Gina Lagorio |
E’ stato pubblicato nei giorni scorsi come ricordo di Gina Lagorio, la scrittrice che fu anche parlamentare della Sinistra indipendente nella Decima Legislatura, una raccolta di scritti politici nati in quarant’anni di attività letteraria e giornalistica. Il volume ha come titolo Parlavamo del futuro ed è stato curato dalla figlia della scrittrice, Simonetta, e pubblicato con una prefazione di Furio Colombo (Editore Melampo).
Benedetta Centovalli, che il 16 luglio scorso ha recensito il volume per "Tuttolibri", ne ha estratto una frase programmatica sul valore delle parole: «Chi usa le parole deve prima pensarle, pesarle, misurarle. Perché le parole sono semi, lievito, virus, veleno, non passano nel vento, ma restano, si radicano, proliferano». Scrive Centovalli che Gina Lagorio “aveva ben chiaro in mente, da scrittore di razza… che quotidianamente si danna sulle parole, quanto fosse importante la loro aderenza alla verità”; e aggiunge che per lei coincidono “la cura delle parole, la capacità sempre intatta di indignarsi e di difendere la libertà e la possibilità di essere felici”.
Questa riflessione la uso a corredo del brano che qui propongo, un inedito della scrittrice di Bra pubblicato da “L’Unità” in occasione della sua scomparsa il 20 luglio 2005. Si tratta di un testo non propriamente politico, scritto per l’Associazione Amici di San Lorenzo, una chiesetta sita a Varigotti, sulla Riviera ligure. E’ un testo esemplare di come un luogo può essere raccontato mescolando storia, memoria, capacità di vedere e sentire; ma ancor più è un esempio di come la cura delle parole possa essere via a una possibile felicità. (S.L.L.)
Benedetta Centovalli, che il 16 luglio scorso ha recensito il volume per "Tuttolibri", ne ha estratto una frase programmatica sul valore delle parole: «Chi usa le parole deve prima pensarle, pesarle, misurarle. Perché le parole sono semi, lievito, virus, veleno, non passano nel vento, ma restano, si radicano, proliferano». Scrive Centovalli che Gina Lagorio “aveva ben chiaro in mente, da scrittore di razza… che quotidianamente si danna sulle parole, quanto fosse importante la loro aderenza alla verità”; e aggiunge che per lei coincidono “la cura delle parole, la capacità sempre intatta di indignarsi e di difendere la libertà e la possibilità di essere felici”.
Questa riflessione la uso a corredo del brano che qui propongo, un inedito della scrittrice di Bra pubblicato da “L’Unità” in occasione della sua scomparsa il 20 luglio 2005. Si tratta di un testo non propriamente politico, scritto per l’Associazione Amici di San Lorenzo, una chiesetta sita a Varigotti, sulla Riviera ligure. E’ un testo esemplare di come un luogo può essere raccontato mescolando storia, memoria, capacità di vedere e sentire; ma ancor più è un esempio di come la cura delle parole possa essere via a una possibile felicità. (S.L.L.)
Varigotti, Savona |
Chissà se Vincenzo Cardarelli abbia mai soggiornato a Varigotti: me lo son chiesto ogni volta che ho posato gli occhi sulla chiesa di San Lorenzo, alta a guardare il Golfo dei Saraceni. In Liguria egli esclama: «O chiese di Liguria, come navi / disposte a esser varate!» e l’immagine torna nella lirica Sera di Liguria: «Le chiese sulla riva paion navi / che stanno per salpare». Ma qui le chiese sono «sulla riva» e così le vedo, accanto al mare, come navi appunto pronte al varo; quello slancio aereo che faccio coincidere con la varigottina San Lorenzo non c’è più. E già ripensandola, ora che le parole e le immagini del libro pronto anch’esso a essere varato, frutto di lungo studio e grande amore di un gruppo di amici, fanno da cornice ai pensieri, sento che niente può dare vita alla chiesa di San Lorenzo meglio di quel verso, che le apre le strade dell’infinito; prima nell’aria azzurra, poi nel grande alveo marino si cui posarsi, aerea fantasia che io pittore tradurrei al modo di Chagall o di Baj.
Ecco, oggi che tanti anni sono trascorsi dalla prima volta in cui ne scrissi, so che la chiesetta – studiata da specialisti saputi e amorosi e ristrutturata - non è più per me quella di allora, fatta di pietre e di memorie private, ma è diventata un simbolo, un’insegna, una bandiera.
Un’insegna che dice insieme il tempo e il luogo in sui si accampa. Una bandiera degli uomini che intorno vi hanno abitato, fedeli a principi eguali nei secoli, non soltanto religiosi ma civili. Un simbolo di culto alla bellezza, quella che nessuna vicenda storica può cancellare e che si scolora soltanto se chi vive rinnega la grazia del vivere tra eguali nella diversità distinta dal destino di ciascuno e rispettata da tutti.
Per chi non fosse transitato in questo angolo privilegiato di Liguria, traccio una mappa essenziale: l’immagine più nota, lo scenario principe di Varigotti appare venendo per l’Aurelia da Savona quando si esce dalla galleria del Malpasso, strapiombo di roccia chiara che il tramonto colora di rosa: è il Golfo dei Saraceni, sovrastato dalle fortificazioni bizantine e longobarde distrutte nel 1341 dai genovesi che interrarono il porto, e guardato da San Lorenzo, abbazia benedettina sopravvissuta alla corrosione del tempo e dei venti. Un giallo cartello turistico annuncia Varigotti come «borgo saraceno». Si tratta di una sequenza di case su entrambi i lati dell’Aurelia e uno guarda tra palme e oleandri al mare dove una spiaggia sabbiosa e ghiaiosa corre per circa un chilometro e mezzo, e l’altro alla roccia che incombe, interrotta nel suo aspro grigio da vivaci apprezzamenti di vigna e di orto, da ulivi, da alberi del pepe e dagli scuri grovigli della macchia mediterranea. Quando si arriva alla fine del rettilineo e la strada s’incurva sotto un gruppo di case aggrappate allo scoglio, dette degli Olandesi, siamo fuori Varigotti, la meta ormai è Finale, tanto più popolata di gente di alberghi di negozi di turismo. Ci voltiamo e lo abbracciamo tutto, il paese marino, srotolato come un tappeto ai piedi del promontorio dove si nasconde il suo cuore antico, il borgo vecchio dei pescatori, attorno al Golfo dei Saraceni.
Ci siamo chiesti il perché di questo nome: forse perché partì di qui nel 954 la spedizione di Guido da Ventimiglia contro i corsari che dalla base di Frassineto si muovevano alle crudeli incursioni sulle coste di Liguria e oltre, fino alle Langhe piemontesi? O perché furono loro, i Saraceni, a sfruttarne primi il porto? Tutto è vago, ormai, nelle nebbie del remoto passato, che pure ebbe momenti di gloria se nella cronaca dello pseudo Fredegario fra le «civitates» marine distrutte dal longobardo Rotari nel 643 e ridotte in semplici «vici», accanto a Genova, Albenga e Luni c’è anche Varicottis.
Libero «comitatus», poi possesso dei Marchesi del Carretto che vi eressero un castello dalle rovine l’occhio spazia su un arco di coste vertiginoso - Varigotti fu ancora nei primi dell’800 un Comune con 570 abitanti; non so di quanti oggi; oppure...
Eppure, tra i «luoghi» del turismo ligure, Varigotti ha un fascino speciali. Forse perché avevano scoperto Varigotti con altri torinesi, Valletta della Fiat e Natalia Ginzburg, perché vi si incantò immalinconendosi Pavese che ci ripensò scrivendo La spiaggia. Noi, mio marito e io, e poi qualche coppia giovane uscita libera dalle furie della guerra, l’avevano scelta per la quiete che ci sembrava ideale per i bambini: nessuna mondanità, nessun chiasso.
Se poi avessimo avuto voglia di ballare, c’era sempre il «dancing» che divide ancora i due territori di Varigotti e di Finale, all’ombra della torre che custodisce le ceneri del finalese Maresciallo Caviglia. E i giovani padri s’iniziarono ai segreti della pesca, le mogli impararono a cucinare sàgari e pàgari, acciughe, cefali e naselli. Varigotti era a quel tempo un’altra cosa. E lo è ancora.
A impedire le colate di cemento ch’hanno alterato il paesaggio costiero del Savonese, è stata la natura qui così avara di spazi, non solo, ma anche la predilezione degli artisti che hanno ringhiato ogni volta ch’hanno potuto contro le speculazioni. Certo è che se i limoneti, simili ai giardini siciliani, sontuosi di profumi e di fresco ancora ai primi del Novecento, sono stati costretti ad arrendersi all’edilizia nell’esigua superficie piana che si stende oltre l’Aurelia, tuttavia Varigotti, anche sotto il profilo architettonico, è diversa: nelle case del borgo vecchio prevale il tipo mediterraneo, pareti bianche, forma a cubo, finestre minuscole, tetti a terrazza, vicoli stretti, scale esterne - come su tutte le sponde del Mediterraneo, a Casablanca come a Ponza. E persino i nuovi costruttori – ahimè non sempre! ne hanno subito il richiamo. Quasi che la storia, persino la più nuova e cialtrona, si sia inchinata alla discrezione naturale e all’intatta bellezza dell’ambiente. La pittura del Novecento non per caso vi ha fatto tappa, estemporanea o consueta: ci veniva a dipingere barche Eso Peluzzi, Oscar Saccorotti ne passeggiava l’entroterra in cerca di fiori rari per le sue incisioni mirabili, Dova ci ha abitato per anni e così Emilio Scanavino; a trovare gli amici Bardini arrivavano puntuali, con Agenore Fabbri, Giuseppe Capogrossi, Mario Rossello, Lucio Fontana; Carlo Dionisotti dall’Inghilterra ogni estate villeggiava con Marisa e, insomma, può capitare all’estero che qualcuno non ricordi una città in Liguria, ma se chi parla è un poeta o un artista, dov’è e com’è Varigotti lo sa di sicuro.
Gli stranieri, inglesi tedeschi e francesi soprattutto, hanno visitato in lungo e in largo questo tratto di Liguria nei secoli; James Edward Smith della Linneaean Society per esempio, nel 1786, percorse a dorso di mulo l’entroterra di Varigotti e le sue osservazioni su questo naturale orto botanico, sul «convolvulus sabatius» che nasce solo qui, inatteso, dalle rocce ai primi venti caldi di maggio, accanto al rosmarino, al corbezzolo, al ginepro, al mirto sacro a Venere, all’euforbia d’oro, alle eriche, ai festoni di capperi, all’inebriante lavanda, hanno un incanto anche letterario.
È la flora che inebria con i suoi colori e odori la strada per approdare alla chiesa di San Lorenzo. Comeavrebbe esultato Sbarbaro alla scoperta dell’inglese: «Un bell’esemplare di “Lichen perlatus” in frutto, il primo che abbia mai visto in questo stato». «Un miracolo compiuto dal clima fatto dolce dal mare e dalle montagne che bloccano i venti del Nord. Un’altra ragione per eleggere Varigotti «paesino del cuore». Così Sbarbaro mi scriveva, il 20 novembre 1961: «Ho goduto quell’angoletto (dove si fu insieme) di Varigotti in un modo struggente. Era il tramonto, un cielo di nuvolette leggere; e tutto rosa: mare, spiaggia, case, monti».
E poiché la chiesetta di San Lorenzo sorse in un’area attigua alla necropoli che incombe anch’essa sul golfo dei Saraceni, quando ci penso, invidio quei morti cullati nel loro lungo sonno dalla voce del mare.
Forse anche per questo l’immagine del poeta è così struggente: le chiese di Liguria sono pronte al varo nell’azzurro di un’eternità che soltanto la bellezza dell’arte ci consente di sognare.
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