1.7.11

Sindacato dei delegati: dall'autunno caldo una lezione per l'oggi (L.Campetti)

DEMOCRAZIA

Nel 1969 l'unità sindacale
nasce dal basso.
Una lezione valida
ancora oggi
L’autunno caldo
investe e cambia il sindacato.
Dai “gruppi omogenei”
e dalle “avanguardie”
nasce la democrazia di mandato
e, tra i metalmeccanici, l’Flm.

Esiste un unico luogo in cui la storia sindacale sembra essersi fermata a prima dell’80. Più che un luogo è un manufatto: una targhetta metallica, forse in rame, su cui è inciso l’acronimo Flm, ossia Federazione lavoratori metalmeccanici. Un cancello in corso Trieste, una breve salita e infine una palazzina con i suoi tre piani che ospitano separatamente i soci fondatori della Federazione: Fim, Fiom e Uilm. Oltre quella scritta, della storia della Flm resta nulla, salvo la memoria di qualche nostalgico – in tempi in cui la memoria è una colpa e la storia una palla al piede - della più straordinaria esperienza consiliare del dopoguerra italiano.
Due dei tre piani della palazzina ospitano oggi i firmatari di un documento stilato da Fim, Uilm e Federmeccanica per sancire la fine, anche formale, di una storia rimossa e irripetibile, almeno nelle forme conosciute. Il contratto separato, però, rappresenta qualcosa di più: la fine di un’unità superiore a quella tra sigle e storie sindacali, l’unità dei lavoratori e dei lavoratori con i propri rappresentanti, la fine del diritto della «base» di decidere – persino di esprimersi – su accordi e contratti che la riguardano. Quelle firme in calce al testo sanciscono la morte della democrazia nei luoghi di lavoro e sono un grimaldello per smantellare l’intero sistema della già claudicante democrazia italiana. Anche la più edulcorata e snaturante eredità dei consigli, le Rsu con cui le sigle sindacali avevano ripreso possesso dei posti di lavoro, riducendo autonomia, peso e potere decisionale dei lavoratori, va stretta ai crociati della postdemocrazia. Se oggi nella politica vige lo sciagurato principio della dittatura della maggioranza, domani il riverbero del contratto separato dei metalmeccanici potrebbe affermare ovunque il principio della dittatura della minoranza. Perché la Fiom, unica organizzazione non firmataria della controrivoluzione contrattuale, rappresenta la maggioranza dei meccanici ed è ridotta al silenzio, insieme alla maggioranza dei meccanici.
Vale dunque la pena andare a scavare sotto l’insegna di corso Trieste per riscoprire un’idea diversa, opposta di democrazia, costruita non nelle elaborazioni delle segreterie dei tre sindacati fondatori della Flm, ma dentro il movimento operaio italiano, nel suo cuore pulsante.
Sulle origini dei consigli di fabbrica il dibattito è ancora aperto, almeno tra quei quattro gatti che ancora ne parlano, ma non è così importante stabilire se nacquero prima del ’69 e quanto prima, all’Alfa o a Mirafiori, alla Pirelli o magari in qualche recondita fabbrichetta meccanica o tessile emiliana, o appollaiata sotto i monti Sibillini. Io ricordo quando, prima ancora dell’esplosione dell’autunno caldo le «avanguardie» (si chiamavano così) del movimento studentesco di Camerino scendevano dai monti verso la piana industriale di Fabriano per partecipare ai picchetti contro gli straordinari e ritornavano all’università occupata insieme ai primi delegati di gruppo omogeneo, invitati all’assemblea in cui allo striscione «Potere studentesco» venne aggiunta una riga, un’apertura di credito all’esterno conquistata tumultuosamente: «Potere studentesco e operaio». Quei delegati ci spiegarono come erano stati eletti, in una squadra, in un reparto, in un’officina, in un gruppo omogeneo, da lavoratori che condividevano una condizione, dei movimenti, delle sofferenze, una catena, il frammento di un ciclo produttivo di cui volevano finalmente sapere tutto. Per modificarlo con la lotta. Non erano più i sindacati di categoria a nominare o far eleggere i loro rappresentanti perché portassero in fabbrica la linea dell’organizzazione d’appartenenza. Al contrario, erano i lavoratori a scegliersi democraticamente i rappresentanti, i delegati incaricati di battersi per conquistare migliori condizioni, ridurre fatica, fumi e nocività. E di trattare con la controparte, il padrone (si chiamava così). Se quei delegati, che potevano avere o non avere una tessera sindacale in tasca, non rispettavano il mandato della base potevano vederselo revocare in qualsiasi momento. Fatte le lotte, gestita la trattativa, l’eventuale ipotesi di accordo doveva essere validata dal giudizio e dal voto dei diretti interessati.
Come scrive Pino Ferraris in questo speciale, era la «democrazia di mandato». Non si trattava più di democrazia delegata, del sindacato che si irrorava nei posti di lavoro attraverso quelle Commissioni interne a cui tanta parte del Pci era aggrappata, guardando con diffidenza spinte spontanee ed egualitarie. Né si può parlare di democrazia assembleare, tanto cara a quelle nascenti organizzazioni di sinistra che videro nei consigli la lunga mano della burocrazia sindacale («signor padrone/ non c’hai fregati/ con l’invenzione dei delegati/ e questa volta come lottare/ lo decidiamo soltanto noi», era l’inno di Lotta continua). Tanto gli uni – il Pci – quanto gli altri – la galassia micropartitaria dell’estrema sinistra – contribuirono a costruire la fine dell’esperienza consiliare. Il delegato operaio, recitava l’appello prodotto alle Officine ausiliarie Fiat di Torino nel maggio ‘69, «deve poter trattare con tutta la gerarchia di fabbrica, dal capo reparto fino al capo del personale. Il suo compito non deve essere quello di trasmettere alla c.i. (la commissione interna, ndr) il problema che il collettivo operaio ha. Il collettivo operaio si impegna a difendere il suo delegato dagli spostamenti. È chiaro infatti che la Fiat non ci dà i delegati; bisogna farseli, fare in modo che funzionino e difenderli». Al centro dell’appello c’era la costruzione di «un potente e unitario movimento dei delegati operai, che abbia come obiettivo permanente il controllo operaio sulle condizioni di lavoro e sulla produzione».
Da questa struttura informale nasce e si generalizza in tutto il paese, liberato da pochi mesi dalle gabbie salariali, un processo di rifondazione del sindacato che diventerà, per una stagione troppo breve, il sindacato dei consigli, che tra i metalmeccanici troverà uno sbocco nella Flm. Un lavoro tanto militante quanto scientifico di autoinchiesta operaia attivato dai tre sindacati metalmeccanici uniti sotto un’unica sigla, diede alla luce un volumetto dal titolo «L’ambiente di lavoro/ Nessun fattore nocivo». Vi si analizzava ogni movimento lavorativo, ogni innaturale postura a cui squadre di operai erano costretti, e ancora i ritmi eccessivi, la monotonia, la ripetitività di operazioni che si reiteravano con una cadenza di poche decine di secondi. Ansia, dolori, malattie professionali, fino all’alienazione. Questa pubblicazione, in cui si elaborava la narrazione operaia, segnava l’inizio di una proficua collaborazione tra lavoratori, sindacati e tecnici. «Rossi ed esperti», si diceva così. Medici e ricercatori mettevano a disposizione il loro sapere, con i Maccacaro e gli Oddone nacque il primo nucleo di Medicina democratica mentre i primi pretori del lavoro tentavano di condurre la giurisprudenza in una direzione meno classista e separata dalla società.
La maledizione del lavoro trovava in fabbrica, finalmente, soggetti antagonisti, capaci di opporsi all’organizzazione e alle gerarchie date senza aspettare direttive dall’alto. Fu questo processo di rottura dello stato di cose esistente, prodotto dall’incontro tra la generazione dei dirigenti operai sopravvissuti agli anni duri – determinati, politicizzati, intrisi di etica del lavoro, spesso professionalizzati – e i giovani immigrati dal sud, a imporre il contratto dei metalmeccanici più importante siglato a dicembre, l’indomani delle bombe di piazza Fontana.
Il tentativo coraggioso di estendere la democrazia di mandato e l’autorganizzazione dalla fabbrica alla società ebbe breve vita, con i comitati di quartiere spontanei caduti vittime dell’istituzionalizzazione forzata imposta dal sistema politico per stopparne l’impatto «eversivo» con qualche sporadico consiglio di zona. Eppure, persino tra i militari di leva partì un movimento che coglieva nella pratica consiliare – in diverse caserme del Nord, per una breve stagione, vennero persino eletti i delegati di camerata, e in Friuli e a Mirafiori furono organizzati volantinaggi fatti da soldati in divisa davanti ai cancelli delle fabbriche - uno strumento per democratizzare il più separato tra i corpi separati. Intanto altri corpi separati, altre istituzioni totali come i manicomi venivano smantellati dal lavoro di altri movimenti rossi ed esperti (Basaglia). Uno dei punti più alti del confronto tra movimento consiliare operaio e istituzioni si realizzò verso la fine di questa rimossa rivoluzione italiana, con il presidente della Camera Pietro Ingrao invitato a discutere di lavoro e di Stato alla Montedison dal consiglio di fabbrica di Castellanza.
La democrazia di mandato segnò gran parte degli anni Settanta, con strascichi fino all’80. Il contratto dei meccanici del ’79, come si ricorda in questo speciale, fu strappato «per ragioni di ordine pubblico», con le lotte in strada più che in fabbrica. La chiusura del ciclo è sancita in un manifesto appeso ai cancelli di Mirafiori il giorno dell’accordo scritto di proprio pugno da Cesare Romiti e imposto dai sindacati confederali per chiudere i 35 giorni della Fiat. Autore, il pressaiolo Pietro Perotti ma firmato da quel volto di Marx diventato icona della disperata lotta operaia: «Avevamo la ragione e la forza. Ci è rimasta la ragione… Coraggio compagni».
Non è questa la sede per cercare i killer del sindacato dei consigli che pure era riuscito a salvarsi dalla repressione di stato, ma bisognerà tornarci per districarsi tra le concause della sconfitta: la normalizzazione imposta dal Pci e da gran parte dei sindacati confederali con la svolta dell’Eur; la deriva terroristica di un pezzo di movimento; l’incapacità di reggere, alla lunga, alla risposta del capitale alle lotte con l’arma dell’innovazione tecnologica; il venir meno delle lotte egualitarie, soppiantate da quelle prevalentemente salariali finalizzate alla conquista operaia di nuovi e più omologati consumi. Eppure, le provocazioni del ’69 tornano d’attualità oggi con la crisi della rappresentanza e della democrazia sindacale. Le forme che fino all’accordo separato sul sistema contrattuale avevano regolato le relazioni tra i lavoratori, tra questi e i sindacati, tra i sindacati e le imprese e la politica, sono state cancellate ma la loro crisi veniva da lontano. Non è da lì che si può ripartire, né da una improbabile ricostruzione verticistica dell’unità sindacale.
Perché non ripartire proprio dalla democrazia di mandato, e da quei delegati di gruppo omogeneo che seppero costruire una nuova unità, di base, quindici o vent’anni dopo che l’unità postbellica era stata spazzata via da una rottura dettata da lontano, dall’altra parte dell’Atlantico, nell’epoca della Guerra fredda?

Da Il potere doveva essere operaio - Supplemento a "il manifesto" - novembre 2009

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