«Assisto la notte
violentata. L’aria è crivellata come una trina, dalle
schioppettate degli uomini, ritratti nelle trincee come le lumache
nel loro guscio». Sono i primi versi di una poesia di Giuseppe
Ungaretti, Immagini di guerra scritta in una trincea di
Valloncello di Cima, nella zona del monte San Michele, che fu uno dei
teatri più duri della Grande Guerra, un’autentica fornace di vite
umane. «Non dire alla povera mamma che io sia morto solo», scrive,
invece, Corrado Alvaro, giovane ufficiale, che definisce le sue
poesie dal fronte «grigio-verdi», come la divisa dei militari.
Quella di «poeta
soldato» è una formula ricorrente. La Prima guerra mondiale è
certamente quella dei contadini scaraventati in un «inutile
massacro», secondo la definizione che ne dette papa Benedetto XV, il
primo conflitto di massa, la guerra della modernità. Ma è anche il
momento a cui scrittori, poeti, giornalisti, accademici, non possono
sottrarsi, perché dopo tante parole appare chiaro il "dovere"
come osservò Gaetano Salvemini.
Le trincee, il fango, il
freddo, le mitragliatrici, e soprattutto la morte di tanti
commilitoni si riveleranno il banco di prova per una generazione di
intellettuali, molti dei quali quella guerra l’avevano agognata
come forza rigeneratrice. I mesi che precedono l’ingresso
dell’Italia nel conflitto (maggio 1915) sono quelli dello scontro
dialettico tra interventisti e neutralisti, dove i primi,
inizialmente una minoranza, riescono a imporre a una nazione
titubante la partecipazione al conflitto.
«Badate», scrive in una
lettera privata Benedetto Croce a Giuseppe Prezzolini, «che la
grande maggioranza della nazione non sente la guerra; e se di quella
tedesca è stato detto (a torto) che era la guerra degli ufficiali,
questa nostra (a ragione) dovrebbe dirsi guerra dei giornalisti». E
aggiunge: «Tutti i giornalisti (e mi dispiace, anche voi!) esortano
ora a prepararsi e fare presto; ma ahimè, oportet studuisse, non
studere, come si dice ai ragazzi negligenti che vogliono superar
gli esami con la preparazione degli ultimi giorni!».
Croce, nonostante il
grande prestigio, è voce dissonante tra gli intellettuali. La
minoranza a cui piace l’intervento, è quella delle élite
culturali, delle avanguardie, che si sono formate nella stagione
delle riviste sostanziando quello che gli storici definiranno come il
primo «partito degli intellettuali». D’Annunzio e i suoi seguaci,
gli eredi del «Marzocco» del «Leonardo», «La Voce», «Il
Regno», «Lacerba», l’«Unità» di Salvemini, i futuristi e i
sindacalisti rivoluzionari.
Sono quei giovani che si
erano raccolti attorno al motto di Giovanni Amendola, il futuro
leader dell’antifascismo dell’Aventino, «L’Italia come oggi è
non ci piace». L’auspicio di una guerra assume per questi
intellettuali un significato che va ben oltre il contesto
intemazionale, il completamento del Risorgimento, la conquista di
terre irredente; le ragioni che spingono a chiedere un «lavacro di
sangue» sono la ricerca di un grande fatto dinamico nazionale,
capace di cementare lo spirito indentitario del Paese.
Giuseppe Prezzolini, il
fondatore della «Voce», è il più chiaro: «Il principale
interesse è questo che l’Italia è fatta, ma non è compiuta. E
soprattutto che l’Italia non essendosi fatta da sola aspetta
finalmente l’atto che la dimostrerà capace di fare da sé... Si
tratta di sapere se siamo una nazione».
Gaetano Salvemini, anche
lui, come Amendola, destinato a essere un fiero oppositore del
fascismo, aveva scritto: «Ma per quanto la guerra sia un fatto
orribile e odioso a causa dei milioni di ricchezza che essa distrugge
e delle migliaia di vite umane che maciulla in pochi giorni, io non
posso non riconoscere che vi sono paci più orribili e più odiose
della guerra: sono le paci che consumano a fuoco lento i popoli».
Nelle trincee, la
baldanza interventista lascerà il posto ai dubbi, alla percezione
diretta della tragicità di una guerra. Tocca a un giovane
intellettuale, Renato Serra, indicato da Croce come una delle menti
più brillanti della gioventù italiana, esprimere, meglio di altri,
questo cambiamento di umore. Serra scrive Esame di coscienza di un
letterato, un’analisi dell’io di fronte alla tragicità del
conflitto, un testo che la critica, a cominciare da Carlo Bo,
giudicherà tra i più penetranti testi sul rapporto tra guerra e
individuo. «La guerra non cambia niente», avverte Serra, «Non
migliora, non redime, non cancella; per sé sola. Non fa miracoli.
Non paga i debiti, non lava i peccati. In questo mondo, che non
conosce più la grazia. Il cuore dura fatica ad ammetterlo». A
trentuno anni, nel 1915, dopo aver concluso il suo testo, Renato
Serra morirà in combattimento sul monte Podgora, nell’Esame di
coscienza aveva citato il francese Charles Péguy, l’inventore
della rivista «Cahiers de la Quinzaine» che più di altri aveva
influenzato la generazione dei giovani scrittori italiani. Anche
Péguy muore in una trincea.
Carlo Emilio Gadda
ridefinirà se stesso alla luce della guerra, dicendosi
«poeta-filosofo-soldato» perché l’esperienza del fronte lo ha
segnato irreversibilmente come Emilio Lussu che narra il duro
conflitto sulle montagne con Un anno sull’Altipiano. Giosuè
Borsi scrive una toccante lettera alla madre e Ungaretti nota come
«quel contadino soldato si affida alla medaglia di Sant’Antonio»
sottolineando gesti comuni come il conforto della fede che si
ripetono in ogni trincea.
Ogni pagina di questi
autori è una foto capace di raccontare un universo di vite,
sentimenti, dolori. A pagare con la vita saranno in molti. E anche
coloro che sopravvivono sfatano il mito della bella guerra, romantica
ed entusiastica.
Il centenario della
Grande Guerra può essere soprattutto questo, la ricerca di una
letteratura che fu grande nella narrazione dei sentimenti e dei
fatti, lasciando pagine irripetibili.
“Il Sole 24 Ore
Domenica”, 18 gennaio 2015
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