Un popolo che ne opprime un altro
non è un popolo libero
Ancora una volta è Lenin che ci offre la formula giusta per sintetizzare il significato profondo della partecipazione dell’Italia alla guerra contro la Libia : una guerra che è tanto sporca da essere diventata invisibile. In effetti, se si confrontano le situazioni belliche di 20 o di 8 anni fa con quella attuale, tutto risulta peggiore. Non solo per la quasi unanimità dei giudizi, ma anche per la irrilevanza delle voci che si distaccano dal coro. Ci si può, quindi, domandare se l’opinione pubblica sia così facilmente manipolabile, e la risposta è duplice. Sì, se si tratta di creare in pochi giorni un qualche consenso; no, se si guarda alle dinamiche profonde. Dopo due decenni di declino morale, economico e politico degli Stati Uniti e di crescita di altri modelli di sviluppo (Cina, India e Brasile), dopo i mutamenti politici ed elettorali, la scomparsa dei partiti storici e la nascita di nuovi partiti, la crescita di una generazione che non ha conosciuto il mondo bipolare e le varie forme di “guerra fredda”; si poteva, sì, pensare che la destra come mentalità autoritaria avesse guadagnato terreno nella società e nella cultura diffusa, in corrispondenza alla decomposizione delle sinistre, ma non che il bene-rifugio sarebbero tornati ad essere, insieme con i ‘contractors’ occidentali che operano al fianco degli ascari monarchici e filo-imperialisti di Bengasi, gli aerei e gli elicotteri che, nel silenzio pressoché totale dei ‘mass media’, bombardano ininterrottamente da cinque mesi, giorno e notte, la popolazione di Tripoli e delle altre città che sono rimaste fedeli a Gheddafi.
È evidente che avevamo sottovalutato le dinamiche profonde costituite dagli interessi e dai sentimenti. Non solo i ceti dominanti, ma anche e forse soprattutto gli strati depressi o impoveriti, compresa una quota consistente dei cosiddetti ‘ceti medi riflessivi’, hanno qualcosa da difendere da quel Terzo Mondo che nelle nostre contrade ha il volto dell’arabo, un volto che è visibile ad ogni angolo di strada. La differenza che sconcerta chi faceva assegnamento sulla forza della ragione, la differenza che rende paurosi questi mesi, è che la media borghesia, l’Italia più o meno colta, una parte del ceto politico, che in qualche misura erano state una barriera alle peggiori tendenze dell’età di Bush (e che hanno plaudito all’avvento di Obama), si sono dislocate dalla parte di queste ultime, esprimendo un riflesso di difesa istintiva e di odio malcelato, una “unione sacra” che è tanto più inquietante quanto più è tacita, avendo assunto come marmoreo presupposto (non un minimo di confronto e di discussione, in termini sia etico-politici che geopolitici, circa la liceità, la legittimità e gli scopi di questa guerra neocoloniale, ma) la scotomizzazione della sua stessa esistenza, quasi che fosse unicamente un’operazione di polizia internazionale e, dunque, un ‘affare privato’ delle forze militari che la conducono e non un conflitto imperialistico destinato ad incidere profondamente sulle relazioni fra gli Stati e i popoli che si affacciano sul Mediterraneo. Sennonché constatare ciò significa enunciare una verità inconfutabile in una società irrespirabile. Il ‘colpo’ politico-istituzionale che, con il più autorevole avallo presidenziale, è giunto a cancellare l’articolo 11 della Costituzione, ha il consenso degli italiani, e non saranno la crisi economica e i tagli selvaggi al tenore e alla ‘qualità della vita’ imposti dalla finanziaria ‘lacrime e sangue’ a farli recedere dal consenso alla guerra ‘invisibile’, poiché basterà loro scendere in strada e guardare facce maghrebine e senegalesi, aprire il giornale, ascoltare i comunicati della radio.
Mentre scrivo questa riflessione etico-politica sulla guerra contro la Libia , i raid della Nato continuano a distruggere le città della Libia, ma l’effetto peggiore che hanno già ottenuto è la distruzione di ogni linguaggio razionale, la soppressione di qualsiasi voce contraria, l’instaurazione del terrorismo ideologico allo stato puro. Nel frattempo, qualche giornalista di lungo corso ci ricorda nei suoi editoriali, a livello interlineare, che per fare le frittate bisogna rompere le uova e che le vacanze con l’automobile, tanto più in tempi di crisi economica, non sono possibili senza la trasformazione, in pezzi di cadaveri impastati di sangue e di sabbia, di un elevato numero di corpi umani di etnia e di lingua araba. Quei corpi che, da vivi, non sia mai detto!, avrebbero voluto magari farci pagare il doppio ogni litro della loro benzina, mettendo a repentaglio, più di quanto già non siano, le borse mondiali (ecco il vincolo sanguinoso che, come insegna Lenin, unisce indissolubilmente, sotto il tallone di ferro dell’imperialismo, la crisi economica, la guerra e la reazione). Nessuno deve stupirsi, allora, per esprimerci con un’ipotiposi adoperata da uno scrittore che conosceva e praticava il “sarcasmo appassionato”, se «l’azionista vuole portarsi a casa, incartato nel quotidiano finanziario, un suo pezzetto di arabo morto perché i figli imparino a beccare e a nutrirsi».
Fra tanti nefasti effetti, la guerra in corso ha, tuttavia, quello utile di demistificare il moralismo che da ogni parte ci soffoca, e di spingerci a opporre a tale moralismo spicciolo la dura eticità del realismo politico (si potrebbe evocare, a questo proposito, il primato dell’eticità sulla moralità, cioè di Hegel su Kant). Ma ancora non basta: al realismo politico (che si basa sulla invarianza della “natura umana”) si deve opporre la positività dell’ideologia, vale a dire una finalità che non è solo un “dover essere” né solo un “poter essere”, ma la tensione dinamica e dialettica fra quello e questo. Contro il moralista il realista ha ragione; ma contro il realista hanno ragione la fede nella liberazione, la speranza nella pace e nella giustizia e l’amore per l’uomo.
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