia.
L’innesto dell’uomo
nella specie animale, vegetale e nella macchina ha generato una
specie a sé, a cui le immagini della nostra epoca fanno
continuamente riferimento. La mutazione che domina il mondo dei
giocattoli e quella delle bio-tecnologie è tutta dentro la
wonderland di Disney.
Ed è propria questa sua
quasi ripugnante capacità di trasformare la vita a non piacere a
molti, a Kracauer per esempio che scopre in Disney non la sua
vocazione per il cinema fantastico, cosa che gli permetterebbe di
liquidarlo subito, ma la sua pretesa di creare qualcosa di «veramente
esistente». Per Kracauer i suoi «non sono tanto disegni portati
alla vita, quanto vita riprodotta coi disegni... L’impossibile ha
ora l’aspetto d’un qualsiasi oggetto naturale».
Disney inquadra la sua
natura finta — dice ancora Kracauer - «come inquadrerebbe quella
reale, ora spostando la macchina da presa su un’enorme folla, ora
piombando su un aspetto singolo. Gli effetti così ottenuti ci fanno
di quando in quando dimenticare che la folla e il volto singolo sono
nati su un tavolo da disegno, e che sarebbe stato possibile
fotografarli».
E’
«l’impossibile-plausibile» disneyano che irrita anche un suo
ammiratore, Ejzenstejn: «il Disney a colori non mi piace».
Ejzenstejn racconta di aver visto gli schizzi per Barbi e di averli
trovati molto più belli di quelli cinematografici, in quanto non
decisi, ma «colorati a macchie con un pennello morbido» nello stile
della pittura cinese. Bambi, scrive, funziona benissimo sul piano
grafico, ma «perché fosse realizzato in senso pienamente lirico,
sarebbe stato senz’altro preferibile questo tipo di disegno», di
colore «irreale» appunto. Ma non era il lirismo a interessare
Disney.
E’ divertente scoprire
tutte le osservazioni di diversi autori che, in totale contraddizione
l’uno con l’altro, contribuiscono a rafforzare l’idea che la
wonderland Disney come l’E.T. di Spielberg, esista davvero.
Persino nei documentari,
quindi senza il ricorso al cartone animato, Disney riesce a
trasformare la natura, come ha notato Edgar Morin: «Il significato
di Il deserto che vive è interamente fabbricato dalla musica:
il film mostra immagini di aggressioni di lotta ad oltranza per la
vita, di fame e desolazione... ma la vita diventa un gran gioco
allegrotto, una Silly Simphony naturalistica...» Musica e montaggio
producono un effetto, secondo Morin, che «tradisce la verità delle
immagini per assoggettarla a una filosofia emolliente».
Al contrario c’è chi
non trova affatto sdolcinate le creature disneyane come Enzo Ungari,
secondo cui la bestia non perde la sua matrice animale per assumere
quella umana, perciò affettuosa e domestica: «Topolino — scrive
Ungari — esprime la rivincita della macchina... Topolino non è
solo l’uomo meccanico (efficiente, rapido, economo); è la macchina
che lo produce. Il suo parente più prossimo non è l’uomo
qualunque, ma Robby il Robot».
La mutazione comprende
adesso, oltre all’animale e all’uomo anche l’elemento
tecnologico, proprio come nei «Masters», i giocattoli trasformabili
dei bambini di oggi, quelli costruiti con protesi animali, umane e
meccaniche.
Il mondo parallelo di
Disney ha anticipato ed è andato oltre «Quello che non accade mai»
è accaduto.
Al contrario di quelli di
La Fontaine, gli animali Disney, non alludono all’animo umano e già
nell’aspetto non assomigliano più a lepri, topi, orsi, tartarughe:
«Tutta questa fauna — scrive Oreste De Fornari — risulta
paradossalmente più verosimile sia degli attori nei film di finzione
(i quali recitano una parte, imitano un carattere) sia degli animali
nei documentari. Non ci troviamo di fronte alla copia di un modello
reale, bensì a creature del tutto nuove».
Ma a cosa ci servono
queste creature del tutto nuove? Come nel mondo dei nuovi giocattoli,
l’uomo ha un posto secondario. L’immaginario pensa l’Uomo. I
«mostri» evocano l’uomo. L’America lo sa forse da prima di
Disney, e ha edificato sul suo territorio una miriade di altri mondi
di cartapesta, tanto da aver invertito la percentuale tra ciò che è
naturale e ciò che è finzione.
Probabilmente Disney non
è altro che il cinema, la televisione, è ciò che si vedrà
puntando l’obiettivo in orbita sullo shuttle. Spielberg si
era prenotato per primo tra i cineasti di Hollywood impazienti di
girare un controcampo sulla terra, ma, con grande piacere di chi non
sopporta che l’umanità perda il suo punto di vista sull’universo,
la navicella spaziale è esplosa ritardando di anni il film girato
dalla parte delle stelle.
“il manifesto”, 15
dicembre 1986
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