14.9.15

Il fabbricante di Natura. Walt Disney 20 anni dopo (Mariuccia Ciotta)

Walter Elias Disney è morto vent’anni fa, il 15 dicembre 1966, a Burbank, California. Gli anniversari sono peggio dei necrologi, ma in pochi casi s’impongono come dei compleanni. Allora ricominciamo da capo, e diciamo che Walter Elias Disney è nato il 5 dicembre 1901 al numero 1249 di Tripp Avenue, Chicago, in una piccola casa di legno come se ne trovano tante nella periferia delle città del Middle West. E da allora ha continuato a vivere.

Il fatto è che Walt Disney non è un genio individuale né rappresenta uno stile del cartone animato, né trent’anni di cinema americano, come spesso si dice. Disney è una wonderland, un paese delle meraviglie, che ad alcuni appare come una terra da non visitare mai. Quello che lo interessò, comunque, non fu nient’altro che «un effetto di generazione e produzione complessiva di un mondo, di una wonderland: il semplice fatto di trovarsi in esso produrrà altri effetti» (Enrico Ghezzi).
Ma Disney non abita solo a Disneyland (a Wonderland, appunto) in California o a Disneyworld in Florida e nemmeno nei fotogrammi dei suoi film che ogni sette anni tornano sugli schermi. La sua presenza corre parallela al mondo reale, ma non è il mondo della fantasia.
L’innesto dell’uomo nella specie animale, vegetale e nella macchina ha generato una specie a sé, a cui le immagini della nostra epoca fanno continuamente riferimento. La mutazione che domina il mondo dei giocattoli e quella delle bio-tecnologie è tutta dentro la wonderland di Disney.
Ed è propria questa sua quasi ripugnante capacità di trasformare la vita a non piacere a molti, a Kracauer per esempio che scopre in Disney non la sua vocazione per il cinema fantastico, cosa che gli permetterebbe di liquidarlo subito, ma la sua pretesa di creare qualcosa di «veramente esistente». Per Kracauer i suoi «non sono tanto disegni portati alla vita, quanto vita riprodotta coi disegni... L’impossibile ha ora l’aspetto d’un qualsiasi oggetto naturale».
Disney inquadra la sua natura finta — dice ancora Kracauer - «come inquadrerebbe quella reale, ora spostando la macchina da presa su un’enorme folla, ora piombando su un aspetto singolo. Gli effetti così ottenuti ci fanno di quando in quando dimenticare che la folla e il volto singolo sono nati su un tavolo da disegno, e che sarebbe stato possibile fotografarli».
E’ «l’impossibile-plausibile» disneyano che irrita anche un suo ammiratore, Ejzenstejn: «il Disney a colori non mi piace». Ejzenstejn racconta di aver visto gli schizzi per Barbi e di averli trovati molto più belli di quelli cinematografici, in quanto non decisi, ma «colorati a macchie con un pennello morbido» nello stile della pittura cinese. Bambi, scrive, funziona benissimo sul piano grafico, ma «perché fosse realizzato in senso pienamente lirico, sarebbe stato senz’altro preferibile questo tipo di disegno», di colore «irreale» appunto. Ma non era il lirismo a interessare Disney.
E’ divertente scoprire tutte le osservazioni di diversi autori che, in totale contraddizione l’uno con l’altro, contribuiscono a rafforzare l’idea che la wonderland Disney come l’E.T. di Spielberg, esista davvero.
Persino nei documentari, quindi senza il ricorso al cartone animato, Disney riesce a trasformare la natura, come ha notato Edgar Morin: «Il significato di Il deserto che vive è interamente fabbricato dalla musica: il film mostra immagini di aggressioni di lotta ad oltranza per la vita, di fame e desolazione... ma la vita diventa un gran gioco allegrotto, una Silly Simphony naturalistica...» Musica e montaggio producono un effetto, secondo Morin, che «tradisce la verità delle immagini per assoggettarla a una filosofia emolliente».
Al contrario c’è chi non trova affatto sdolcinate le creature disneyane come Enzo Ungari, secondo cui la bestia non perde la sua matrice animale per assumere quella umana, perciò affettuosa e domestica: «Topolino — scrive Ungari — esprime la rivincita della macchina... Topolino non è solo l’uomo meccanico (efficiente, rapido, economo); è la macchina che lo produce. Il suo parente più prossimo non è l’uomo qualunque, ma Robby il Robot».
La mutazione comprende adesso, oltre all’animale e all’uomo anche l’elemento tecnologico, proprio come nei «Masters», i giocattoli trasformabili dei bambini di oggi, quelli costruiti con protesi animali, umane e meccaniche.
Il mondo parallelo di Disney ha anticipato ed è andato oltre «Quello che non accade mai» è accaduto.
Al contrario di quelli di La Fontaine, gli animali Disney, non alludono all’animo umano e già nell’aspetto non assomigliano più a lepri, topi, orsi, tartarughe: «Tutta questa fauna — scrive Oreste De Fornari — risulta paradossalmente più verosimile sia degli attori nei film di finzione (i quali recitano una parte, imitano un carattere) sia degli animali nei documentari. Non ci troviamo di fronte alla copia di un modello reale, bensì a creature del tutto nuove».
Ma a cosa ci servono queste creature del tutto nuove? Come nel mondo dei nuovi giocattoli, l’uomo ha un posto secondario. L’immaginario pensa l’Uomo. I «mostri» evocano l’uomo. L’America lo sa forse da prima di Disney, e ha edificato sul suo territorio una miriade di altri mondi di cartapesta, tanto da aver invertito la percentuale tra ciò che è naturale e ciò che è finzione.
Probabilmente Disney non è altro che il cinema, la televisione, è ciò che si vedrà puntando l’obiettivo in orbita sullo shuttle. Spielberg si era prenotato per primo tra i cineasti di Hollywood impazienti di girare un controcampo sulla terra, ma, con grande piacere di chi non sopporta che l’umanità perda il suo punto di vista sull’universo, la navicella spaziale è esplosa ritardando di anni il film girato dalla parte delle stelle.


“il manifesto”, 15 dicembre 1986

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