7.7.11

Un corpo imbarazzante. Mameli: le traversie della sepoltura (D. Bidussa)


Il monumento funebre a Goffredo Mameli
al Cimitero monumentale del Verano in Roma.
Il corpo del poeta non abita più là.
Nel gennaio del 2010 Feltrinelli ha pubblicato gli Scritti politici di Goffredo Mameli, per la cura di David Bidussa che ha scritto il saggio introduttivo. L’anticipazione pubblicata da “La Stampa” il 9 gennaio 2010, racconta sotto il titolo Mameli clandestino nella storia d'Italia le traversie della sepoltura. (S.L.L.)
Lo storico David Bidussa
Del corpo di Mameli si potrebbe discutere come di altri corpi nella storia italiana per sottolineare come nel suo caso – a differenza di quelli di Mussolini e Matteotti, di Moro e Padre Pio, di Pio IX e Vittorio Emanuele II – non si siano prodotte emozioni, ma spesso scene meste: da quella della sua lunga agonia al destino del suo corpo dopo la morte. Un corpo che a lungo costituisce imbarazzo. Lungi dall’essere un padre della patria, Mameli è stato a lungo un «clandestino» nella storia italiana: oggetto di più cerimonie funebri, tutte contrassegnate dall’imbarazzo, comunque dall’assenza del potere pubblico, al più accompagnato dai suoi amici in una condizione di solitudine, comunque di «sconfitta». Con una città, Genova, che nel momento della morte impedisce alla famiglia di prendersi il corpo e sotterrarlo nella sua città. E una città, Roma, che ospita quel corpo, ma non lo vuole, comunque si sente imbarazzata dalla memoria di una figura che ricorda l’esperienza della Repubblica Romana del 1849 e i suoi protagonisti come un «affronto al Papa» fatto proprio nella «Città del Papa». Che poi Pio IX sia scappato e non espulso conta poco. Nella memoria collettiva conta e pesa il fatto di aver tentato (così come nella Repubblica giacobina del 1798-1799) di costruire una nuova identità, fatta di riti, di simboli, di parole e di gesti verticalmente alternativi a quelli propri della «città del Papa».
Quello del corpo di Mameli è un lungo viaggio di cui vale la pena di riportare le tappe principali, anche perché costituisce un «manuale» dell’uso politico del Risorgimento su cui è bene riflettere e che ci riguarda da vicino. Appena morto (6 luglio 1849), Goffredo Mameli viene imbalsamato da Agostino Bertani e poi deposto nel cimitero sotterraneo della chiesa delle Stimmate, a Roma. Nel 1871 le autorità ecclesiastiche autorizzano la riesumazione del corpo, ma il nuovo governo italiano non è favorevole a una cerimonia pubblica. Mazzini è ancora un braccato in Italia (ricordiamoci che muore sotto falso nome a Pisa nel marzo 1872). Infatti solo dopo la morte di Mazzini si autorizza un funerale pubblico e la sepoltura al cimitero del Verano, a Roma. Ma quella cerimonia è strana: ci sono molti vecchi compagni d’arme, Garibaldi è assente, la famiglia non assiste. Il funerale è civile. Qualcuno intona il Canto degli Italiani, cui segue la lettura di alcuni scritti di Mameli. Quelle parole suscitano il disappunto dei rappresentanti del governo presenti e dunque il corpo viene sepolto in un loculo del cimitero, in attesa di un posto dignitoso.
Nel 1891, in occasione della decisione di erigere al Gianicolo un monumento a Giuseppe Garibaldi, la Giunta comunale di Roma chiede che sia deciso dal governo ciò che il Parlamento aveva deliberato, ovvero che sia edificato un sacrario accanto al monumento dedicato ai caduti per l’unione di Roma all’Italia. Il governo risponde negativamente. Così nel 1889 Alessandro Guiccioli, figlio di Ignazio Guiccioli, ministro delle Finanze della Repubblica Romana del 1849, decide di proporre l’edificazione di un monumento funebre al Verano. Il monumento è costruito e inaugurato nel 1891 e il 26 luglio di quell’anno le spoglie di Mameli vengono sepolte lì. Ma il corpo di Mameli crea ancora imbarazzo. In nome dei buoni rapporti con l’Austria, in quell’occasione nessuno esegue il Canto degli Italiani.
La vicenda sembra così chiusa. E infatti nessuno pensa più a Mameli finché, nel 1941, a guerra iniziata, Mussolini rievoca la morte di Mameli per colpa delle armi francesi. Quindi, in piena guerra, per celebrare l’italianità, Mameli torna di nuovo utile. Viene allora deciso di costruire quel sacrario votato dal Parlamento, mai deciso dal governo italiano e che era stato al centro delle polemiche settant’anni prima. Così, prima ancora della fine dei lavori, le spoglie di Mameli vengono di nuovo riesumate e trasportate all’Altare della Patria per essere poi collocate, in attesa del termine dei lavori, a San Pietro in Montorio, nel quartiere di Trastevere, poco sopra la fossa nella quale erano stati collocati i resti dei caduti per la Repubblica Romana. Come molte cose nella storia italiana, niente è più definitivo di una decisione transitoria, e infatti è lì che ancora oggi si trovano.
Questa storia è significativa. La vicenda specifica di Mameli illustra con efficacia la condizione di «esilio in patria» di cui hanno sofferto a lungo i democratici nella storia italiana. Infatti, essa allude alla difficoltà con cui il termine repubblicano è entrato nella cultura degli italiani. Una parola – repubblica – e un sentimento che non hanno mai goduto di una cittadinanza particolarmente benevola e che proprio nel 1848 acquistano un connotato preciso. In quel contesto essere repubblicano significa almeno tre cose, a parte rifiutare il re, la dittatura o l’arbitrio. Per la precisione: 1) completa adesione all’amor di patria; 2) laicità, ovvero tenere lontana la religione rivelata dalla politica e contemporaneamente combattere la Chiesa di Roma come fonte accertata di dottrine controrivoluzionarie; 3) essere con il popolo e dunque assumere la democrazia come procedura, e come atti prima ancora che sistema di regole.
Questi tre aspetti, al di là del dato celebrativo che fa del 1848 una sorta di «evento battaglia», tenderanno a isolare i repubblicani nell’opinione pubblica fino a trasformarli in «antinazionali». Ciò è effetto di un doppio movimento: da una parte, perché i democratici nel ‘48 recuperano simboli, riti e immagini che furono del giacobinismo italiano; dall’altra, perché per reazione riprendono forza quei miti negativi che nel l’opinione pubblica e nella memoria delle insorgenze antifrancesi avevano identificato i giacobini con l’antitalianità (un percorso che è tornato nella cultura dell’antirisorgimento di quest’ultimo decennio). Con ciò si accredita, o si rafforza, l’idea che ci sia un’estraneità dell’ideale democratico-repubblicano rispetto al profilo dell’identità italiana e, contemporaneamente, si intravedono già le difficoltà che segnano il percorso stentato, comunque «in salita», proprio della cultura della laicità nella società italiana. Allora come ora.
È questo il crinale stretto in cui diviene chiaro perché, al di là dell’oleografia, Mameli, come molti altri, sia rimasto una figura in ombra nella cultura nazionale. I suoi scritti costituiscono per questo un indizio significativo. Proprio perché individuano un canone culturale.

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