30.7.11

1938. I miei venti anni ai Littoriali di Palermo (Franco Fortini)

Il “Corriere della Sera” di domenica  15 maggio 1988 pubblicava in terza pagina (c’era ancora la “terza pagina”) una "memoria" di Franco Fortini. Essa rievoca i Littoriali fascisti svoltisi a Palermo 50 anni prima, nel mese di aprile. Il poeta, che ventenne vi aveva partecipato, racconta il viaggio che per l’occasione fece in alcune località della Sicilia.
Della memoria riprendo qui la prima parte, che definirei politico-esistenziale visto che colloca i torbidi vent’anni di Fortini (torbida è sovente la giovinezza) in un quadro storico determinato. 
Vi si avvertono, insieme, la difficile presa di coscienza di gruppi di giovani rispetto al fascismo e i segni di una tragedia che su tutti incombe. “Posterò” separatamente la seconda parte dell’articolo, altrettanto bella, che racconta le impressioni più propriamente “siciliane” del poeta. (S.L.L.)
Vedi http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2011/08/sicilia-1938-i-turbamenti-del-giovane.html


1.
Cinquant’anni fa ne avevo venti. Andai a uno dei convegni nazionali di universitari fascisti che ai chiamavano Littoriali. Come sede per quell’anno avevano scelto Palermo. Per un ragazzo di pochi soldi com’ero, Palermo era lontana da Firenze molto più delle ventiquattro ore di treno. Sotto gli occhi dei coetanei che si sporgevano ironici dai finestrini, partii travestito con l’uniforme del Guf  e gli stivali neri, abbracciato e baciato dai genitori come se andassi al fronte. In una vecchia agenda trovo di aver conversato fino a Roma con uno studente che veniva da Padova, Bruno Biral; uno che pochi anni dopo si sarebbe battuto contro i tedeschi a Ravenna. La conversazione era continuata con uno studente di Milano, Duilio Morosini. Ritrovo altri nomi. Bruno Becchi ucciso dai fascisti; Giuliano Treves colpito da una granata fascista davanti a Santo Spirito, Ruggero Jacobbi, che avrei riveduto a Milano negli anni del Politecnico.
Di quei Littoriali, molte cose che allora non sapevo le ho imparate durante la guerra in un libro allora abbastanza famoso di Ruggero Zangrandi. Fra noi Bruno Zevi, Francesco Arcangeli, Adriano Seroni, Mario Alicata, Mario Spinella, Aldo Borlenghi, Vito Pandolfi, Antonello Trombadori, Antonio Rinaldi, Enzo Paci, Rosario Assunto…

2.
Che cos’era per lui la Sicilia? Un libro nazional-patriottico, letto appassionatamente da ragazzo, con storie raccapriccianti sulla vigilia dello sbarco dei Mille (e andò a cercare il Convento della Gancia, dove i patrioti s’erano aperti nel muro un foro per la fuga; o le immagini lugubri del colera del 1867, nella Vita militare del De Amicis; e Verga naturalmente; e Pirandello che con grande emozione aveva scorto una sera).
Ma non si creda sapesse. Non sapeva nulla. Era un tumulto furioso di speranza e vergogna, audacia e timidezza, il capo pieno di letteratura e paura, con le esaltazioni e la volontà di sublime di certa piccola gente fiorentina. Scriveva e leggeva pazzamente, diviso tra amori meravigliosi o sordidi. Si trascinava con l’affanno e l’angoscia di sapere chi fosse mai, che cosa avrebbe dovuto fare, senza una vocazione e con la rabbia di averne una, chiedendone in ansia agli amici, incapace di guardare in faccia i propri familiari. Con quelle giornate palermitane, fra coetanei che non capiva e gli parevano troppo più maturi di lui, si era pagato altri giorni, una vacanza solitaria, dove potersi abbandonare al turbine e all’urlio delle grida interne. Da allora gli pare di non aver conosciuta una primavera come quella, di non aver visto più un mare come tra Cefalù e Palermo.
Avrebbe voluto non dormire mai. Le forme delle donne, le contadine nere, lo trapassavano come coltellate, in quel dormiveglia continuo che erano le sue giornate. Ma era troppo sfinito per i desideri, solo a notte gridava di incoscienza e miseria nei letti dai materassi di crino e invocava una sconosciuta immaginaria che scalza entrasse nel buio, dalle terrazze delle locande. Viaggiava su treni lentissimi, di notte, lungo immensi paesaggi. Arrivava all’alba tra montagne starne e solenni. Riusciva a sfamarsi con qualche frutto, una scatoletta di carne, un po’ di pane asciutto. Piangeva e rideva improvvisamente. Giurava a se stesso, non sapeva bene che cosa, ma qualcosa sì, come una promessa spaventevole. Nei crepuscoli erano azzurre e viola la casipole bianche di calce che si allontanavano sui campi ancora tutti neri. Il sole nascente lo scottava in fronte abbandonato su una panca di terza classe. Quello sono stato io. Nessuno potrebbe più riconoscerlo.

3.
Si erano formati, rammento, gruppi spontanei di contestatori. Alcuni si raccoglievano intorno a quelli che a Napoli, l’anno prima, avevano dato qualche scandalo prendendosela con le formule delle tesi ufficiali. Ero tra quelli. Nelle aule dei convegni, nei corridoi e alle mense (ma anche da Caflish) uno strano movimento, strane conversazioni fatte di mezze parole o di tortuosi ragionamenti. Erano quelli che fra noi agivano – lo capii molto più tardi – secondo un disegno politico di cernita o di reclutamento (antifascista) oppure di accertamento o provocazione (fascista).
I più, come me, non si orientavano in quel gioco di tendenze mascherate e di gruppi. Ci guidava un istinto imperfetto a distinguere fra quelli e questi, era l’avversione  per l’intervento in Spagna, per i tedeschi, per la salubrità e il virilismo goliardico che ci circondavano, per l’enfasi nazionalistica. Avevo incontrato un mio compagno di corso, Sigieri Minocchi, fascista di “sinistra” (la formula non esisteva ma la realtà sì) generoso e amareggiato per quel che avvertiva ruotare tutt’intorno ai convegni. Quattr’anni dopo, volontario, gl’inglesi lo avrebbero ucciso in Cirenaica.
Ma noi, gli oppositori, eravamo quasi tutti degli inconsapevoli snob, aspiranti privilegiati. Il fascismo dei gerarchi ci appariva, soprattutto, stupido e rozzo. Per le nostre menti appassionate e inconsapevoli e, per questo, anche segnate da tradizioni retrive, esaltare la modernità d’allora, dell’arte e della letteratura delle avanguardie europee (che sì e no conoscevamo dalle riproduzioni o per sentito dire) voleva dire avversare i funzionari e i gerarchi. Essi non capivano quasi nulla. Noi, poco più di loro. Mi buttavo con imprudenza nelle dispute, pur sapendo di essere già segnato dalle spie. Dire “Gide” o “Picasso” era un modo di insultare quelle grinte militaresche.
Lessi anni fa che a Francesco Arcangeli o a me si attribuiva perfino di aver insolentito certi commissari di un convegno al grido di “Fascisti! Fascisti!”. Quanto a me lo nego, non ne avrei avuto il coraggio; o non me ne ricordo.
Fra i nostri gruppi in grigioverde si aggiravano tre o quattro giovanotti  con certe camicie color terra di Siena bruciata, calzoni corti e calzettoni, alla tirolese. Al braccio portavano una fascia color rosso acceso con un disco bianco che conteneva una sorta di croce nera. Erano quelli i primi nazisti che vedevo. Mi facevano ribrezzo e paura. A quei tempi studiavo un po’ di tedesco con una ragazza ebrea che aveva lasciato Monaco e, a Firenze, mangiava un giorno sì e un giorno no in attesa di raggiungere la Galilea.
Con sconsolata pazienza cercava di farmi capire qualche cosa. Cinque mesi più tardi, il Gran Consiglio del Fascismo avrebbe emanati i primi decreti in difesa della razza. A settembre avremmo avuto la crisi di Monaco, per entrare nel sorsi, la sospensione condizionale della guerra. Come avrei voluto vivere quel mio ventunesimo anno senza dover decifrare i segni del cielo. Ma nel cielo limpidissimo di Palermo quelli erano ogni notte sopra di me.
Quando i dibattiti furono conclusi, quelli che si erano sentiti vicini per le cose dette, e più per le taciute, prima di separarsi si ritrovarono, come per caso, al banco e ai tavolini di un piccolo bar. Interrompendo un silenzio sopravvenuto fra quei sette o dieci giovani, non so come mi venne di dire: “Adesso ciascuno di noi torna alla sua città e non ci vedremo più. Ma se le cose dovessero mutare e precipitare, basterà picchiare col piede per terra” (e qui credo di aver davvero battuto col tacco dello stivale di quella nostra uniforme) “e ci ritroveremo tutti”. Poi ci siamo salutati.
Andai al porto, in visita di una nave della Kriegsmarine che entusiasmava i fascisti. Era una delle due, credo, che allora si chiamavano “corazzate tascabili”, col tonnellaggio di un incrociatore e la potenza di fuoco di una corazzata, varate per rispettare formalmente il trattato di Versailles. Si chiamava Admiral Scheer. Sui gradini del sarcofago di Federico II di Hohenstaufen, nel Duomo di Palermo, avevo visto la corona d’alloro deposta dalla Scheer.
A bordo, tra meraviglie tecniche che non sapevo valutare, due segni inattesi. Nella stireria della nave da battaglia lavoravano alcuni cinesi. Non sapevo che nella marina da guerra tedesca (anzi: germanica come il regime preferiva che si dicesse) i servizi fossero sbrigati dalle razze inferiori. Poi, ben disposte lungo una murata, una serie di foto incorniciate con cura. C’era una città vista dal mare, qua e là impennacchiata da esplosioni. Una scritta spiegava che la città era Malaga e riportava la data del cannoneggiamento eseguito da quei gentili marinai. Credo di aver incominciato a capire cosa intendesse il Fuhrer quando parlava di “non intervento” nella guerra civile spagnola.    

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