Nadia Fusini |
«È un libro strano che vorrebbe
essere un romanzo. E’ un libro capriccioso, eccentrico, retorico,
ampolloso, a volte affascinante per le vivide descrizioni». Così un
recensore contemporaneo defini il Moby Dick di Melville
apparso nel 1851. Che Moby Dick sia un testo sui generis
non v’è dubbio. Che sia un impasto assolutamente straordinario di
ampollosità retorica e lussureggiante, selvatica bellezza, neppure.
E’ una tonalità, che la splendida traduzione di Pavese (che uscì
per Frassinelli nel 1932, ora ripresa nella recente riedizione del
romanzo - Herman Melville, Moby Dick è la Balena, trad, di
Cesare Pavese, Adelphi, 1987) perfettamente cattura.
Traduzione splendida perché riesce a
trasportare nell’italiano la tensione d’accumulo che preme sulla
lingua melvilliana, la quale procede appunto per accumulo e
stratificazione, come se Melville trovasse la specifica potenza del
suo linguaggio in una sorta di bulimia, nervosa, grazie alla quale il
suo testo s’ingrossa, perdendo forma, ma insieme acquista peso,
carne, spessore. E’ una potenza vorace, che tornerà a secoli di
distanza in Joyce: altro scrittore onnivoro, eccessivo.
È in ragione di questo procedimento
«bulimico» di assunzione del proprio materiale che possiamo
comprendere lo stile melvilliano; che è epico, e non drammatico.
Malgrado certe parti dialogiche che Melville inserisce nel romanzo, e
certe tecniche teatrali (come ad esempio: «Entra
Achab, poi Stubb», o gli asides
del capitolo XL, e XXVIII), Moby Dick rimane nella sua essenza
«un’epica in prosa sulla Baleneria», come osservò un altro
critico dell’epoca. Epico è senz'altro quel modo di Melville per
cui, se la sua lingua aspira a una «totalità», questa (per
riprendere una distinzione lukacciana) è «degli oggetti» piuttosto
che «delle azioni». La ’fantasia’ di Melville in questo
antidrammatica si scatena, o piuttosto potremmo dire l’arpiona il
segreto ideale dell’inclusione del tutto.
Ma tutto vuol dire proprio tutto, cioè
tutte le cose che ci sono, tutto lo spazio, tutti i tempi, tutte le
razze. È un sentimento di
totalità come immensità che il romanzo comunica in modo semplice e
immediato. È la vastità
geografica dei mari, gli oceani; è la profondità temporale, gli
oceani di storia che Melville attraversa con le sue citazioni, sì
che possiamo incontrare nello stesso capitolo, e perfino nella stessa
pagina, Perseo, Alessandro, Annibale, i crociati, Re, Zar, Sultani,
eroi della Bibbia, semplici esploratori dei tempi andati. È
così che si insinua nel libro, sottile, inquietante, la traccia di
una certa megalomania paranoica, come se paradossalmente Melville
incarnasse una hybris americana, presente fin dalle origini,
ma mai forte come in quegli anni della metà del secolo
diciannovesimo, quando l’America è al culmine del suo trionfante
espansionismo, forte per mare e per terra, audace nell’addomesticare
gli oceani e le praterie. L’America dovette allora sentirsi capace
di tutto: ogni frontiera recedeva di fronte ai suoi cowboys,
sia di mare che di terra.
Anche l’edipo americano pareva
risolto: la madrepatria era stata «superata», i figli erano
autonomi. Le lotte fratricide erano ancora lontane. Se mai ci fu un
momento in cui il Nuovo Mondo poteva generare la sua epica fu questo.
L’America dunque ebbe il suo Omero, e fu Melville.
Nessuno capì allora. Anni più tardi,
sarà un poeta a insegnarci a vedere. Parlando appunto di Melville,
Charles Olson dirà: «C’era in lui una spinta che lo attirava
verso l’origine delle cose, il primo giorno, il primo uomo, i mari
sconosciuti, il continente sepolto. Da questi luoghi passivi
sprigionava la sua immaginazione... Cercava l’originario. Questa
spinta gli dette il potere di trovare la parte perduta dell’America,
il presente non ancora trovato, e creare un mito, Moby Dick, per un
popolo di Ismaeli». Olson colpisce al cuore l’opera melvilliana.
Ne individua la fonte generativa: senza errore la situa
nell’attrazione verso l’origine. Il luogo statico dell’inizio
diviene così movimento e passione. L’azione, in questo «epica»
dello scrittore, è volta a «rifare» l’inizio : la scrittura è
cosmogonia, passione e ricerca dell’evento originario. Ciò che si
cerca, l'essenziale di ogni storia, sembra dire Melville, è il suo
nucleo mitico. Così si dovrà intendere la quete di Achab, la
sua feroce relazione all’enorme massa di distruzione che è
connessa per lui alla potenza bianca della materia, che la balena
incarna. Tutto per Achab si gioca in quell’incontro.
Tutto Melville vuole possedere e
comprendere nel suo libro. Fa parte della sua quete di
scrittore epico il voler ricostituire nel libro tutto il mondo, come
se il «libro» fosse il libro mastro, o il catalogo in cui ogni cosa
dovrà comparire, se esiste. Di qui lo spettro incredibilmente ricco
e vario della ciurma del Pequod, che sembra voler rappresentare tutte
le razze. Di qui la rappresentazione del mondo nell’insieme delle
sue arti e mestieri. Moby Dick in questo senso è la favola americana
del meltìng pot. Il canto delle opere e giorni dell’America
industriale, nel pieno della sua affermazione. Pare addirittura di
sentire, tra i vari suoni marini del romanzo, il rumore delle
ferrovie, dei trapani, delle mine che brillano per scavare le
miniere, dei telai meccanici, dei fili magnetici...
Perché a differenza di Omero, qui
l’epos si applica non all’età del bronzo, ai suoi riti guerrieri
e le sue cacce, ma riguarda il secolo decimonono e le sue attività.
Dell'epica Moby Dick presenta
anche un altro tratto. In esso la narrazione si struttura intorno a
due eroi: o meglio, un eroe e un anti-eroe, il proto e l’anti
agonista. Come Don Chisciotte con Sancho Panza, Enkidu e Gilgamesh,
l’azione qui è condivisa da Achab e Ismaele. In altre parole,
stanno di fronte un monomaniaco primo attore, e un duttile
deuteragonista, il quale si offre come controfigura per noi,
portatore di una condivisa trama di discorsi e valori, che tessono il
fondo, contro il quale si staglia l’Eroe per aggredirlo, ma che
tuttavia tiene, sì da rendere possibile per lui la sua stessa azione
distruttiva. Così Ismaele media tra l’Unico, e la comunità di
eguali, cui il lettore si identifica. L’opera di Ismaele nel libro
è appunto quella di offrire una misura «comune» dell’esperienza
«eccezionale», cui con Achab siamo condannati. È Ismaele, ad
esempio, che ci offre attraverso il «catalogo» una relazione non
primitiva alla Balena, come quella di Achab, che ci vorrebbe tutti
prigionieri del mito.
Lo sforzo tassonomico di Ismaele, quel
suo volerci insegnare, «illuminare», riguardo il soggetto balena, è
la libertà che egli vorrebbe donarci: perché nell’esattezza del
catalogo si possa sistematizzare l’essenza stessa, misteriosa ed
elusiva, della Balena Bianca, sì che le valenze magico-metafisiche
del mostro marino cedano a più ragionevoli conoscenze.
È così che entra nel romanzo un altro
motivo che lo struttura nel profondo, e che affiora nel modo in cui
si legano in rapporto l’aperto, flessibile, impressionabile,
ricettivo, simpatetico Ismaele e l’inflessibile Achab, feroce,
spietato.
Nell’attrazione e distanza che si
mantiene tra i due si insinua l’interrogazione segreta di Melville,
la sua intima ossessione; che cos’è la democrazia? Quale il suo
senso, la sua verità, la sua giustizia, la sua praticabilità, e
soprattutto il suo destino? È la «questione americana». Achab non
è certamente un democratico.
Per lui gli uomini sono «una folla di
inutili duplicati». Se v'è un’eguaglianza che cerca è con gli
Dei, non certo con gli uomini. Achab è un totalitario, per essenza
un dittatore, come subito Ismaele si accorge. Ismaele lo teme, e ne
subisce il carisma. Ma, è importante notarlo, l’attrazione che
sente è per l’uomo ferito, che anche è Achab, il capo segnato nel
corpo da una potenziale - o reale? - impotenza; mentre ha sguardo, e
prende distanza (appunto per guardare), per il carattere «tremendo»
di quella «centralizzazione» del potere, e per l’abuso di esso
che Achab compie, obbligando un'intera nave a condividere la sua
follia Spietato e grandioso, imponente nel suo sintomo maniacale
paranoico, Achab sfrutta e manipola gli uomini che dovrebbe guidare
in un’impresa, che dovrebbe servire la comunità umana. Perché la
caccia alla balena è lavoro volto alla produzione dell’olio che
sarà poi a sua volta impiegato a «illuminare» le città. E’
dunque in questo senso una 'quete culturale’, che Achab perverte ai
propri particolarissimi scopi di vendetta. Quella di Achab è
appetito, direbbe Hobbes, una sete di potere personale e illegittima.
Una delle domande che questo
straordinario viaggio in cerca di una balena consegna all’esistenza
di terra e cittadina della sua epoca, domanda forse rimasta ancor
oggi inevasa, è se l’America non stesse, proprio in quel giro di
anni, diventando e comportandosi come il folle capitano del Pequod.
Nel qual caso, chi come Ismaele si trovasse in essa imbarcato, come
potrà differenziarsi rispetto alla sua direzione?
“La talpa - il manifesto”, ritaglio
senza data, ma 1987
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