Credo che fu Giancarlo
Pajetta ad affibbiarle quel nome: "legge truffa". Altri
sostiene che fu Piero Calamandrei. Parlo della proposta di legge
elettorale maggioritaria, che Mario Scelba, ministro degli Interni
del terzo gabinetto De Gasperi, presentò alla Camera dei deputati a
fine ottobre del 1952.
In ogni modo noi
dell'Unità ci impadronimmo di quel nome, e lo agitammo testardamente
nella lunga e durissima campagna elettorale, che si sviluppò - come
si diceva allora - "nel Parlamento e nel Paese", sino al 7
giugno del 1953, giorno del voto. E quel nome le rimase appiccicato.
Finì per diventare di uso corrente anche su giornali dello
schieramento governativo.
Era una legge che
anticipava tante cose delle omelie attuali a favore del premio di
maggioranza e contro il criterio proporzionale, a parte il fatto che
nel ricorso al criterio maggioritario essa era particolarmente
indecente: alla coalizione vincitrice (allora si usava in proposito
un termine curiosamente familistico: agli "apparentati"...)
regalava un premio di maggioranza esorbitante: se essa coalizione
raggiungeva il 50,01% dei voti si vedeva assegnati il 65% dei seggi.
Ed era un premio al tempo
stesso generoso e torbido: perché poteva portare la D.C. a superare
da sola la maggioranza assoluta dei seggi, e perché poneva una mina
sotto uno dei paletti posti a garanzia della Costituzione: la
possibilità del ricorso al referendum popolare, in caso di un
processo di revisione. E la rigidezza del sistema costituzionale era
stata una delle garanzie che consapevolmente i cattolici e la
sinistra si erano date reciprocamente in quella fine del '47, quando
già la spaccatura del mondo uscito dalla vittoria sul nazismo era in
atto.
La cosa curiosa è che
quel modulo maggioritario - esaltato e giustificato fra l'altro come
strumento per semplificare e accelerare il lavoro legislativo e di
governo - lasciava in piedi un edificio parlamentare assurdamente
barocco: due Camere con poteri assolutamente uguali e un numero di
parlamentari che ascendeva al migliaio: una selva, che portava a un
lungo, estenuante vai e vieni delle proposte di legge dall'uno
all'altro ramo del Parlamento, e quindi a tempi assurdi per
l'approvazione di una legge, oltre che a procedure e a patteggiamenti
sfibranti. Dunque, e senza dubbio, un sistema di regole pletorico, il
quale sgorgava per un lato dall'umiliazione che il Parlamento aveva
subito sotto la dittatura fascista, e per un altro verso dal
desiderio dei due schieramenti parlamentari protagonisti - il blocco
democristiano e lo schieramento socialcomunista - di assicurarsi
posizioni possibili di resistenza in caso di sconfitta.
Non basta: dalla
Democrazia cristiana si metteva mano a una modifica così pesante del
sistema istituzionale, prima ancora che esso venisse completato in
punti fondamentali. Le Regioni - così osannate oggi - dovettero
addirittura attendere gli anni Settanta per nascere, perché
democristiani e liberali per vent'anni si rifiutarono di dare altre
sedi di rappresentanza all'opposizione di sinistra, e non si presero
briga nemmeno di inventarsi un alibi.
Perchè un maggioritario così sfacciato
Ci si è chiesti: perché
la D.C., trionfatrice assoluta nel Quarantotto, approdava a una
proposta di un maggioritario così gonfio e sfacciato, quando
l'opposizione di sinistra era ancora sotto il vulnus della
sconfitta del 18 di aprile?
A questa domanda ancora
oggi non sono state date risposte valide. Una di esse, messa in campo
dalla pubblicistica cattolica, ha un sottile tanfo di ipocrisia: la
D.C. avrebbe voluto garantire margini di sicurezza ai suoi possibili
alleati (liberali e socialdemocratici essenzialmente), palesemente in
sofferenza e divisi fra di loro.
È una spiegazione troppo
gentile e generosa. E soprattutto essa non coglie la situazione nuova
ed ardente che si era determinata nel Paese dopo i grandi eventi del
'48.
Nello scontro di
quell'anno cruciale la D.C. aveva condotto una asciutta ed aspra
battaglia di chiaro segno fondamentalista, di collocazione - per così
dire - vitale: Dio e il pane, la croce e lo sfilatino americano, da
difendere contro la minaccia che premeva da Mosca, da un altro
"universo". Ed essa si era presentata in quello scontro
come lido estremo d'Occidente e punto cruciale di frontiera con il
mondo dei "senza Dio".
Certo: dentro questo
paragone tra mondi c'erano poi manipolazioni grottesche, anche bugie
elementari. E tuttavia quella assolutizzazione del confronto su beni
primordiali, guidata da De Gasperi e da un papa, aveva alla sua base
attualizzazioni stringenti e concrete come il piano Marshall e un
primo abbozzo d'Europa, avviato arditamente con il fratello tedesco
Adenauer e con il francese Schumann.
Erano una scelta di campo
e un inizio, che si lasciava alle spalle ormai il tempo
"resistenziale" e scavalcava, prima ancora che le forme
istituzionali, il progetto sociale avanzato in Costituzione.
Questa fu la grande
opzione di De Gasperi, quel leader quasi "austriaco" che
noi mettevamo in burla per il suo italiano sgrammaticato. Ed egli
vinse anche e molto per queste essenziali scelte di campo in un mondo
che si spaccava a metà (solo dopo, parecchio dopo emerse l'area che
si definiva dei "non allineati").
E tuttavia in questa
netta e si può dire "blindata" delineazione di orizzonti
politico-militari era tutta aperta e bruciante la questione del volto
sociale dell'Italia, rispetto a cui il rigore di Luigi Einaudi si era
solo limitato a rimettere in ordine i conti, mentre erano tutte
aperte, o già terreno di lotta scottanti questioni sociali.
Paradossalmente le prime
ad entrare in movimento furono le regioni del Mezzogiorno, dove la
destra aveva la sua roccaforte, ma la domanda di terra dei contadini
era antica e furente. E anche nella fascia centrale e ai bordi della
Padania dilagò la lotta, con scontri ed eccidi. A Modena furono sei
i dimostranti uccisi in piazza dalla polizia. Per capire bene quella
congiuntura, bisogna ricordare che in quell'Italia ancora stordita
dalla terribile guerra c'era un accumulo di pesanti vertenze di
classe che s'intrecciavano con le innovazioni febbrili e accelerate
che approdavano da una arena già mondiale. E insieme pesava
straordinariamente l'essere l'Italia fascia di frontiera fra i due
mondi e sede della cattolicità.
Dunque la fonte di quello
scontro non era solo la maggioranza parlamentare quadripartita che
non reggeva nei suoi bordi irrequieti (liberali e socialdemocratici).
Di sicuro in quella stretta (ma anche prima e dopo) pesò molto il
"partito romano" (per usare un termine efficace e una linea
di analisi messi in campo da Andrea Riccardi), una sorta di lobby
interna al mondo ecclesiastico, assai influente, d'orientamento
politico clerico-moderato che premeva ai fianchi De Gasperi, anche
dalle pagine autorevoli della “Civiltà cattolica” e con i
messaggi calcolati e stringenti che venivano da monsignor Tardini. Il
Vaticano era in campo, e domandava il dovuto: non solo in nome e a
tutela del principio religioso, ma per i sostegni e le forze reali
variamente collocate, in quell'Italia così ferita e oscillante del
secondo dopoguerra.
E del resto solo adesso,
al termine del secolo, cominciamo a conoscere qualcuna delle
strutture anche armate, con cui la superpotenza americana - proprio
in quei primi anni Cinquanta - definiva i suoi organismi di controllo
sull'Italia.
Questi elementi del
quadro vanno ricordati per due ragioni: 1°) perché essi - davvero
stranamente - da alcuni autori vengono addotti per giustificare (o
addirittura legittimare) l'azione di De Gasperi, stretto ai fianchi
da queste forze; 2°) per misurare la portata che aveva quella
vicenda della legge maggioritaria, e tutto l'aspro spessore politico
che assunse lo scontro di classe in Italia appena conclusa la guerra.
Furono in discussione i
modi con cui si definivano e ordinavano le soggettività sociali in
campo, il loro grado di autonomia e di relazione con il Paese e con
il potere pubblico.
La posta in gioco
Non si trattava di
decidere se e come avere un po' più o un po' meno di parlamentari,
né solo la funzionalità o meno di alcune tecniche di selezione
politica. Fu in dubbio la forma della politica. E noi avvertimmo
pesantemente che combattevamo non per qualche deputato in più o in
meno, ma sul volto e i poteri dei partiti e del Parlamento, questi
modi dell'agire politico che il movimento operaio aveva in parte
ereditato, ma anche reinventato e trasformato nel corso di un secolo.
Lo facemmo trascinati da
due impulsi: la memoria tragica di ciò che aveva significato per
l'Italia e per l'Europa prima la crisi, e poi il soffocamento di
quelle forme politiche, e la coscienza sofferta, dolorosamente
maturata del valore che la democrazia politica aveva nel processo di
emancipazione. Che poi questo facesse a pugni con lo stalinismo è
vero. Eppure qui emergeva ormai una differenza con l'U.R.S.S.,
cresciuta e depositata nei gravi anni della lotta clandestina. E fu
frettoloso e sommario pensare che noi sinistra italiana, avendo
riconquistato da pochissimo - dopo una dittatura ventennale e un
conflitto catastrofico - la forma parlamentare, la lasciassimo
franare senza una dura lotta. Ed era stupido pensare che noi
ragionassimo in modo fanciullesco sull'insurrezione (neppure Secchia
lo faceva).
Se vale una
testimonianza, e se vado ai miei pensieri di quegli anni, direi che
nella mia limitata esperienza io se mai pensavo a una possibile
insorgenza come risposta a un "progrom", all'attacco armato
che veniva dall'avversario.
E - certo - quando ci
furono De Lorenzo e il tintinnar di sciabole di cui parlò Pietro
Nenni, quell'assillo ritornava nella nostra mente. Non so dire quante
volte, in quegli anni, fui avvertito da Botteghe Oscure che per
prudenza era meglio dormire fuori casa.
In ogni modo già
nell'estate del 1952 s'incominciò a fiutare la bufera che
s'annunciava: l'8 luglio De Gasperi in una intervista al Messaggero
invocava uno "Stato forte", con un linguaggio persino
inusuale sulla sua bocca. Ho il ricordo preciso di un dialogo con
Togliatti, in cui gli chiedevo consiglio circa il modo di commentare
quell'intervista così pesante sull'Unità. Come spesso accadeva,
disse: "fate voi" (poi all'indomani mattina, se mai,
venivano i bigliettini di critica). Ma storse la bocca, non nascose
il suo pessimismo. Poche settimane dopo Scelba presentava al Senato
il disegno di legge. Cominciava lo scontro.
La mossa degasperiana in
qualche modo ci metteva con le spalle al muro. Ci costringeva ad una
lotta disperata.
Dispiace vedere uno
storico acuto come Pietro Scoppola rilanciare la lettura di un
Partito comunista italiano che ha nel suo programma - come dire? -
sostanziale, l'insurrezione e la lotta armata, e assumere a convalida
di questa lettura le amare rivolte del luglio '48, sgorgate
dall'attentato a Togliatti. Di sicuro non fu così.
In quei giorni, in quelle
ore - davvero brucianti - partecipai a tutte le riunioni del gruppo
dirigente comunista. Non ricordo che da nessuno sia stata messa in
campo la strada dell'insurrezione: neppure da Secchia. Colombi (mi
pare) fu mandato di corsa a Genova - dove i moti di protesta furono
durissimi - a spiegare che non eravamo all'ora X.
Lo sciopero generale
della C.G.I.L., guidata dal comunista Di Vittorio, fu lanciato con
molta prudenza e inchiodato sulle 48 ore; e di ciò fu data,
consapevolmente, larga informazione al governo, in momenti in cui
davvero ardevano fra le masse sdegno e collera. Ed è un po'
grossolano confondere i moti di piazza (quanti ce ne sono stati - e
dolorosissimi - in Italia!) con la rivoluzione comunista.
Anche noi giovani
d'allora, venuti al P.C.I. nella cospirazione clandestina di seconda
o terza generazione, lo sapevamo. Non a caso Togliatti nel dopoguerra
aveva speso tanti dei suoi scritti e comizi a respingere la
"prospettiva greca", quando ancora c'erano le armi nascoste
nelle case dei partigiani.
Manganellato in via del Tritone
Del resto, in quel finire del 1952, quando stava per concludersi la fase di lotta a Montecitorio, e Secchia in una discussione avanzò l'ipotesi dell'Aventino, anche quella strada fu seccamente scartata da Togliatti: non solo per i cattivi ricordi che essa evocava, ma perché noi avevamo in mente un Parlamento attivo sino all'ultimo minuto possibile, sponda sino all'ultimo alla mobilitazione delle masse; appunto: specchio e animatore della lotta nel Paese. Ambedue le cose. E la "legge truffa" era grave per noi anche e molto perché spezzava quella comunicazione.
Del resto, in quel finire del 1952, quando stava per concludersi la fase di lotta a Montecitorio, e Secchia in una discussione avanzò l'ipotesi dell'Aventino, anche quella strada fu seccamente scartata da Togliatti: non solo per i cattivi ricordi che essa evocava, ma perché noi avevamo in mente un Parlamento attivo sino all'ultimo minuto possibile, sponda sino all'ultimo alla mobilitazione delle masse; appunto: specchio e animatore della lotta nel Paese. Ambedue le cose. E la "legge truffa" era grave per noi anche e molto perché spezzava quella comunicazione.
È vero che ci fu una
resistenza e una riserva anche nell'Italia repubblicana a mettere a
tutte lettere, per iscritto, questa peculiarità
democratico-parlamentare della via italiana. Lo sperimentai io
stesso, quando venni lavorando con Togliatti alla Dichiarazione
programmatica dell'8° Congresso, e già c'era stata la demolizione
del mito di Stalin. Ma il Parlamento stava nel nostro cammino proprio
perché cercavamo, tentavamo di costruire luoghi e forme di potere
pubblico, aperti alla volontà delle masse e capaci di incidere
sull'agire dello Stato.
Questo spiega la
determinazione, ma anche la saggezza con cui fu condotta la lotta.
Fu adoperata con
ostinazione, ma anche con misura, l'arma dell'ostruzionismo. Quando
alla Camera furono chiaramente consumati gli spazi e anche le
sottigliezze consentiti da quella forma di lotta, si presentò la
domanda pesante sul che fare. E necessariamente ci si chiese se
bisognasse abbandonare quelle aule e quel palazzo: e ritirarsi
sull'Aventino, come era stato negli anni Venti di fronte alla legge
Acerbo, con cui Mussolini metteva la museruola alle Camere.
Fu Secchia che pose la
domanda se non bisognasse fare come trent'anni prima.
La risposta fu no; e non
soltanto perché quel nome - Aventino - ricordava una sconfitta
storica e Gramsci dall'Aventino era tornato solitario a battersi in
Parlamento, ma perché quella nostra lotta del'52-'53 chiaramente
puntava a una combinazione di forme di lotta, dai banchi dell'aula
parlamentare testardamente guardava ai movimenti nel Paese. Non solo
ai comizi, alle lotte di strada. Avevamo in mente la rete delle
assemblee. Non era un'invenzione del momento. Era la necessità
testarda con cui operavamo nella rete dei consigli comunali, come
nelle stanze delle case del Popolo, e nelle fabbriche in cui ancora
riuscivamo ad arrivare - insomma i luoghi e le pratiche, con cui
sperimentavamo la costruzione di un partito di massa. Tutto stava nel
filo che poteva (oppure no) stabilirsi fra l'aula parlamentare e il
territorio.
C'era in questa pratica
della politica una sottovalutazione, per non dire un oblìo della
centralità dei luoghi di lavoro? Può darsi. Anzi: ci fu anche
questo. Ma di sicuro - almeno a mio avviso - c'era una
sperimentazione della politica diffusa che testardamente mirava ad
allargare la rete degli attori in campo. E nonostante la forte
centralizzazione gerarchica che segnava il P.C.I. si dilatò
fortemente la massa degli attori che nel territorio, pressoché ogni
giorno, praticavano un agire politico: ancora dopo la giornata di
lavoro, nelle sezioni, nelle Camere del lavoro e nelle Case del
popolo, o semplicemente in piazza, fra la gente, nella semplice
relazione individuale. E fu uno dei mutamenti che trascinò anche
l'avversario al confronto pubblico, alla dilatazione dell'esperienza
e della lotta politica. In ogni modo il lungo, ma calcolato, misurato
ostruzionismo che tenne aperta la lotta in Parlamento (tra Senato e
Camera) per circa un lungo semestre appare assurdo e insensato, se
non si afferrano il suo combinarsi e il prolungarsi nel territorio.
Al voto sulla "legge truffa" il 7 giugno del '53 partecipò
quasi il 94% degli elettori. È ridicolo spiegare esiti simili solo
con la pressione esercitata dagli apparati.
Ci fu anche una certa
teatralità nelle vicende di quei giorni. Ma forse era obbligata.
Ho nitido nella mente -
come fosse ora - un episodio che mi coinvolse. Eravamo in dicembre,
al termine di una giornata convulsa alla Camera, quando ormai il
dibattito stava avviandosi verso la fine. C'era l'aria aspra e
febbrile delle giornate conclusive: l'aula di Montecitorio era
gremita come un uovo perché c'erano votazioni.
Mi chiamarono dal
giornale (dirigevo allora l'Unità): il centro della città era
presidiato dalla polizia e al Tritone c'erano stati scontri gravi con
i manifestanti. La polizia aveva picchiato selvaggiamente. Informai
di corsa Togliatti. Mi disse: va' a vedere.
Uscii. Piazza Colonna era
deserta, calata in un buio fitto, dove si scorgevano appena le sagome
delle camionette della polizia. Mi fermarono. Tirai fuori il
tesserino di deputato e proseguii.
Risalendo il Tritone
cominciarono i caroselli delle macchine dei poliziotti. Sembravano
girare a vuoto, perché sulla salita verso piazza Barberini c'era un
deserto. Salvo che ogni tanto dai vicoli irrompevano gruppi.
Lanciavano grida e si ritiravano. Come seppi dopo, non erano molti.
Già c'erano stati nei giorni passati scontri durissimi, cortei
rabbiosi. Affiorava una certa stanchezza.
Consapevoli delle deboli
forze, i compagni avevano adottato la tattica di irrompere dai vicoli
e poi ritirarsi.
La polizia era
esasperata, e quando acciuffava un manipolo picchiava selvaggiamente,
con insulti e una violenza che oggi apparirebbe impossibile, ma che
allora noi conoscevamo bene.
Al crocevia del Tritone,
proprio sotto le stanze del Messaggero, una squadra di polizia era
riuscita a stringere un piccolo nucleo di manifestanti e menava duro.
Mi intromisi protestando. A domanda, tirai fuori come risposta il
tesserino di deputato. Il poliziotto furente che mi stava di fronte
rispose con una secca randellata sulla mia testa.
Non era nulla di grave.
Ma il manganello toccò un punto del cuoio capelluto molto irrorato,
quindi il sangue veniva giù copiosamente. Tra le urla e i fischi,
mentre una compagna gentile con un fazzoletto cercava di fermare il
sangue sulla mia zucca, e stretto da un piccolo gruppo di
manifestanti, mi mossi per tornare a Montecitorio.
In aula stava parlando un
compagno: aspettai in Transatlantico che finisse, rinviando a più
tardi il medico della Camera accorso premurosamente. Poi entrai in
aula con quel fazzoletto insanguinato sulla fronte a raccontare ciò
che accadeva in quella cupa notte romana.
Questi erano i riti, i
modi anche elementari con cui tentavamo di mandare messaggi al Paese.
E per lunghi mesi ci furono masse in piazza, e nelle sale comunali,
nelle Case del Popolo, nei teatri, e anche - per quanto fu possibile
- nelle fabbriche in cui eravamo più forti.
Quella parola "legge
truffa" camminò, sfondò anche la blindatura dei giornali
borghesi. Divenne la questione, e la collera che la segnava
s'accompagnava alla convinzione che nelle urne sarebbe venuta
fatalmente per le sinistre la sconfitta: tanto più bisognava gridare
quello che accadeva. Tanto più si rinnovò una saldatura tra
comunisti e socialisti: per semplici e ineludibili ragioni di difesa,
come quasi sempre nei momenti più aspri delle tragedie del secolo.
Quanto agli alleati diciamo così borghesi (da Corbino a Piero
Calamandrei...) sbiadiva contro di loro la accusa eterna di "utili
idioti", perché il dramma parlamentare accendeva, muoveva gli
animi nel Paese.
Questo era il punto su
cui l'avversario democristiano perdeva, anche in caso di vittoria.
Tornava la stranezza dei
socialcomunisti "totalitari" che erano protagonisti su
questioni ardenti di libertà. E d'altronde che potevamo fare se non
quello che facevamo?
Nella storia da cui sono
venuto mi si sono presentate spesso azioni "ineluttabili":
e riguardo ad esse che potevamo, se non segnare una traccia, scrutare
ogni vicolo possibile, anche solo per fissare nella memoria comune
una lettura di ciò che accadeva? Insomma: conoscere, "apprendere"
meglio il mondo che avevamo la singolare presunzione di trasformare,
con un'azione che cercava insieme e sempre di diventare memoria
trasmissibile. Ed eravamo sempre e terribilmente pedagogici.
Lo scontro in Parlamento
Assistetti all'ultimo scontro in Parlamento da una tribuna del Senato, nel marzo del'53. Non fu una seduta: fu solo scontro fisico. Mentre il presidente Ruini proclamava i risultati del voto volò una tavoletta che lo colpì alla fronte.
Contemporaneamente vidi il senatore Negarville - un
compagno incline irresistibilmente alla sottigliezza ironica e ai
ragionamenti più disincantati anche sulle cose sacre del comunismo -
arrampicarsi sui bordi della tribuna presidenziale con una furia
gattesca, mentre Ruini si precipitava verso l'uscita, e l'emiciclo
bolliva. Tutto era assurdo e naturale. E del resto nessuno gridò
allo scandalo. Il tema era entrato nella mente del Paese.
Assistetti all'ultimo scontro in Parlamento da una tribuna del Senato, nel marzo del'53. Non fu una seduta: fu solo scontro fisico. Mentre il presidente Ruini proclamava i risultati del voto volò una tavoletta che lo colpì alla fronte.
Celeste Negarville |
Al 7 giugno, dopo una
frenetica campagna elettorale, votò circa il 94% degli elettori. Si
potrebbe dire: tutti gli iscritti alle liste. Era quasi incredibile.
Ho nella mente la
passione della notte tra il lunedì e il martedì, mentre si
incrociavano - con alti e bassi di delusioni e speranze - i dati che
giungevano dal Viminale e quelli che venivano dai compagni delle
federazioni e da Botteghe Oscure, dove lavorava, silenziosissimo e
preciso, Celso Ghini, un compagno che aveva vissuta la dura scuola
dell'emigrazione politica e poi (le singolari metamorfosi!) era
diventato quasi imbattibile nel vaglio e nello studio dei dati
elettorali.
Circa alle sei del
mattino del martedì 9 giugno, dopo una notte vissuta tutta al
giornale, mi recai a Botteghe Oscure, per annunciare a Togliatti che
il Partito comunista aveva varcato la soglia dei sei milioni di voti.
Togliatti, dalla cui bocca non avevo mai sentito una parola scurrile,
scattò in un gesto rivolto all'avversario, incrociando il braccio
sinistro sul braccio destro. Quel voto voleva dire un radicamento,
difficile ormai da cancellare.
Alle 10 di quel martedì
mattina ero in tipografia a preparare l'edizione straordinaria del
giornale (a me, più di tutto, mi piaceva quel lavoro dove - fra
tagli e spostamenti di righe - in dialogo con il tipografo
impaginatore, si vedeva nascere il volto vero del giornale). Sentii a
un tratto levarsi un urlo lungo nella sala. Non so chi aveva dato la
notizia delle dichiarazioni di Scelba: per 57.000 voti la "legge
truffa" non era passata.
Ci parve di sortire
finalmente dal buio tunnel del 18 aprile 1948. Ed era singolare:
mentre altrove nell'Occidente europeo era già iniziato il declino
delle formazioni comuniste, ferite dal gelo della guerra fredda, in
Italia cominciava un'avanzata che, tappa a tappa, nella seconda metà
del secolo, avrebbe portato il Partito comunista italiano al tetto
del 33-34%, quasi spalla a spalla con la Democrazia cristiana.
Il fiuto politico di Pietro Nenni
Eppure quella battaglia contro la "legge truffa", a guardarla ormai da lontano, di fatto apriva la strada del governo del Paese non a noi, ma ad una forza che sembrava in qualche modo in difficoltà, e superata dal fratello comunista: il Partito socialista. Qui stava propriamente l'immediato sugo politico.
Naturalmente il corso
delle cose non si vide subito. Anzi, tramontata malinconicamente la
stella di De Gasperi, emerse a un certo punto un fazioso governo
Scelba-Saragat, dove quella congiunzione di nomi sembrava una
riottosa chiusura: stavano insieme l'uomo degli eccidi e della messa
al bando dei socialcomunisti, e l'altra figura che nello scatenarsi
della guerra fredda aveva spezzato la solidarietà fra le forze di
sinistra sotto attacco e aveva aiutato De Gasperi nella operazione di
rottura.
Ma fu un fuoco effimero.
Consumata la stella di De Gasperi, nonostante le apparenze, con quel
voto cruciale del 7 giugno, seppure sotterraneamente, era cominciata
in effetti la marcia di avvicinamento al centrosinistra. Nenni con il
suo fiuto di consumato politico l'aveva compreso, quando ancora il
Partito socialista era sotto la direzione "morandiana",
così vicina, così amica dei comunisti.
E del resto non si
trattava solo di una combinazione di vertice, anche se in certi
momenti prese quella forma. In Italia era posta con urgenza la
questione della modernizzazione capitalistica, che riclassificava
tanti temi sul tappeto.
Nella stessa D.C.
avanzavano gli uomini nuovi, prudenti e rispettosi (fino a un certo
punto) verso lo statista trentino, ma con altre domande nella testa e
con un intreccio di sfaccettature e di storie culturali: da Fanfani a
La Pira (stretti amici, ma così diversi nelle loro escatologie),
all'enigma cauto di Moro, sino a quell'ala di mondo democristiano -
da Saraceno a Vanoni, al partigiano Mattei, alle nuove A.C.L.I. - che
nei loro linguaggi si cimentavano con l'arduo tema dei modi e della
qualità dello sviluppo nel Novecento: tutti devoti ma lontani dal
degasperismo, e in vario modo convinti che c'era - inedita - una
questione sociale con cui fare i conti: pesanti conti in un Paese
come l'Italia. E ciò non si poteva affrontare né con i moduli del
centrismo e nemmeno scontrandosi con l'anima socialista, per ciò che
essa - nel bene e nel male - rappresentava di presenza e di domanda
degli esclusi. S'era toccato con mano quanto costava l'urto tra
cattolici e socialisti nella storia d'Italia, prima di tutto nel
tragico dopoguerra del'19-'20-'21.
Quale capitalismo e come
muoversi non era chiaro né nelle parole di Moro, né in quelle di
Pietro Nenni. Ma tale era la questione. Come poi verrà affrontata
sarà un altro discorso. Nenni era l'alleato possibile. Di più la
D.C. non voleva, e forse non poteva.
Del resto nel P.C.I.
c'era una figura che dentro di sé aveva una quasi uguale
convinzione, anche se poi pronunciava con altri accenti e con altri
corollari la parola: modernizzazione capitalistica. Non a caso,
scomparso Togliatti, nel dibattito aspro che si aprì nel P.C.I. dopo
quella morte, a un certo punto Giorgio Amendola propose chiaramente
la trasfigurazione del P.C.I. in un nuovo Partito socialista,
comprensivo delle due ali. E così sovente sulle labbra di Amendola,
seppure non sempre pronunciata, tornava la parola "modernizzazione",
anche con rimbrotti a pezzi del movimento operaio che non
comprendevano i sacrifici necessari. Ma così si appannava l'idea di
una crisi di sistema (in corso o possibile) e quindi l'ipotesi e la
ricerca di una transizione, certo in termini diversi
dall'economicismo semplificante del passato. Cambiava la lettura del
movimento operaio, del suo senso. Giusto o no che fosse, entrava in
difficoltà il suo volto di soggetto storico.
In ogni modo la sconfitta
della "legge truffa" e la caduta di De Gasperi acceleravano
questo discorso, e davano nuove carte a Pietro Nenni. Quali soluzioni
egli avrebbe perseguito e con quale fortuna si sarebbe visto dopo.
Ma per il primo governo
di centrosinistra ci sarebbero voluti ancora dieci lunghi anni,
l'avvento in Vaticano di papa Roncalli, la sconfitta di Tambroni e
degli avventuristi nella D.C., e la scesa in campo, da Genova a
Torino, delle "magliette a strisce", cioè delle nuovissime
reclute entrate nelle cattedrali della fabbrica fordista a misurarsi
giovanissime con l'aspro tema del potere nell'atto lavorativo, al
livello e nelle forme a cui lo venivano modulando i saperi - alti e
cogenti - del secondo Novecento. E dunque il nuovo livello a cui
giungeva - anche nella lenta Italia - il conflitto sociale.
Mentre da noi era in
corso lo scontro sulla "legge-truffa", a Mosca il 5 marzo
moriva Giuseppe Stalin. Ricordo il titolo enorme che feci sull'Unità
per annunciare quella morte, e il lutto di tanti comunisti e
socialisti in Italia. Non immaginavamo le nuove fratture e speranze,
a cui quella morte ci avrebbe trascinato.
Cominciava la seconda
metà del Novecento, con accelerazioni incredibili. Anche l'Italia
dovette mettersi a correre.
“la rivista del
manifesto” numero 6 maggio 2000
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