Emilie du Chatelet |
«La ricerca delle verità
astratte e speculative, dei principi e degli assiomi nelle scienze,
nulla di ciò che tende a generalizzare le idee è di competenza
delle donne. Tutti i loro studi devono riportarsi alla pratica: sta a
loro applicare i principi che l’uomo ha scoperti, come sta a loro
di fare le osservazioni che conducono l’uomo a stabilire dei
principi». Una tale affermazione, dovuta a Jean Jacques Rousseau,
non è che una delle molte, gratuite e assai ideologiche
giustificazioni che, nel corso dei secoli, il mondo della cultura
maschile ha usato per tenere ben chiusa la porta alle donne. Una
discriminazione robusta ed efficace se la gloriosa École
Polytecnique di Parigi, fondata nel lontanissimo 1794, solo nel 1972
ha aperto le iscrizioni alle donne. Ma una discriminazione anche
assai «convincente», fatta propria persino da alcune donne di
scienza emancipate. È il caso, ad esempio, dell’inglese Mary
Fairfax Somerville (1780-1872) che diceva di sé: «sono perseverante
e intelligente ma non geniale, quella scintilla del cielo non è
concessa al mio sesso, noi apparteniamo alla terra, siamo terrene».
Mary era femminista,
politicamente spregiudicata, intellettualmente vivacissima. A lei si
devono alcuni libri di scienza importanti tra cui un famoso Physical
Science, che conobbe una decina di edizioni. E a lei venne
affidata la traduzione in inglese dell'ardua Meccanica Celeste
di Laplace, un’opera che non più di una dozzina di matematici in
tutta l’Inghilterra erano in grado di capire. In qualche modo si
trattava dunque di una eccezione positiva alle regole del mondo della
scienza maschile. Persino di una eccezione fortunata, come attesta il
suo amico Charles Lyell, che scrisse di lei: «Se fosse stata sposata
a Laplace o a qualche altro matematico, non avremmo mai sentito
parlare del suo lavoro. L'avrebbero inglobato in quello del marito e
diffuso come suo». Tuttavia Mary aveva in qualche modo introiettato
i giudizi alla Rousseau, pur avendo combattuto tutta la vita perché
le donne potessero avere il loro posto e la loro dignità.
Le citazioni fin qui
utilizzate provengono da un volume pubblicato di recente dagli
Editori Riuniti e dedicato appunto alle donne nella scienza, dalle
origini, ovvero dalla preistoria, fino a madame Curie: Margaret
Alic, L’eredità di Ipazia,
trad. di Daniela Minerva, Editori Riuniti. L’autrice è una
studiosa americana, Margaret Alic, specialista in biologia
molecolare, ma anche programmatrice radio di musica jazz e militante
nel movimento Scienza per il Popolo. La traduttrice, cui si
deve anche la prefazione, è Daniela Minerva, giornalista e piacevole
divulgatrice scientifica.
Il volume può essere
letto indignandosi per le molte affermazioni ignoranti e per le
costanti discriminazioni e resistenze che la scienza ufficiale oppose
alla partecipazione delle donne. Come non saltare sulla sedia, ad
esempio, leggendo questa frase del famoso commediografo Artur
Strindberg: «Una femmina professore di matematica è un fenomeno
pernicioso e sgradevole, persino si potrebbe dire una mostruosità; e
il fatto che sia stata invitata in un paese dove ci sono così tanti
maschi matematici di gran lunga superiori può essere spiegato
soltanto con la galanteria degli svedesi verso il sesso femminile».
La brillante affermazione venne fatta in occasione della cattedra di
matematica offerta dall’università di Stoccolma a Sofja Vasilevna
Kovalevskaya (1850-1891). una russa avventurosa, una «ragazza
nichilista», e una studiosa di tutto rispetto che, pochi anni dopo,
nel 1889, avrebbe vinto il Prix Bordin messo in palio
dall’Accademia francese delle Scienze per la soluzione di un
problema di meccanica che aveva già respinto Eulero. Lagrange e
Poisson.
La chiave di lettura
indignata naturalmente è più che legittima ma forse è anche
riduttiva. Più interessante invece, tra i molti nomi e le molte
biografie di donne di scienza che l’autrice accumula, trovare
alcuni tratti distintivi e alcune forme specifiche di
discriminazione. Una di queste, poco conosciuta ma assai diffusa, è
quella dell’occultamento.
Anche chi si occupa da
anni di scienza sarà stupito, leggendo il libro di Alic, dal numero
di donne che sono state attive nei più diversi campi scientifici e
la cui presenza tutti ignoravamo: a fianco di pochi personaggi
piuttosto noti, come Marie Lavoisier e Marie Curie, ecco emergere
come collaboratrici o addirittura guide dei grandi uomini di scienza,
donne il cui nome però non è mai passato agli annali.
Si dice «monade», ad
esempio, e si pensa a Leibniz, ignorando del tutto che il filosofo
prelevò pari pari quel termine dal saggio Principles of the most
ancient and modern philosophy, che Francis von Helmont gli aveva
procurato. Sulla copertina di quel volume non compariva alcun nome,
sebbene la prefazione l’attribuisse a «una certa Contessa inglese,
una Donna dotta ben oltre il suo sesso, molto ben istruita nelle
lingue greche e latine, straordinariamente dotata in tutte le
filosofie». Era Lady Anne Finch Conway (1631-1679), una donna
dimenticata dalla storia della scienza. Ed è una dimenticanza tanto
più curiosa perché, come Alic osserva e documenta, «spesso le
donne sono state scienziate riconosciute e rispettate nella loro
epoca, ma ignorate e screditate dagli storici».
E’ piuttosto facile
immaginare gli ostacoli, le prese in giro, le barriere altissime che
tutte le donne hanno incontrato affacciandosi al mondo della scienza
(e il libro le documenta puntigliosamente: dal divieto di accesso
alle biblioteche, alla necessità di scrivere i propri saggi con
pseudonimi, alla impossibilità di seguire i corsi universitari).
Meno noto invece è il fatto che non sempre e non ovunque le donne di
scienza sono state respinte. Talora invece ricevettero crediti e
riconoscimenti dai loro contemporanei. Ma anche in questi casi,
subito dopo, veniva immancabile l’oblio, quasi a confermare che si
trattava pur sempre di eccezioni straordinarie, destinate a non far
regole, né storia.
Così il mostruoso
calcolo effettuato nel 1758 dall’osservatorio astronomico di Parigi
per determinare l’imminente passaggio della cometa di Halley è di
solito attribuito al solo Alexis Clairaut. Eppure egli stesso
scriveva, assai onestamente: «per sei mesi calcolammo dall’alba al
tramonto, talvolta persino durante i pasti. L’aiuto di M.me Lepaute
fu tale che senza di lei mai sarei stato in grado di portare a
compimento un’impresa così colossale in cui fu necessario
calcolare la distanza dalla cometa di ciascuno dei due pianeti Giove
e Saturno separatamente per ciascun grado successivo per 150 anni».
Nicole Reine Etable de la
Briere era moglie dell’orologiaio di corte, monsiuer Lepaute, e con
lui aveva condotto studi assai accurati sulle oscillazioni dei
pendoli, facendosi la fama di essere uno dei migliori «calcolatori
astronomici del tempo».
Era stato lo stesso
Clairaut a chiedere il suo aiuto, ma poco dopo negherà tutto,
rimangiandosi l’eccessiva sincerità; così, ancor oggi, in un
libro di storia della matematica appena pubblicato in italiano,
possiamo leggere che «la meccanica newtoniana e i suoi splendidi
successi in astronomia, in particolare la previsione, fatta da A. C.
Clairaut, del ritorno della cometa di Halley, con un errore inferiore
al mese, avevano notevolmente impressionato tutti gli ambienti
intellettuali europei, persino quelli di letterati come Voltaire, che
non capiva assolutamente nulla di matematica» (Jean Dieu-donnè.
L’arte dei numeri, Mondadori 1989). In una frase sola il
famoso matematico francese riesce a trascurare due donne che con la
questione di Newton e delle comete c’entrano assai: la suddetta
madame Lepaute e Gabrielle-Emilie le Tonnelier de Breteuil, marchesa
du Chatelet-Lomont, in breve Emilie du Chatelet (1706-1749), compagna
di Voltaire per lunghi anni.
Proprio a lei si deve
l’introduzione in Francia di Newton, in contrapposizione al
cartesianesimo dominante. E sotto la sua guida e ispirazione iniziò
la carriera scientifica l’astronomo Clairaut. Emilie du Chatelet
scrisse una volta a Federico di Prussia: «Giudicatemi per i miei
meriti o per le mie mancanze ma non guardatemi come una mera
appendice di questo gran generale o di quel celebre studioso, di
quella stella che brilla alla Corte di Francia o di quel famoso
autore. Io sono una persona completa a pieno titolo responsabile solo
di me stessa per tutto ciò che sono ciò che dico e ciò che
faccio». Morì di febbre puerperale mentre finiva di tradurre in
francese i Principia di Newton. Di lei Voltaire scrisse :«Fu
un grande uomo, il cui solo difetto fu di essere una donna. Una donna
che traduceva e spiegava Newton (..) in una parola, davvero un grande
uomo». Certo voleva essere un grande segno di omaggio, ma chissà se
Emilie l’avrebbe apprezzato.
“il manifesto”,
ritaglio senza data, ma 1989
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