“Tuttolibri” del 25 giugno 2011 rievocava con due articoli di Massimo Raffaeli e di Giuseppe Culichia la morte quasi contemporanea, l’1 e il 2 luglio 1961, di Céline, il maledetto francese ancora lordo della duplice infamia di antisemitismo e collusione coi nazisti e di Hemingway, lo scrittore americano circonfuso di gloria e gonfio di rum. Riprendo qui, in ampio stralcio, il “pezzo” di Raffaeli, che si presenta anche come recensione di un libro di Robert Poulet, un amico di Céline, una sorta di “alter ego”. (S.L.L.)
Due scrittori che non potrebbero essere più opposti e complementari, Ernest Hemingway e Louis-Ferdinand Céline, muoiono a distanza di poche ore, il 1˚ e il 2 luglio del 1961: l’uno, circonfuso di gloria e gonfio di rhum, si suicida nel suo buen retiro di Ketchum, Idaho, mentre l’altro, ancora lordo della duplice infamia di antisemitismo e collusione coi nazisti, si spegne per un aneurisma nel villino-catapecchia di Meudon, a Ovest di Parigi, dove è ritornato nel ’52 in semiclandestinità, dopo anni di prigione e di esilio in Danimarca. I giornali sparano su nove colonne il suicidio di colui che traduceva l’esistenza in velocità dattilografica incarnando la via americana alla letteratura, come ne fosse il mito temerariamente hard boiled ; al recluso di Meudon, viceversa, riservano scarne notizie di agenzia e qualche imbarazzato necrologio in cui si riferisce la scomparsa di una belva collaborazionista.
A cinquant’anni esatti di distanza, il rapporto può dirsi invertito: il nome di Hemingway è chiuso in una cifra stilistica che retrospettivamente sembra simulare la velocità della radio e del cinema nello stesso momento in cui la subisce e vi soggiace, mentre la petite musique del narratore francese, la musica infera che risuona nel Viaggio al termine della notte o in Morte a credito , con lo spartito che registra il delirio emotivo dell’individuo solo nella massa (e nell’epoca delle guerre mondiali, del colonialismo e del fordismo), sembra oggi l’unica tonalità all’altezza degli orrori del Secolo Breve.
Il libro-intervista di Robert Poulet Il mio amico Céline (ora riproposto da Elliot) esce in Francia nel 1958, tre anni prima della morte dello scrittore, però annuncia un’inversione di tendenza. Poulet (Liegi 1893 - Marly-le-Roi 1989) è uno sparring ideale, anzi è un sosia céliniano in quanto pure lui risulta essere un ex collaborazionista, un ex condannato a morte e un ex amnistiato; scrittore poligrafo, di ascendenza reazionaria, rivivrà trasfigurato, tra Occupazione e Resistenza, nel romanzo-epopea di Hugo Claus che si intitola La sofferenza del Belgio.
Per parte sua, Céline lo accoglie volentieri nell’arca di Meudon (tra i cani molossi e l’ineffabile Coco, il pappagallo), gli dà corda, parla e come di consueto straparla, inscena il teatro della propria decadenza e tuttavia non smette mai di raccontarsi e di tornare sui frangenti di un’autobiografia ossessiva, mentre la sua voce è già scrittura in atto, prosodia in forma di jazz, quella stessa che abita la cosiddetta Trilogia del Nord , il ciclo di romanzi che equivale al suo testamento d’autore…
Senza affatto prevederlo, il libro di Poulet anticipa un processo di canonizzazione letteraria che in Francia si avvia poco dopo con l’uscita di un primo volume céliniano nella collana della Pléiade, l’equivalente di uno scranno fra gli immortali…
Qualcosa di simile gli accade in Italia se è vero che, quando nel novembre del ’93 esce per la prima volta da un piccolo editore marchigiano Il mio amico Céline , il terreno della sua ricezione è da tempo predisposto dove nessuno se lo aspetterebbe, vale a dire con il marchio della sinistra intellettuale. In maniera rigorosamente ufficiosa è Italo Calvino a propiziare l’ingresso di Céline nel catalogo di Einaudi con la traduzione vivacissima de Il Ponte di Londra – Guignol’s Band I (1971) a cura di due giovani promesse, il francesista Lino Gabellone e lo scrittore Gianni Celati, ed è ancora Italo Calvino a volere il doppiaggio di Nord (1975), l’epicentro della Trilogia, a firma del poeta Giuseppe Guglielmi…
Così come accade in Francia, dopo una messe di pubblicazioni e riconoscimenti, anche in Italia la comunità dei lettori sa distinguere oramai Céline da Céline, cioè l’ambiguo amico della Kommandantur parigina, il pornografo razzista di Bagatelle per un massacro dal grande narratore (martire, per etimologia) che guarda alle vicende del secolo dai bassi di un’umanità assoggettata, derelitta, priva di qualunque speranza.
In quest’ottica, anche Il mio amico Céline , un libro concepito da Poulet come una vera e propria apologia, riguadagna la funzione originaria che lo fa essere tanto un referto in presa diretta quanto un’autobiografia scritta per procura. All’uscita del volume un altro céliniano accanito, il poeta Giovanni Raboni, ne coglie il senso e la necessità alludendo a «un Céline al quadrato, parlato e al tempo stesso scritto, un Céline dal vivo che tuttavia è anche un Céline ricostruito, un personaggio da Museo Grévin». Insomma un autore finalmente approdato alla perfetta solitudine e insieme alla paradossale condizione di ogni classico, la cui attualità è garantita dal fatto che la pagina, già declinata al passato remoto, brucia nel tempo presente solo per ritrovarsi intatta al futuro anteriore.
Pure all’eremita di Meudon è dunque capitato, per esclusivo amore della verità, di «venire trascinato più avanti di dove si può andare, fin dove nessuno poteva aiutarlo»: anche se gli si attaglia maledettamente, non è una frase che si debba attribuire a lui, perché a pronunciarla fu invece Ernest Hemingway, un fratello che la morte gli impedì di riconoscere.
Nessun commento:
Posta un commento