31.7.11

L'onore della cugina americana (di Agostino Spataro)

Il mio antico compagno ed amico Agostino Spataro, dirigente e deputato del Pci, poi giornalista (è oggi commentatore politico nelle pagine siciliane di “Repubblica”), mi manda notizia di un suo raccontino, assai sapido, pubblicato a inizio luglio sul magazine del quotidiano italo-americano “America oggi” di New York. Ha come tema l’onore e c’entra la mafia (la mafia c’entra sempre), ma qui non è nel pieno della sua attività. Si potrebbe chiamare “racconto di mezza mafia”. (S.L.L.)
In quella calda serata di giugno, don Isidoro Cipolla si era steso sulla jittena[i], sotto la vecchia pergola stracarenti del partito al governo. Voti e picciotti erano gli ingredienti più efficaci per accumulare prestigio e potere...
Un potere tirannico che genera morte e rovina. Il potere e la morte. Un binomio tremendo che lo assillava anche nel sonno. Poiché anche la morte data agli altri evocava la sua morte, sempre incombente...
Mentre tutto ciò rimuginava, irruppe la voce, agitata, della figlia Nardina: “Papà, papà, corri corri! Ti vogliono a telefono… dall’America”.
Don Isidoro non si scompose, quasi stesse aspettando quella telefonata.
All’altro capo il cugino Antonino, da Brooklyn, si lamentava per la rottura del fidanzamento della figlia più piccola, Lucietta, che era stata piantata da un giovane di buona famiglia siculo-americana. Una rottura improvvisa, immotivata che aveva gettato la fanciulla nella disperazione e nella vergogna l’intera famiglia.
“La ragazza ha bisogno di partire da Brucculinu, per svagarsi, per dimenticare questo bellimbusto”, concluse il cugino americano.
E in tutto il Pianeta non vi era luogo più adatto a tale scopo che il natio borgo, sperduto in quell’angolo di Sicilia terragna, dove la sfortunata ragazza sarebbe stata accolta da una caterva di parenti premurosi.
Sulle prime, don Isidoro se ne stette muto e lo lasciò sfogare. Anche se gli rodeva il fegato per quell’affronto grave, anche per lui. Gli dava ai nervi la rassegnazione di quel minchione americano e avrebbe voluto reagire alla sua maniera: “Cuscì, ma veramente non c’è più nulla da fare?”
“No, oramai le corde si sono rotte”- sempre più rassegnato l’americano.
“Si sono rotte, ma si possono riattaccare”.
“No cuscì, gli abbiamo fatto parlare, ma nulla. Santo che non suda è”.
“Ma chi ha parlato con quest’uomo inutile?”
“Amici suoi e della nostra famiglia, ma non ci fu verso”
“Amici, amici? O personcine di cuore?”
“No, conoscenti di famiglia. Non vogliamo disturbare persone importanti, altrimenti a fetu finisce”.
“E che disturbo c’è per queste cose. Quando c’è il bisogno. Allora gli amici a che servono?”
“No cuscì. Lasciamo perdere. Vuol dire che non c’è volontà di Dio”.
“Sapete come diciamo qua: dove Dio non può l’uomo provvede. Se volete faccio una telefonata a New York”.
“No, per l’amore di Dio! Lasciamo perdere. Oramai la pietra è caduta nel pozzo”.
“Mah! Che posso dirvi. Nella nostra famiglia mai sono successe queste cose; nessuno s’era mai permesso di farci un’offesa simile…”
“Ragione avete, ma il mondo è cambiato e qui siamo in America”.
“Più che il mondo, mi pare che voi siete cambiato...”
“Capisco cosa volete dirmi, ma non ci possiamo fare nulla. Vediamo di farla divagare, prima o poi un’altra provvidenza le dovrà capitare”.
“La provvidenza non capita, ma si deve cercare. Comunque, sempre dico, se volete, posso telefonare e vedremo se questo signorino non dovrà rinsavire”.
“Niente cuscì, lasciamolo perdere. Vi mando Lucietta per qualche mese e fatela divertire. E chissà se al paese non trova di meglio?”
“Va bene. Se volete, qua, lei, prima che arrivi, lo trova di meglio”.
“No cuscì! Quando sarà laggiù si vedrà. Sapete com’è, l’ebica[ii] d’ora ragiona diversamente”.
“L’ebica d’ora? Quando non s’insegna l’educazione. Noi questi problemi non li abbiamo avuti e fin tanto che camperò io, siatene certo, non li avremo…”.
“Capisco cuscì, ma qui è diverso, siamo in America, non siamo al paese”.
“Anche qua è diverso. Che vi credete? Ma per la nostra famiglia è sempre uguale”.
“Tuttavia, per quanto diverso sia non può essere come qui, caro Isidoro”.
“Ammimchiastivu! Vi dico che anche in Sicilia le vergogne abbondano, anzi centu vrigogni parino anuri[iii]. Ma nella nostra famiglia non si usa questo traccheggio: tutti filano dritti, uomini e femmine”.
“Mah! Facciamo la volontà di Dio. Se vi fa piacere ve la mando, con l’aereo fino a Palermo”.
“Cuscì in America siete divenuto tutto di Dio. Qua per arrivare a Dio l’amici ci vogliono. L’avete dimenticato? Comunque, per me è come se fosse un’altra figlia. Mandatemela e vedrete che starà tanto bene con le sue cugine”.
“Okèy! Però vorrei che la faceste girare un po’ per la Sicilia. Mi raccomando. Qui i giovani sentono parlare di Tavormina, di Mungibeddru, di quel paese vicino Palermo dove c’è quella potente cattedrale; come si chiama…camurria, non mi viene il nome…”
“Murriali vorreste dire ?”.
“No. Mi pare che si chiami Cefalù, dove c’è anche il mare per farsi i bagni”.
“Tavormina, Cefalù…e che sono dietro l’angolo? Comunque, se così volete sarete accontentato”.
“Cuscì, non vorrei arrecarvi disturbo: le spese sono tutte a mio carico. Intesi?”
“Ma che spese e spese! Mi volete offendere? Solo che mi sembra un sopruso che per divertirsi bisogna andare così lontano dal nostro paese”.
“Se voi avete da fare la mandate con vostra figlia”.
“Cuscì, allora non ci siamo capiti! Mia figlia da sola non ha dove andare. Lei davanti e io dietro”.
“Va beni, okey. Lo dicevo per non darvi disturbo”.
“Nessun disturbo. Quando c’è di camminare per bisogno niente si guarda…”
“Ma non è per bisogno! Per farla svagare, vi ripeto”.
“Lasciate fare a me: per loro è divertimento, per me è bisogno. Se avete fiducia, lasciate fare a me che sono più grande”.
“Fiducia? Voi lo sapete: siete più grande e come un altro padre vi considero”.
“E allora, io faccio il padre e voi il figlio. Comunicatemi il giorno del suo arrivo che ci faremo trovare a Punta Raisi”.
Don Isidoro, tutto incupito, lasciò la stanza e tornò a sdraiarsi sulla jittena. Era preoccupato che quell’affronto subito a Brooklyn si sarebbe potuto riverberare sul suo prestigio di boss locale. Le malelingue d’oltreoceano si sarebbero attivate e la notizia del ripudio sarebbe arrivata in paese prima della ripudiata. E quanti risolini beffardi e commenti salaci si sarebbero fatti alle sue spalle! Tutta colpa di quello scimunito cugino americano che si era rassegnato a subire l’offesa di un “signor nessuno”, senza pensare al danno che avrebbe arrecato all’onore e al prestigio della famiglia. E lui, don Isidoro Cipolla, doveva ingoiare il rospo e per giunta assecondare le bizze di quella ragazzina viziata. E dire che sarebbe bastata una telefonata per evitare quell’imbarazzante viaggio turistico!
“Eh! L’America sta andando alla deriva! Da quando si sono allentati i vincoli con la madreterra, questi siculo - americani vacillano; vorrebbero apparire persone per bene e non si accorgono che il loro perbenismo sarà la tomba dei valori antichi…”
A tavola, don Isidoro era d’umore nero, non riusciva a star fermo sulla sedia come se stesse sedendo sopra pale di fichidindia spinosi. Abbandonò il desco per andare a informare il “paparanni”.
Don Gaetano era in terrazza e si faceva vento con un fazzolettone a quadri rossi e bianchi. Alla vista del volto rabbuiato del nipote, il vecchio boss rientrò in casa e ordinò alla moglie di preparare il caffè. Era questo un espediente per tenere la donna lontana dalla conversazione. Intuì lo stato d’animo del nipote e l’invitò a parlare, saltando i convenevoli: “Beh! Andiamo al fatto”.
Isidoro gli raccontò, per filo e per segno, quella telefonata, stigmatizzando la minchioneria del cugino americano. Don Gaetano si rese conto che il nipote non era venuto per consiglio, ma per una convalida e volle assecondarlo: “Umh! Qui dobbiamo giocare con astuzia. Dobbiamo far vedere a tutti che siamo uniti e festanti. Quando arriverà a Palermo ci andremo all’incontro e se vorrà visitare Taormina o qualsiasi altra città siciliana partiremo tutti insieme. Il paese deve vedere che la nostra famiglia è sempre unita e festante. L’unità è la migliore risposta a quelli di là e a questi di qua. Non dobbiamo dar loro questa soddisfazione. Anzi dobbiamo trasformare la disgrazia in una frivolezza,
come se si trattasse di un festino in famiglia. Nessuno dovrà sapere che Lucietta sta venendo per “vrigogna”, tutti dovranno vedere che arriva per svagarsi. E noialtri con lei… Allegria, Isidò!”
“Così dice vossia e così faremo”, suggellò Isidoro.
Lesse il telegramma tutto d’un fiato: “Arriva at Palermo ore 11,30 dopodomani 22 - Vostro cugino Antonino- stop”.
Le donne della casa entrarono in agitazione. Quella notte nessuno riuscì a prendere sonno. Alla cantata del gallo, tre automobili nere, prese a nolo, si avviarono per la discesa che costeggia il monte Saraceno, fendendo un’ombra tetra che cominciava ad evaporare sotto i colpi del sole nascente.
Il piccolo corteo sorpassò una lunga fila di carretti cigolanti diretti verso le terre grasse della piana. A bordo, sagome avvizzite di contadini scrutarono quei volti che correvano: quello cupo di don Isidoro e quelli un po’ tirati delle donne al seguito. Fino a quando le auto uscirono dalla nuvola di polvere biancastra della provinciale e imboccarono la strada per Palermo.
Qualcuno azzardò un’ipotesi: “Malattie?”.
“No, peggio. Disonore!”, sentenziò un altro che gli sfilava accanto.
agspata@tin.it


[i] jittena: rialzo in gesso sul davanzale di casa su cui ci si stendeva per conversare o per riposare.
[ii] ebica: generazione
[iii] cento vergogne sembrano onore


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