Parma - La fontana Trianon nel Parco Ducale |
Nella elegante premessa
ai due riccamente illustrati e tipograficamente inventivi volumi in
cui è stata racchiusa, con utilissimi aggiornamenti, la traduzione
di un libro (Henri Bèdarida, Parma e la Francia 1748-1789,
editore Franco Maria Ricci, pagg. 516, lire 320.000), che risale al
1928 ma rimane insuperato sull'argomento, Giorgio Cusatelli apre il
discorso con una quasi citazione-omaggio al nostro caro Calvino. "Se
un mattino di primavera, volgendo gli Anni Venti alla foce, un
viaggiatore...".
Questo viaggiatore poteva
essere appunto Bèdarida, o Valèry Larbaud: due francesi molto
dissimili, l' uno strenuo studioso comparatista della scuola di Paul
Hazard, l' altro narratore, poeta e lettore finto dilettante di tante
letterature, discretissimo protagonista di tante avventure nella
"vana fatica di vedere paesi diversi". L'uno e l'altro
erano in visita a una Parma un po' modesta, rispetto a quando essa fu
detta, appunto fra il 1748 e il 1789, l' Atene d'Italia o Crisopoli.
La città, sotto Carlo III (presto trasferitosi a Napoli, portandosi
via il meglio della quadreria Farnese), Don Filippo e Don Ferdinando
di Borbone, era arrivata a quarantacinquemila abitanti quando,
mettiamo, Torino ne contava settantacinquemila; possedeva teatri dove
le novità di Voltaire venivano rappresentate a un mese di distanza
dalla prima parigina; i sottoscrittori alla Grande Encyclopèdie
di Diderot si contavano più numerosi che in qualsiasi città
italiana, e fra essi nobili, borghesi, ma anche ecclesiastici
illuminati; la Stamperia Ducale era diretta dal più gran tipografo
di tutti i tempi, Gianbattista Bodoni; i principini li istruiva
Condillac, "nouveau philosophe" di grido... Si
potrebbe continuare.
Bene. Il viaggiatore
Bèdarida, quel mattino di primavera, recava certo con sé una copia
fresca del suo libro, di così folta erudizione e di così
appassionata simpatia per quel tempo lontano, specie per il suo eroe,
il primo ministro Dutillot. Lo portava all'archivista di Stato Don
Ercole Drei, prete romagnolo di spirito volterriano e di grande
umanità, che aveva accolto nei freddi stanzoni della Pilotta per
mesi, anni, il giovane studioso francese, accanito nello scavare fra
le carte ammuffite e ora in grado di portargli il bellissimo frutto
delle sue ricerche. Non ci si rimproveri se divaghiamo (lasciateci
impunito questo vizio); torniamo un istante all'altro viaggiatore,
del resto ricordato da Cusatelli, Valèry Larbaud. Che, presentatosi
a Don Drei con una lettera di raccomandazione di un erede di quei
prìncipi che regnarono a Parma nella seconda metà del Settecento,
Don Sisto di Borbone, non scandalizzò il malizioso archivista per la
fatuità delle sue indagini: per esempio quante parrucche, cosmetici
e profumi s'importavano allora dalla Francia. Di simili apparenti
frivolezze dà notizia lo stesso Bèdarida, ed è questo un altro
tratto per cui il suo libro è oggi ancora così vivo, così in
anticipo sugli storici moderni. Magari un po' stupì il nostro Don
Drei l'aria di fattore di campagna che aveva l' amico di Don Sisto;
forse egli non sospettò che si trattava della mascheratura di uno
degli uomini più ricchi, eleganti e intelligenti d'Europa.
Il terzo viaggiatore che
avrebbe potuto visitare Parma, ma alcuni anni avanti, era Marcel
Proust, che metteva la città, in coppia con Venezia, fra quelle che
più avrebbe desiderato vedere. Non vi riuscì, pazienza. Quel suo
desiderio inappagato è però, nelle poeticissime righe in cui venne
espresso, emblematico del legame dei francesi con Parma,
fantasticamente sublimato in quella grande fiction stendhaliana
che è La Certosa di Parma. Il mezzo secolo di cui il libro di
Bèdarida tratta vede il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, negli
ultimi anni farnesiani immiserito economicamente e declassato
culturalmente, rinascere e prosperare à la française nel
segno della civiltà dei lumi. Parma e la Francia dà del
periodo un grande quadro d'insieme senza trascurare i particolari,
apparentemente minori, minimi, e tuttavia degni di memoria perché
sempre, a ben guardare, significativi. Fra l'altro, fortunatamente,
il quarantennio studiato e fatto rivivere dinanzi ai nostri occhi (le
illustrazioni, dalle panoramiche cerimoniali dello Spolverini ai
biglietti da visita di purezza tipografica eccelsa dell'officina
bodoniana, aiutando) non vede Parma implicata in eventi bellici o
politici di rilievo. Bèdarida così può dedicarsi a raccontare,
documentando sempre tutto con scrupolo estremo, la vita fervida del
piccolo Stato, magari più per quel che riguarda la Corte e i suoi
immediati dintorni sociali che non i borghi miseri, gramigna fatale
delle città, e le campagne non floride, ma in via di svilupparsi
secondo nuovi, moderni e redditizi - almeno per i padroni - metodi di
coltivazione. È anche vero, però, che avviando giovani,
necessariamente reclutati nelle leve popolari, all'apprendistato
nell'ebanisteria, nella fonderia e cesello dei metalli e nella
tintura della seta, facendo venire, per istruirli, i maestri francesi
e spedendo i più bravi in viaggio d'istruzione a Parigi, Dutillot
favoriva concretamente le classi inferiori. Nasceva in quegli anni il
mobile di cosiddetto stile parmigiano, meno lussuoso nei legni e nei
bronzi di quello parigino da cui traeva il modello, ma, come dire,
più umano, tale da viverci insieme con tanta più confidenza.
Gli esiti di
quell'educazione al lavoro elegante e ben fatto hanno durato a Parma
sino a ieri, forse durano ancora. Sino a quando? In campo culturale,
giusta i suoi gusti e le esigenze della Corte, specie di Babette, la
duchessa (non dimentichiamolo, figlia di Luigi XV), che voleva a
Parma non annoiarsi troppo, Dutillot curò soprattutto il teatro, in
prosa e in musica. C'erano stati precedenti nei tempi farnesiani, dal
gran teatro, dal Colosseo in legno della Pilotta, alla
rappresentazione all'aperto che fu la decapitazione dei feudatari,
che sarebbe piaciuta ad Antonin Artaud e forse agli elisabettiani
minori; e ci fu il seguito nell'ardente stagione romantica sino al
culmine verdiano. L'ultimo dei Borboni, un secolo dopo Don Filippo e
Don Ferdinando, Carlo II, viene pugnalato, ed è puro melodramma
ottocentesco, mentre sta ammirando, affacciata a un balconcino, una
graziosa ballerina del teatro ducale. Così il destino teatrale di
Parma riceve dalla storia una conferma stupenda.
Per finire col teatro:
leggo in Bèdarida che nel Collegio dei Nobili, oggi Convitto
Nazionale Maria Luigia, i giovani recitavano in francese Racine,
Corneille, Voltaire. Fra quei giovani, venuti ad educarsi a Parma
dalla civilissima Lombardia, si trovavano Cesare Beccaria e Pietro
Verri.
Altro campo fervido di
scambi fra Parigi e Parma fu allora quello delle arti,
dall'architettura alla scultura alla pittura, per le quali venne
creata un' Accademia di fama europea, forse, scusate il bisticcio,
appena un po' troppo accademica se a un concorso classificò soltanto
secondo il grande Goya. Ma, mentre in scultura e pittura, salvo il
bravo Boudard, cui si devono ninfe e sileni del Giardino Ducale che
nel marmo traducono le voluttuose carni dei Boucher e Fragonard (a
loro volta, d'altra parte, sempre in debito verso il divino
Correggio), i francesi non esportano in Parma un maestro di grande
levatura, inviandoci Petitot ridanno vita all'architettura, alla
decorazione, insomma allo stile della città.
Con genialità e grazia
Petitot contribuisce al passaggio dal Luigi XV al Luigi XVI,
ispirandosi alla classicità greca e romana, ma senza perdere la
levità un po' ironica della sua personalità settecentesca. Lo
dimostra la singolare cartella dei disegni da lui dedicata a Dutillot
e intitolata Mascarade à la Grecque. Dove vivandiere e
monaci, pastori e granatieri e sacerdotesse, sposi e spose, sono
costruiti con frammenti di colonne, capitelli e altri elementi
architettonici antichi. Il campionario di figure chiude con un
autoritratto di Petitot stesso su uno sfondo di colonne (e non manca
una piramide, forse la Cestia): il titolo è Auteur à la Grecque.
Se opere sue come il Palazzo del Governatore, la chiesa di San
Pietro, il Casinetto dello Stradone fanno sì che a Parma ci si
ricordi di lui, la mancata realizzazione del suo progetto
straordinario per il nuovo palazzo ducale ha privato Parma di
un'opera unica, che poteva anche più autorevolmente porla fra le
capitali europee dell'arte e del gusto settecenteschi. A consolarci
resta il Parco Ducale, che viene da un suo armonioso progetto di
viali, boschetti, praticelli interrotti da meravigliosi vasi, in cui
la fantasia e la misura, le invenzioni e l'ordine si fondono in
maniera suprema.
Su questo, e su tanto,
tanto altro ci istruisce il libro di Bèdarida riguardante quegli
anni francesi di Parma che hanno lasciato un' impronta durevole sulla
città e sui cittadini; i quali forse, con una punta di snobismo, non
si scordano mai d'appartenere a una "petite capitale
d'autrefois" e continuano a tenere ancora a quella cosa in via
d' estinzione che è l'eleganza del vestire e del vivere.
“la Repubblica”, 5
gennaio 1986
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